domenica 30 novembre 2014


                                           ANVEDI! LA ROMA BUGIARDA DI FILIPPO LA PORTA

Forse è vero che la sostanza di Roma, come città, sta tutta nel tragitto concettuale che separa due modi di interloquire che i suoi abitanti usano per commentare ogni fenomeno che entri a far parte della loro esperienza: “Anvedi!” e “Chettefrega?”. Il primo, una manifestazione di pacato stupore per la varietà degli aspetti del mondo, e l’altro, un po’ pateticamente menefreghista, tipico del distacco un po’ cinico di una popolazione che “non crede in alcuna dialettica storica poiché in vita sua ne ha viste troppe”.
Sono tra le prime note che incontriamo nella perlustrazione dei luoghi della capitale che fa Filippo La Porta nel suo Roma è una bugia, uscito nella fortunata collana “Contromano” di Laterza. Indagine particolarmente complessa, non solo perché la nostra capitale è un palinsesto di evi storici, di stili architettonici e di tracce di cultura che si sono sovrapposte e conglomerate negli ultimi 2.500 anni, creando un groviglio sublime quanto inestricabile; ma anche perché se Roma c’è ancora, i romani, invece, da tempo, non esistono più.
Assottigliatisi a una piccola fetta della città imperiale, i veri romani ormai sono probabilmente quasi tutti concentrati in rioni periferici. Dunque l’identità romana è artificiosa, non ha radici. I due milioni e passa di romani di oggi sono di recente immigrazione: arrivati, nei secoli, con le ondate di urbanizzazione, e soprattutto con quelle successive al trasferimento della capitale dopo l’Unità. Giustamente La Porta ricorda che probabilmente l’unico nucleo autenticamente romano, la memoria storica della città, stabile nella capitale non solo d’Italia, ma del cattolicesimo, dal secondo secolo prima di Cristo, è – paradossalmente - quello della comunità ebraica. Al ghetto, non a caso, “si trova la cucina verace di Roma”. Cibi “torbidi e insolenti” – La Porta cita Manganelli – fritti e frattaglie, pesanti e poveri, ma di vera tradizione. E si trova anche “il fondo insondabile del temperamento romano, composto di giocosa tolleranza e dolce sbracatezza”.     
Ma La Porta, invece, è un romano vero. Per questo il suo libro, e non poteva essere altrimenti, è insieme un addentrarsi nei singoli rioni e nei loro monumenti, e una autobiografia a sprazzi, fatta dell’incrociarsi dei tragitti della vita dell’autore con i luoghi significativi della città. A cominciare dall’Aventino, una sorta di enclave borghese, tranquilla al limite del surreale, a due passi dal rumoroso Testaccio e dalla monumentale Caracalla. Tutti posti che sono stati, volta a volta, scenari di famosi film, abitazioni di scrittori e poeti, oggetto di descrizione di intellettuali in transito. Un rione di ambasciate, chiese, di gente che viaggia, quasi l’emblema di una città che contiene un enigma: perché è il teatro “di un’apocalisse sempre rinviata”, di qualcosa che sembra sempre sul punto di finire, di dissolversi.
E ancora lo spazio di piazza del Popolo, metafisico, quasi deserto, tanto da far quasi rimpiangere il tempo in cui era un immenso parcheggio; o di Trastevere, zona un tempo popolaresca e rissosa, oggi concentrato di turisti in cerca si esotismo capitolino. Il Pantheon e gli obelischi, via Merulana, i Parioli, nella loro “scintillante automitologia”; il liceo frequentato da La Porta, e i cimiteri, a partire da quello acattolico (“degli inglesi”, per i romani), con le ceneri di Gramsci. Fino alle periferie, fino a quella specie di cinta muraria di automobili che è il GRA.
Raccogliendo i fili delle testimonianze di scrittori italiani e stranieri, La Porta viene costruendo la trama della sostanza di una città inafferrabile. Perché è vero che Roma “assolve ogni peccato”, per tornare a Manganelli, e “possiede un’infinita, saggia tolleranza”. Ma è anche vero che la sua pigrizia fisiologica sembra coprire un vuoto, un bisogno di prendere tempo di fronte a una fondamentale mancanza di vere prospettive. Perché Roma è anche una sorta di grande laboratorio nazionale dove, quasi nell’indifferenza, ciò che cambia viene sperimentato per diventare fenomeno diffuso. A partire dal momento in cui a Roma (e in particolare alla Rai, aggiungo io) si è consumata una frattura tra la cultura dell’industria e quella dell’accademia, che ha prodotto il declino di cui oggi portiamo le conseguenze. O si sono lanciati i progetti di grandi opere architettoniche, in definitiva di poca sostanza, che hanno drenato i finanziamenti che sarebbero bastati per un’infinità di opere piccole, che avrebbero potuto essere necessarie e salvifiche.
C’è, nella vita romana, come una sensazione di struggimento, di dissoluzione, confortata dall’imprecisione degli appuntamenti, dalla approssimazione degli impegni presi. Lì, dice de Quevedo, “il fuggitivo permane e dura”. Ecco perché, per La Porta, Roma è una bugia. Perché finge, inganna – se e gli altri. Dietro le sue scenografie barocche, dietro i suoi tramonti “che promettono una felicità illusoria”, rinviando, procrastinando, cerca di evitare che la sua eternità diventi caduca.

    (Da "L'immaginazione", n. 283) 
                                                                                                                       SVELAMENTI

Giornalaio di Linate; dietro il bancone ci sono due signore, non giovanissime. Arriva un cliente: "Cercavo un libro di Manfredi, mi pare si intitoli : Le meraviglie del passato". E le signore, pronte: "Siamo noi, le meraviglie del passato".

mercoledì 29 ottobre 2014

NON SIAMO INNOCENTI.
IL DECLINO DEL PAESE
E’ RESPONSABILITA’ DI TUTTI


“La nostra organizzazione sociale ha bisogno di una generazione di 'lavoratori della mente' (…) desiderosi di sfuggire a una piatta impiegatizzazione (...) mettendo le proprie competenze a disposizione della comunità”.
  Sante parole. Nel suo ultimo libro, Senza sapere – il costo dell'ignoranza in Italia, Laterza, 2014, Giovanni Solimine si schermisce, dicendo che sarebbe presuntuoso, per lui, indicare la via per uscire dalla situazione di drammatico declino culturale del nostro paese. Ma in effetti il suo libro, assieme a una puntuale analisi della crisi in atto, ricca di dati e utili riferimenti alla letteratura esistente, è un compendio di cosa si dovrebbe e si potrebbe fare per smuovere le acque stagnanti della palude in cui si è impantanata l'Italia.
Parte, Solimine, dal comparto in cui si è più speso, per la sua produzione scientifica e il suo impegno civile, e cioè quello della lettura e del sistema bibliotecario. Disegna un quadro drammatico, che va oltre la modesta percentuale di lettori che ben conosciamo: se più di metà degli italiani non legge nemmeno un libro l'anno, appena l'8% dichiara di avere significativi interessi culturali. E mentre nell'ultimo ventennio la spesa delle famiglie per la telefonia è aumentata del 360%, quella per i consumi culturali è calata del 38%. Non vado oltre. Ma quello che conta è che, come ricorda Solimine, l'accesso alla conoscenza è fonte di benessere, mentre noi, dopo gli anni Settanta, siamo diventati più ricchi, ma meno colti e quindi anche meno felici, meno capaci di vivere responsabilmente la modernità e meno consapevoli.
E siamo diventati ignoranti. Abbiamo svilito scuola e università, non abbiamo investito nelle biblioteche e nella formazione degli adulti, non abbiamo riconosciuto il valore della conoscenza. Di chi la responsabilità di questa deriva? Inutile prendersela con chi ci ha governato. Non siamo innocenti, è colpa di tutti, anche se in particolare della classe dirigente: dei politici, che hanno perseguito l'utile personale invece del bene generale; del ceto imprenditoriale, portato solo agli interessi di bottega; degli intellettuali, rinchiusi su se stessi e incapaci di proporsi come guida per l’uscita dalla crisi; ma anche di una società civile cinica e distratta, che quella classe dirigente ha tollerato e subito.
Non dobbiamo illuderci: Solimine ricorda che abbiamo già assistito al declino di popoli con alle spalle tradizioni millenarie. Noi stiamo, appunto, sprecandole. Potremmo salvarci se riconoscessimo che la conoscenza è un bene comune ineludibile; se riducessimo le disuguaglianze, che sono un freno alla crescita; se capissimo che la comunicazione culturale e scientifica è un’infrastruttura essenziale; se potenziassimo le biblioteche pubbliche e le mettessimo all’altezza della sfida della modernità; se lo stato e i privati investissero nella ricerca; in definitiva, se decidessimo di combattere l’ignoranza.
Importante la precisazione sui cosiddetti “beni comuni”, termine che rischia di diventare “una delle più stucchevoli parole-chiave del dibattito politico ed economico”, utilizzata spesso a sproposito. Giustamente, si sottolinea, bene comune non è solo qualcosa di proprietà collettiva o aperta al pubblico, ma soprattutto qualcosa di cui tutti si è partecipi, che riporti a valori condivisi. Ed ecco perché in Italia l’istruzione, la tutela dei beni culturali, la conoscenza in quanto tale e la lettura non sono riconosciuti come beni comuni. Con il disastro che ne consegue.
Nel suo percorso, Solimine non può fare a meno di analizzare il rapporto che la conoscenza ha con lo sviluppo della tecnologia della rete. Senza chiusure preconcette, è però importante l’indicazione che fa nel ricordare che bisogna distinguere tra informazione e conoscenza. Che la sovrabbondanza di informazioni non comporta comprensione, e  che – citando Metitieri -  “La gran parte degli utilizzatori dei motori di ricerca (…) tende ad arrestarsi di fronte ai primi risultati, senza che ne vengano valutate la pertinenza, la rilevanza e l’attendibilità, e quindi senza che si possa produrre un’appropriazione critica e consapevole dei contenuti”.
Forse non ci sono qui le indicazioni per uscire dalla crisi del paese; ma mentre c’è chi continua a pensare che ci vogliano subito nuove leggi contro la corruzione e la criminalità, qui viene almeno ricordato, dati alla mano, che “i paesi nei quali i livelli di istruzione e di partecipazione alla vita culturale (…) sono più alti”, quelli “in cui le biblioteche marcano una presenza più incisiva, sono anche i paesi in cui i livelli di competitività sono più elevati, la corruzione e la criminalità pesano in misura minore, la parità tra i sessi è pienamente acquisita”. 
E’ lì, dunque, nella battaglia per la cultura, che si decide se sapremo batterci contro il declino.


(Da “L’Immaginazione”, settembre-ottobre 2014)

martedì 14 ottobre 2014

GUIDO MARIA BRERA:
E SE LA NOSTRA ECONOMIA FOSSE NELLE MANI DEI DIAVOLI?


Ma voi avete una vaga idea di cosa voglia dire guadagnare trenta milioni di dollari l’anno? Ecco, è una dimensione che noi umani, piccolo borghesi, non riusciamo nemmeno a figurarci. Eppure ci sono dei signori che lavorano nella grande finanza che guadagnano così. Riusciamo invece a figurarci benissimo che ci siano dei momenti in cui una dozzina di uomini potentissimi decidono, nel chiuso di un loro lussuoso ufficio, che cosa ne sarà di un intero paese, della sua economia, della sua valuta. Lo immaginiamo perché è sempre consolatorio pensare che i nostri guai dipendano da un grande complotto, da poteri oscuri, da circoli occulti, da società segrete. Subito dopo, di solito, ci convinciamo che non può essere così, che la realtà è più semplice, e che se c’è la crisi, se l’economia non tira, se il pil non cresce, in fondo, come pensa la Merkel, la colpa è solo nostra.
Forse, invece, sbagliamo. A leggere I diavoli (sottotitolo: La finanza raccontata dalla sua scatola nera), Rizzoli, 2014, di Guido Maria Brera, non solo veniamo a sapere come vivono, quei signori da trenta milioni di dollari, ma anche che può succedere che l’attacco a un paese, il nostro, e a una moneta, l’euro, sia pianificato e portato avanti da un gruppo di speculatori talmente spregiudicati da non essere nemmeno marginalmente interessati alla ricaduta umana e sociale di un’operazione tanto brutale.  
Con il ritmo di un giallo avvincente, Brera racconta la storia di uno di quei diavoli, simili ai “diavoletti di Maxwell” che, se esistessero, cambierebbero le leggi della fisica; e che nella finanza esistono, perché sono quei sensibilissimi e temerari giocatori di borsa che fanno i soldi con i soldi e decidono, loro, come devono andare le cose. I prezzi, i mercati, sono governabili. “Il mercato sono io”, dice un diavolo. Ed è capace di giocare, manipolando gli scambi, fino a far salire e scendere i prezzi in funzione dei suoi investimenti.
 La descrizione di come si vive alla guida di un gruppo di operatori che passano la vita sui loro computer a comprare e a vendere i milioni come fossero pizzette è, da sola, un romanzo a sé. Sono uomini che devono vivere in anticipo: “Oggi non è mai oggi. Oggi è già domani”. E “Il passato è un posto strano”, qualcosa che non si può nemmeno quotare in borsa, e quindi, in fondo, inutile e senza senso.
Il protagonista, Massimo, venticinque completi blu tutti uguali, ha sì una moglie, dei figli, una passione per il mare e per la pesca, un albero di natale in casa. Ma è innanzitutto un trader italiano che è diventato il leader di una merchant bank londinese, filiale di una grande banca americana. La sua vita è soprattutto, quasi tutta, lì, nel grande ufficio, il floor: “Nel floor c’è il riflesso del mondo. Fuori dal floor c’è il mondo, ignaro del proprio riflesso”.
Ma succede che i protagonisti di questo “grande gioco” decidano di far fuori il mercato italiano, di far precipitare le quotazioni, di far lievitare lo spread. E che Massimo, il nostro protagonista, si trovi in mezzo a una grande speculazione che punta a ridurre l’Italia a uno pae marginale, dal quale poi, una volta consumata fino in fondo la crisi, spremere lavoro umile a basso costo. E si ribella. Lascia il suo pagatissimo posto a Londra, lascia la moglie, che non può capirlo, lascia un intero mondo, basato su false verità economiche e speculazioni spregiudicate che hanno conseguenze mostruose. Perché non se la sente di portarne la responsabilità morale. Memorabile lo scontro tra il cinico americano e il sensibile italiano: “La finanza doveva essere la cinghia di trasmissione, invece è diventata il centro di tutto”. (Lo penso da un pezzo anch’io, Ndr.) “Abbiamo venerato il denaro come un feticcio. Abbiamo comprato giudici, politici, agenzie di rating e sindacati. Abbiamo cambiato leggi e commissariato Paesi, ma non siamo riusciti a creare ricchezza vera per tutti”. E già, qualcosa di cui in tanti avevamo avuto il sospetto.
Non anticipiamo qui un finale al cardiopalmo, ma possiamo dire che si intuisce che l’autore debba aver avuto un’esperienza molto simile, e che alle volte l’etica possa far capolino anche nei centri più cinici del potere economico. Quello che colpisce è l’idea che, appunto, possa essere andata così anche per quel che riguarda la crisi dei PIGS, della Grecia, della Spagna, e soprattutto dell’Italia. Che i complotti (finanziari) possono esistere davvero e che dei signori, a Londra e a New York, dietro i loro computer, senza avere niente a che fare con l’economia reale, con chi lavora e produce, con le fabbriche e i commerci, con la ricerca e gli scambi di culture e di conoscenze, possano far declinare l’economia di un intero paese, impoverirne la classe media, succhiarne risparmi e risorse e trascinarlo verso la marginalità.
Questo è  un romanzo. Ma mette fastidiose pulci negli orecchi. E se quei complotti, quei gruppi di potere, quei circoli occulti esistessero davvero, se qualcuno, complice la Germania, avesse deciso – indipendentemente dal fatto che noi abbiamo fatto o no i “compiti a casa” – che dobbiamo essere la parte debole dell’economia europea, e che si debba pagare, tutti noi meridionali, un vassallaggio alle economie più potenti? 


lunedì 8 settembre 2014

 L’ATTUALITA’ DI BOBBIO:
DESTRA E SINISTRA, 20 ANNI DOPO

Quello che colpisce ancora oggi, del famosissimo libro di Norberto Bobbio, è la dimensione quasi puntigliosa dell’analisi di quella che resta la principale dicotomia politica della modernità; un’analisi svolta con una precisione che sarei tentato di definire ossessiva, tanto è dettagliata ed esaustiva. E che parte dall’esame delle argomentazioni di chi – allora come oggi - contesta la persistenza di significati profondi e divaricatori nei termini di questa diade. L’editore Donzelli ha giustamente ristampato Destra e sinistra con un’ampia appendice; ma non è soltanto un riconoscimento all’alta qualità del lavoro dello studioso perché, nella rilettura, emergono prepotentemente i motivi della attualità del testo. Per individuarli, val la pena ripercorrere le tappe dell’indagine, per cui andiamo con ordine.
Bobbio inizia analizzando le posizioni di chi contesta che, nelle democrazie avanzate, ci siano ancora vere antitesi nei diversi progetti politici, sostenendo che ormai permangono soltanto differenti soluzioni tecniche ai problemi interni a sistemi dati. Sensato ma non decisivo, dice Bobbio. Ed è vero che possano esistere forti punti di contatto anche tra schieramenti politici contrapposti, che gli schieramenti trovino conforto in autori che sono stati considerati maestri dallo schieramento opposto, che uno dei due fronti possa entrare in un’eclisse che lo esclude dalla competizione, come è vero che esistono zone intermedie, centrismi, che sfumano le differenze, e che possono oscurare le zone di contrapposizione. Vero, come è accaduto che la sinistra abbia riconosciuto il valore di Nietzsche e la destra quello di Gramsci. Ma non elimina la contrapposizione, come naturalmente non è che il bianco e il nero non esistono solo perché esiste il grigio.
 Non ci si può limitare a contrapporre schieramenti moderati a quelli estremistici, dice Bobbio, perché può accadere che ce ne siano a destra come a sinistra. Né si può sostituire la diade destra-sinistra con quella progressisti-conservatori, perché le due caratteristiche possono essere declinate, con varie sfumature, per tutte e due gli schieramenti. E non vale nemmeno il riferimento a un credo religioso, anche questo identificabile in ogni schieramento.
Ci sono contrapposizioni che, invece di basarsi su forti caratterizzazioni ideali, sono dovute all’uso di valori strumentali (benessere/vs/austerità, o individualismo/vs/anti-individualismo), ad atteggiamenti conoscitivi (romantico o realista, critico o sentimentale), che però non coincidono con la diade destra-sinistra. Ci sono infatti romantici, individualisti e austeri in ogni schieramento. Per Marco Revelli destra e sinistra non sono concetti assoluti, cambiano nel tempo, e non si possono fissare contenutisticamente. Un’attribuzione alla destra di forte radicamento su suolo, natura e storia, difesa del passato e delle tradizioni, contrapposta all’ideale della liberazione dell’uomo da poteri ingiusti e oppressivi rappresenta, per Cofrancesco, una permanente divaricazione tra i due schieramenti, che si può sintetizzare nella diade tradizione/vs/emancipazione. Distinzioni interessanti, ma non dirimenti. Per Laponce la diade classica rimanda a “gerarchia” ed “eguaglianza”; e siamo già in una zona più promettente, anche se il concetto di eguaglianza è relativo: può riguardare i soggetti, i beni, e i concetti con cui sono ripartiti. E c’è chi sostiene che le diseguaglianze sono naturali, mentre c’è chi ritiene che alcune abbiano origine sociale. Esemplari, in questo senso, le posizioni di Rousseau e di Nietzsche: per l’uno gli uomini nascono uguali e sono resi diversi dalla società, per l’altro nascono diversi e sono resi artificialmente simili dalla società.
E bisogna distinguere, dice Bobbio, tra “egualitario” ed “egualitarista”, poiché il primo si propone di ridurre le disuguaglianze, mentre il secondo le nega e vuole, utopisticamente, l’uguaglianza di tutti in tutto. Fatte queste distinzioni, però, ecco finalmente farsi strada un terreno più solido su cui lavorare alla ricerca di una definizione della diade iniziale. L’elemento che meglio caratterizza i movimenti di sinistra è la tendenza a una maggiore eguaglianza, e la propensione a sostenere le politiche che mirano a limitare le diseguaglianze, mentre è caratteristico della destra difendere le politiche e le tradizioni che garantiscono il permanere delle diseguaglianze.
Ecco che la distinzione fondamentale, non storicamente determinata, non ondivaga, come qualcuno vorrebbe, si è finalmente delineata con forza. La rigorosa ricerca analitica di Bobbio ci dà un risultato difficilmente contestabile. La distinzione tra destra e sinistra sta lì: nell’essere più o meno propensi al superamento delle diseguaglianze.

Nell’appendice della edizione del ventennale troviamo due interventi di attualizzazione. Uno, di Daniel Cohn-Bendit, un po’ confuso, in cui si contesta a Bobbio di aver parlato di partiti (mentre Bobbio non li cita nemmeno), e si introduce un impreciso concetto di “autonomia democratica”, di cui onestamente non ho capito bene il senso: sarà un mio limite. L’altro intervento è di Matteo Renzi che, pur accettando l’idea che l’eguaglianza debba restare la frontiera dei democratici, si propone di andare oltre i risultati della ricerca di Bobbio.
Scrive Renzi che oggi i problemi sociali si sono internazionalizzati, ed è vero; che il continuo cambiamento della modernità non deve essere considerato un intralcio ma una benedizione, e che la sinistra, invece, ne ha paura, e purtroppo è così, e si è visto con l’inconsistenza delle ultime campagne elettorali; che se le cose sono cambiate e oggi c’è più giustizia sociale è perché la sinistra ha vinto importanti battaglie, e dovrebbe esserne orgogliosa e guardare in avanti, invece di arroccarsi su battaglie di retroguardia, e ancora una volta non si può non essere d’accordo; e dice che si deve anche tener conto di come ci si pone nei confronti del tempo, e che esiste anche la contrapposizione tra passato e avvenire, e tra movimento e stagnazione. E ha di nuovo ragione, ed è perché si è impantanata in una cristallizzazione delle sue parole d’ordine che la sinistra ha avuto un’eclisse di consensi. 
Ma Renzi sostiene anche che oggi i movimenti politici agiscono “in un magma che non si può ricondurre soltanto al binomio destra/sinistra”, ma piuttosto alla contrapposizione conservazione/innovazione. Aggiunge che il welfare ha cancellato le diseguaglianze per quanto riguarda i bisogni primari, e che i blocchi sociali di una volta non esistono più.
Qui credo che Renzi sbagli, perché è vero che abbiamo fatto grandi conquiste in termini di giustizia sociale e di pari opportunità. Ma siamo molto lontani da un mondo in cui tutti hanno la possibilità di studiare, lavorare, e avere accesso alla salute, all’educazione, all’informazione allo stesso modo. E vorrei aggiungere che l’innovazione non è sempre un progresso verso l’eguaglianza, perché ci sono innovazioni che producono nuove emarginazioni e nuove forme di povertà, che richiedono nuove sensibilità e nuovi impegni, come dimostra la permanenza del divario nell’accesso alle piattaforme digitali.
Insomma, tutto sta a dimostrare che non è vero che non esistono più i blocchi sociali, che non è vero che il welfare ha risolto tutti i problemi, e che non è vero che non c’è bisogno di importanti interventi per aumentare (o reintrodurre) il contributo solidale di chi ha di più per chi ha di meno. A me sembra che resti indiscutibile, dunque, che la caratteristica e il ruolo della sinistra siano ancora quelli di combattere per ridurre le diseguaglianze, e quelli della destra siano la difesa dei privilegi e la conservazione delle diseguaglianze che li perpetuano.
Bobbio ha ancora ragione.

Nell’ampio apparato critico del volume del ventennale, viene riportato tra l’altro uno scritto critico di Perry Anderson, che contestava a Bobbio una contraddizione: quella di aver detto prima che il progresso verso l’eguaglianza è irresistibile, ma poi solo possibile e non necessario. E in effetti nel libro Bobbio si esprime così. Io credo però che, più che contraddirsi, abbia voluto consapevolmente ricordarci che il progresso non è una linea retta, ma piuttosto, come la storia ha spesso dimostrato, una sinusoide, con alti e bassi, anche nelle conquiste sociali. E ritengo che sia una posizione corretta, perché il fideismo progressista si può sempre scontrare con forme di reazionarismo che rischiano di portarci indietro di secoli, e non ci si deve cullare nella fede di un futuro radioso, perché le battaglie per l’eguaglianza non sono finite. 
Ma c’è qualcosa di più, perché in quel passo, a mio avviso, c'è un ragionamento che dà al volume una formidabile efficacia: “Mai come nella nostra epoca – dice Bobbio - sono state messe in discussione le tre forme principali di diseguaglianza: la classe, la razza, il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società famigliare, poi nella più grande società civile e politica, è uno sei segni più certi dell’inarrestabile cammino del genere umano verso l’eguaglianza”. Certo, come lo sono state il superamento della schiavitù, dei privilegi di casta, del voto limitato per censo e per genere, dell’istruzione obbligatoria, della pari dignità nel diritto di famiglia, nel superamento dell’orrore degli ospedali psichiatrici, del diritto all’assistenza sanitaria gratuita per tutti e via combattendo per la riduzione delle diseguaglianze.
Ma ricordiamo che anche solo pochi decenni fa poteva ancora sembrare normale che il dissenso venisse punito col carcere, che si dichiarassero guerre per insensate ambizioni territoriali, che non esistesse mobilità sociale, che le donne non votassero e fossero escluse da importanti carriere pubbliche, che si discriminasse e perseguitasse chi era di una religione diversa da quella della maggioranza. Ecco perché oggi la sinistra, lo schieramento che vuole rimuovere le diseguaglianze, ha ancora tante mura da abbattere, tanti obiettivi da conquistare, anche perché per alcuni non abbiamo ancora la capacità analitica necessaria, non li vediamo nemmeno. Le diseguaglianze non sono finite, nel tempo si svilupperanno nuove e più alte sensibilità, e dobbiamo immaginare che, se non aguzzeremo la vista, se non combatteremo per eliminarle, i nostri figli potranno dire, come noi possiamo dire delle generazioni che ci hanno preceduto: “perché non vi siete battuti, perché avete permesso che si compissero spaventose brutalità, perché avete accettato che si perpetuassero terribili ingiustizie?”.     

sabato 16 agosto 2014

AIUTO, ARRIVA LA REPUBBLICA PLATONICA

Sono in ritardo, terribilmente in ritardo. Non mi ero accorto che, mentre tutti si baloccavano nel maldestro tentativo di riformare il parlamento, c’era chi aveva trovato la chiave per far funzionare, finalmente, le istituzioni, realizzando la Repubblica platonica e il governo dei filosofi.

  Forse avrei dovuto stare più attento, perché qualche segnale c’era già stato. Ma la dimostrazione che i tempi erano maturi per arrivare alla kallipolis, dove l’aurea classe dei filosofi potrebbe governarci con naturale saggezza e razionalità, mi è venuta dall’articolo pubblicato dalla senatrice a vita Elena Cattaneo su Repubblica, il 7 agosto scorso, dal titolo “Senato, occasione persa. Si poteva volare più alto”. Il nodo sta nell’ultima parte dell’articolo, nel quale la studiosa – per la cui competenza scientifica ho la massima stima – lamenta la “distanza” con la quale è stata accolta la proposta di “rafforzare nel nuovo Senato le competenze culturali, accademiche o di eccellenze internazionalmente riconosciute”.  E’ chiaro che la senatrice non ritiene sufficienti le dieci personalità che – secondo il progetto governativo - nominerà il Presidente della Repubblica, che saranno pur sempre un decimo dell’assemblea. Devo immaginare che abbia immaginato che potessero essere il 20, il 30 per cento, o addirittura di più. Vediamo come ci si sarebbe potuti arrivare e cosa ne sarebbe derivato.
Innanzitutto, come si fa ad individuare le “personalità abituate a disegnare le frontiere del mondo”, come auspicato nell’articolo? Se dovesse essere il Presidente della Repubblica, a farlo, ne verrebbe fuori una sorta di “Parlamento del Presidente”, e non oso immaginare la pioggia di critiche e contestazioni che produrrebbe. Le “personalità” dovrebbero essere allora elette direttamente dai cittadini, o dagli amministratori che nomineranno il senato “politico”? E perché mai i cittadini e gli amministratori dovrebbero sapere chi sa disegnare le frontiere del mondo, e perché questi dovrebbero essere meglio dei politici che saranno nominati? O dovremmo avere una lista bloccata di “disegnatori di frontiere”, garantita da qualche entità scientifica? Peggio mi sento. Ve lo immaginate un ramo del Parlamento nominato dai rettori, dai docenti universitari, dai ricercatori? Gli stessi che da anni non riescono a varare un solo concorso che non sia contestato per clientelismo, che hanno trasformato le maggiori università in emblemi del nepotismo, che sono responsabili di una selezione alla rovescia, che ha portato in cattedra amici e parenti, mentre i cervelli migliori dovevano emigrare? Per non parlare di quelli che portano a far lezione Gheddafi o Schettino. E certo che ci sono docenti degnissimi, di grandi capacità e di grande dirittura morale, Ma c’è il modo di selezionare solo i migliori, gli onesti, i veri “disegnatori di frontiere”? Io non lo vedo. E non vedo quindi nessuna possibilità di realizzare la Repubblica platonica. Si chiama utopia, quel nobile progetto, perché è irrealizzabile. E credo che sia bene che utopia rimanga.
Personalmente non ho nessun particolare entusiasmo per la riforma costituzionale così com’è disegnata; avrei preferito, per esempio, l’eliminazione completa del senato. Ma nessuno si illude che la politica faccia quel che piace a lui (e se lo fa, dimostra di essere assai immaturo). Credo invece che valga la pena dare un’occhiata alle altre obiezioni che la senatrice oppone alla riforma, visto che sono condivise da molti commentatori e anche da alcuni eminenti studiosi. Dice Elena Cattaneo che: 1) Si è dato scarso ascolto a chi aveva altre idee. Sarà vero, ma a me è parso che le altre idee, ampiamente discusse, fossero fondamentalmente opposte a quelle di chi ha disegnato il nuovo senato. Farle convivere era semplicemente impossibile, per cui, come succede in democrazia, si è andati a votare e ha vinto la maggioranza. 2) Il voto è stato condizionato da pressioni esterne ed è andato a buon fine per la disciplina di partito. E che novità sarebbe? A meno che in parlamento sieda una maggioranza coesa e autoritaria, la decisioni importanti devono essere prese tenendo conto dell’opinione del maggior numero di votanti, come anche del maggior numero di cittadini. E i rappresentanti dei partiti, di solito, si mettono d’accordo per votare insieme; salvo contestatori che, infatti, ci sono stati. Così funziona un parlamento, ed è giusto che i parlamenti siano condizionati dall’opinione pubblica. 3) Il progetto è pasticciato perché manca la riduzione dei numero dei deputati e mancano garanzie di bilanciamento. Sul numero dei deputati non posso che essere d’accordo, ma temo che il parlamento non fosse ancora pronto a un simile sacrificio: sappiamo tutti che chi vi siede spera di essere rieletto, alle prossime elezioni, e difficilmente si troverebbero i numeri per far passare una riforma che prevede che il numero dei parlamentari (retribuiti) scenda ulteriormente. Sugli strumenti di bilanciamento dei poteri, sono stati molti a chiedere che se ne varassero, ma nessuno ha spiegato di quali si tratterebbe, se non di un redivivo senato elettivo. L’obiezione nasce dal fatto che in questo modo il paese sarebbe vittima dello strapotere di un solo partito, e che questo ci porterebbe a una forma di democrazia autoritaria. Ma dove erano, mi chiedo, le forme di bilanciamento dei poteri del passato, quanto passavano le leggi ad personam, lo svuotamento delle casse dello stato per favorire i benestanti a danno dei ceti meno abbienti, e si varavano improvvidi alleggerimenti fiscali che ci hanno portato sull’orlo del baratro e si sono dovuti subito correggere? E, in definitiva, le leggi non possono essere corrette, che ci siano una o più camere, cambiata la maggioranza?
Ci sono altre obiezioni che mi lasciano perplesso, sulla riforma costituzionale e sull’italicum. Perché l’elezione indiretta dovrebbe portare in senato dei farabutti, mentre quella diretta no? Forse che, quando votiamo per i comuni e le regioni siamo corrotti, mentre quando votiamo alle politiche siamo spiriti illuminati? Se così fosse, oltre alle provincie si dovrebbero eliminare anche tutte le altre forme di amministrazione locale. Ma c’è anche l’obiezione che così mancherebbe pluralismo e ci si affiderebbe a un unico partito, con rischi dittatoriali. A me sembra che questo ci porterebbe, piuttosto, verso un bipartitismo meno imperfetto di quello provato finora; forse che in Germania, Regno Unito, Francia, USA non vigono da decenni bipartitismi quasi perfetti? O forse che lì c’è meno democrazia? E ancora, si rimpiangono le preferenze, che però sono state eliminate con un referendum perché erano la peggiori forme di clientelismo e di corruzione, o ce ne siamo dimenticati? Ma sarebbe meglio l’uninominale a doppio turno, alla francese, dice qualcuno; e io – per quel che vale - sarei d’accordo. Ma ci sono i numeri, in parlamento, per farlo passare? Mi pare proprio di no.
In definitiva, ho la sensazione che le obiezioni alle riforme in atto siano in sostanza obiezioni alle riforme tout court, e che nascondano una nostalgia, comprensibile ma inopportuna, per tempi passati. Passati non solo perché non ci sono più i partiti di massa, ma soprattutto perché non ci sono più grandi ideologie contrapposte. Un vuoto che, negli ultimi anni, ha lasciato spazio a un immobilismo colpevole e a un clientelismo devastante. Il nuovo non sarà meraviglioso, ma bisogna almeno prima provarlo; poi ci sarà il tempo (con altre maggioranze, e con tempi ridotti) di cambiare.
Abbia pazienza, senatrice Cattaneo, la politica è l’arte del meno peggio. Chi vuole il meglio, il più delle volte, produce disastri. Ma lei è una novizia dei lavori parlamentari. Ho paura che, dietro le sue argomentazioni, si siano schierate vecchie volpi che pensano solo a se stesse. O, forse, anche chi ha nostalgia di un parlamento in cui a ogni passaggio, da una camera all’altra, si aggiungeva un codicillo che premiava una lobby, un paragrafo che garantiva una corporazione, una spesa in più per tutti che andava a premiare solo alcuni privilegiati. Oppure, addirittura, chi rimpiange le nobili gesta dei Turigliatti, la conquista a suon di donazioni dei deputati (confessi), il repentino voltafaccia degli Scilipoti.

E’ questo è il parlamento che si rimpiange? Questo il ricco fluire di pluralismo? Meglio dimenticarlo: è quello che ha portato al declino politico, economico, morale e culturale del paese. Bisogna cambiare pagina. 

martedì 12 agosto 2014

GIAN ARTURO FERRARI
E IL ROUSSOIANESIMO DIGITALE

“I fortissimi lettori non sono sempre pozzi di scienza, ma molto spesso anziane casalinghe che leggono uno dietro l’altro romanzi rosa tutti uguali”. Il sarcasmo di Gian Arturo Ferrari non è ingiustificato, perché ogni tanto è bene ricordare che il libro (e il lettore), anche se godono da sempre di un’aura di superiorità intellettuale, se non spirituale, non vanno sacralizzati. Né deve scandalizzare il taglio spregiudicato col quale Ferrari parla del mercato editoriale nel suo eponimo Libro (Bollati Boringhieri, 2014),  ricordandoci che il libro serve tanto Dio che Mammona, e che se il libro è diventato un business bisogna tener presente che si tratta di un processo iniziato quattro secoli fa.
La parte in cui Ferrari descrive – con precisione e senza falsi pudori - la situazione dell’editoria oggi, non interesserà tanto gli addetti ai lavori, che già ci vivono dentro, quanto chi quel mondo lo vede dal di fuori. Si stampano troppi libri, e pochi buoni, c’è un profluvio di non-libri, nel lungo periodo sopravvivono solo i migliori (mah, mica sempre vero), la preoccupazione principale degli editori è di trovare di che alimentare le proprie macchine, e in definitiva è stata solo l’editoria industriale, con bassi prezzi e contenuti semplificati, a garantire l’auspicio illuminista di una diffusione capillare della conoscenza. 
La parte più originale e benissimo documentata è la prima, quella che riguarda la storia del libro dalle origini ad oggi, con informazioni precise sulla nascita e lo sviluppo della scrittura, sul modo in cui si è sviluppata la forma del libro e sul modo in cui i cambiamenti della forma hanno modificato progressivamente la sostanza di quello che i libri contengono. Ed è il torchio a caratteri mobili, la nascita del libro a stampa, che produce i principali mutamenti. Ferrari giustamente sottolinea che solo allora, con l’apparire della data dell’edizione, ogni libro acquista una sua identità anagrafica precisa, e sviluppa una caratteristica che fino allora la scrittura non poteva avere, e cioè il pregio della novità. Perché, nel ‘500 come oggi, il pubblico compra ciò che è nuovo: buono o cattivo che sia, purché sia una novità. E la possibilità di stampare molte copie è l’altro strumento che completa l’essenza del libro a stampa. E’ lì che nasce una forma nuova di diffusione della conoscenza, non più elitaria e quasi esoterica, come accadeva per il codice copiato a mano, ma alla portata di (quasi) tutti.
Di lì all’e-book il passo non è breve, ma Ferrari ci arriva con idee non banali. Quella digitale, riflette, è il primo caso di una tecnologia che incorpora direttamente un’ideologia; “talmente forte da non nascondere la propria natura di supporto di giganteschi interessi monopolistici”. E l’e-book ha la caratteristica di non essere una tecnologia che lentamente soppianta la precedente (come il CD ha soppiantato il vinile), ma di convivere in un confronto diretto con la tecnologia precedente. Ora, l’ideologia digitale applicata al libro ha come caratteristica principale quella di “aprire le porte al regno del tutto”, in un’idea di totalità che suggerisce uno spazio di libertà assoluta. Al sentimento di limitazione che accompagna da sempre il libro stampato, che non può raggiungere tutti e che non tutti possono raggiungere, l’ideologia dell’e-book sostituisce una sfacciata pretesa di totalità, di libera espressione alla portata di tutti.
Non c’è mai stata, ricorda Ferrari, e mai ci sarà una biblioteca come quella di Borges, che contiene tutti i libri; e a cosa servirebbe, in definitiva, la totalità dei libri, cosa ce ne faremmo? Ed è vero che ogni libreria ha un assortimento diverso da tutte le altre.  Questo ne costituisce il limite, ma anche il fascino e il pregio, dico io. Nell’idea di totalità, invece, c’è un po’ tutta l’ideologia digitale, presentata come se fosse una magica porta che apre la strada verso il sapere universale. Con una brillante intuizione, Ferrari la definisce una sorta di roussoianesimo digitale, l’idealizzazione di uno spazio senza divieti né balzelli, libero e gratuito, senza controlli e interessi occulti, dove tutto si regola da solo e dove la genuina espressione della natura umana tende naturalmente al bene e al bello.
Mi sembra una suggestione perfetta. Un’illusione ingenua e pericolosa, anche se probabilmente inarrestabile, tipica di chi pensa che la rete, da sola, metta a disposizione tutta la conoscenza umana senza chiedere niente in cambio. Un’illusione anarchica e sentimentale come quella, opposta, del sentimentalismo liberale: che il libero mercato, incontrollato, non possa che produrre benessere e felicità.
Inutile fare previsioni sul futuro. Ferrari ricorda che la lettura è un’attività complessa e faticosa, e che i libri si vendono anche perché c’è un libraio esperto che ce li suggerisce, perché li incontriamo, fisicamente, in una libreria, perché hanno una fisicità, una copertina, e un dorso visibile anche quando, già letti, prendono posto negli scaffali della nostra biblioteca personale. Può l’e-book sostituirli? Più probabile che diventi un prodotto multimediale, un ibrido che poco ha a che fare col libro. “Non si vede, infatti, quale beneficio multimediale potrebbero mai ricevere i racconti di Alice Munro o di Philip Roth”. Appunto.

Ma allora forse bisogna fare attenzione, forse bisogna immaginare una forma di difesa del vecchio e buon libro cartaceo; perché se questo è ciò che prevarrà, la nuova forma del libro – come è accaduto con Gutenberg – ne cambierà anche la sostanza, il contenuto, la forza. Forse aprirà la strada a nuovi lettori, che finora erano spaventati dall’impegno che la lettura tradizionale comporta. Forse sarà anche ulteriore una forma di democratizzazione della conoscenza. Ma anche di mutamento di paradigma. Una lettura fatta per immagini, sostenuta da rimandi a dettagli sulla vita dell’autore, magari con appositi video, qualche pettegolezzo, non sarà più il complesso esercizio di astrazione che il libro tradizionale ci impone, facendoci allenare un muscolo essenziale per produrre il pensiero. Ecco, forse, assieme ai vantaggi di una più ampia distribuzione del sapere, di una immediata, economica e capillare distribuzione del nuovo prodotto, rischiamo di restringere la capacità di lettura e un’élite di studiosi, affezionati al loro esercizio di interpretazione simbolica di quei piccoli, neri segni convenzionali che hanno composto fino ad oggi le parole, le frasi, i capitoli, i volumi nei quali si è addensata la conoscenza dell’uomo negli ultimi tre millenni. Perderemo qualcosa? Ho paura di sì. Senza quell’esercizio, addio lettura, addio sogni illuministici, e addio libro, almeno per come li abbiamo intesi fino ad oggi. 

venerdì 11 luglio 2014

LIBRO,CULTURA E DEMOCRAZIA


Credo che i buoni libri non debbano fornirci definizioni e interpretazioni forti, ma casomai dubbi e interrogativi. Non mi hanno mai persuaso gli analisti che, con più o meno fortunate sintesi, descrivono la modernità in modo univoco; liquida, solida o gassosa, globalizzata o mucillaginosa, aurorale o escatologica, poco importa. Trovo stimolanti i libri che ci mettono di fronte ai paradossi del presente, ne descrivono le sfaccettature, e non pretendono di indicarci la retta via per capire a che punto siamo del complesso processo storico che ci riguarda. Un millimetro più in là, intervista sulla cultura, di Marino Sinibaldi, a cura di Giorgio Zanchini, Laterza 2014, fa parte dei libri del dubbio, e per questo ci è utile.
“La cultura è un’arma possibile contro la disperazione del nostro tempo”; “La cultura ci può insegnare a mettere tutto in discussione”; “Fare cultura per me vuol dire fare attenzione alle cose belle e intelligenti”; “Per me la cultura, come forma di conoscenza della propria realtà, è la condizione necessaria per autodeterminare la propria vita”; “Quella parte di vita che puoi cambiare […] dipende dalla tua forza, autorità, libertà. Per me la cultura è la condizione per esercitare queste possibilità”.
Ecco, basta questa serie di tentativi di definizione, che segnano il ritmo delle riflessioni del libro-intervista, per capire come Sinibaldi proceda per approssimazioni successive, suggerendo nuovi rami di estensione della ricerca di un concetto univoco. Perché la sostanza del nostro essere cultura è insieme sfuggente e pervasiva: il concetto antropologico di cultura sembra abbracciare tutte le attività umane, mentre una preoccupante propensione alla negazione dei valori della conoscenza sembra invece ridurne l’estensione a circoli elitari, sempre più isolati. E qui l’analisi di Sinibaldi, stimolato da Zanchini, non poteva non addentrarsi nel risvolto culturale che la mutazione tecnologica in atto può produrre.  
La rete, per Sinibaldi, è un’occasione epocale, non solo per le dimensioni smisurate dell’offerta informativa, ma anche per la spinta egualitaria che comporta. E’ vero che malgrado conosciamo più cose, lo facciamo con meno profondità; ma questo non può non comportare maggiore apertura e maggior tolleranza. E internet è una “macchina per la soddisfazione di tutti i desideri di conoscenza e di informazione possibili”. Produce relazioni, senso di  appartenenza. “Tende a configurarsi come il posto dove tutte le esperienze hanno luogo”. E “la molteplicità degli scambi non può che favorire la qualità culturale”. Permette e di scavalcare i parassiti della mediazione, e può persino liberare dalle egemonie culturali, da una società letteraria oligarchica e chiusa. E, anche se per il momento è solo un’ipotesi, la rete rende possibile l’abbattimento della distinzione tra consumatori e creatori di cultura e di informazione.
I problemi però sono altrettanto significativi dei vantaggi. Il rischio è che prevalga in rete il modello per cui si ottengono “risposte veloci, gratuite e mediocri”. Che la mancanza di materialità e di autorevolezza “imponga un sapere senza sostanza, e senza responsabilità”, che “rischia di diffondere una specie di virale irrilevanza delle cose, delle scelte e degli atti di ognuno di noi”. E la maggiore libertà di scelta può significare che ogni gruppo “si concentrerà su quello che preferisce, e sperimenti meno”; che resti confinato nelle sue passioni, nelle sue convinzioni,  e non si metta mai in discussione. “Nella rete sei connesso con tutti, ma prossimo a nessuno”. Gli algoritmi della rete premiano la maggioranza, la quantità prima della qualità. Se può valere per un ristorante, non può essere accettabile per i prodotti culturali: “Non si possono giudicare i libri come le stanze d’albergo”. In definitiva la rete, finora, vive un paradosso perché, malgrado viva di connessioni, “genera un sapere sconnesso”, favorendo forme polverizzate di conoscenza “come se l’attenzione al dettaglio facesse perdere di vista quella dimensione più generale che chiamiamo cultura”.

Zanchini coglie il punto quando chiede a Sinibaldi se crede che sia possibile vivere senza mediatori, e che il progresso della cultura sia quello di emanciparci dalle élites. Sinibaldi dice di sì, anche se poco prima ha ricordato che, senza mediazione, avremmo alle spalle “una distesa irriconoscibile di rovine”; e che c’è bisogno di ricerca, di esercizio, di maturazione. E questa è forse l’osservazione più preziosa. Ogni nuovo medium, ricorda, nasce come una nuova tecnologia, che trasmette saperi e formati già esistenti. Solo a completa maturazione produce un suo modello specifico. Così è accaduto per la stampa a caratteri mobili, così per il cinema, così per la tv. Accadrà anche per la rete. Ma non sappiamo ancora cosa sarà.  

(da "L'Immaginazione", luglio 2014)

venerdì 4 luglio 2014

SONO CONNESSO MA NON CONNETTO

La critica letteraria serve ancora a qualcosa? E le recensioni degli utenti, in rete, la possono sostituire? La questione non è sprovvista di una sua sensatezza, se sono in molti ad affermare che le terze pagine dei giornali hanno perso autorevolezza e che, al contrario, la sincerità e la mancanza di vincoli che caratterizzano i liberi interventi in rete aprono la strada a una nuova e più limpida analisi dei testi, lontana dalle ipocrisie e dalle piccole e grandi mafie della società letteraria.
Non c’è bisogno di verifiche particolari per dire che una buona parte delle pagine culturali dei quotidiani sono dedicate all’inesausta produzione di “marchette” letterarie: noi giornalisti culturali recensiamo entusiasticamente i libri dei direttori, dei caporedattori e dei colleghi della nostra testata, e anche di quelle concorrenti. Non si sa mai, la volta dopo potremmo trarne merce di scambio.
Ma in rete, nella limpida, democratica rete, fuori da ogni condizionamento, da ogni do ut des, da ogni servaggio professionale? Una riflessione mi è stata sollecitata da una recente ricognizione. Ho fatto, per un lavoro che mi era stato chiesto, una ricerca su Cuore di tenebra, di Conrad. Sfogliati alcuni testi classici di critica, ho cominciato a frugare tra blog e commenti in rete, per farmi un’idea di cosa ne pensava il grande pubblico. Ho trovato qualche sincero commento positivo; ma anche prose di questo genere:

(su IBS.it) Andrea (voto: 2/5); Conrad ha mancato della capacità di irretire il lettore e quindi la lettura delle pagine scorre lenta e noiosa cosa che, pur trattando di temi complessi, non si riscontra ad esempio in Orwell (che scrive anche lui romanzi). Poi se gli elogi sono fatti in massa perché viene ritenuto da sempre un capolavoro della letteratura e le persone non vogliono fare la figura degli “intellettuali timidi” perché criticano un “capolavoro” è un po’ come darsi dell’imbecille agli occhi degli altri.
(ancora IBS) Nicola Mosti (voto: 3/5): Per cominciare, intenderei demolire la tiritera in base alla quale ai lettori non è consentito esprimere critiche a un testo di narrativa se non lo si contestualizza, se non si sposta il piano di lettura, se non si trasfigurano i contenuti e altre amenità (…) Premessa necessaria per sgomberare il campo dai preconcetti che ammorbano la mente dei critici di professione, secondo i quali i mostri sacri della letteratura non posso mai essere messi in discussione dai semplici lettori. Quegli stessi personaggi che, dallo scranno del loro dottissimo studio, distruggono inappellabilmente scrittori contemporanei (…).
 (su Qlibri) Martillo8: Lo stile è quello che si addice all’800, basato su termini di linguaggio elevato e quasi aulico, scritti in un inglese antico e ormai in disuso.
(Sempre Qlibri) Artemisia: Il mio “disappunto” si rivolge principalmente alla “scorrevolezza” dell’opera che nonostante la tematica “umanistica” non riesce, a mio parere, a interessare il lettore e a “travolgerlo” come invece vi riesce il film “Apocalypse now”.
(su Letterati.it) Giuseppe Salsano: Il mare e gli oceani sono, come in Melville, il simbolo di ogni sfida, ma la mole smisurata della loro forza e delle loro dimensioni sono inconcepibili, quindi sublimi, ad ogni ragione umana…

Be’, sarebbe troppo facile fare dell’ironia su un linguaggio povero o inappropriato, su paragoni fuori luogo con autori distanti nel tempo e nelle tematiche, sull’uso spropositato delle virgolettatura e così via.  Quello che colpisce è l’astio nei confronti della critica ufficiale, colpevole di dare giudizi (ma cos’altro dovrebbe fare) e di non apprezzare gli scrittori contemporanei (qui sospetto una stroncatura non digerita), ma soprattutto di negare il diritto di dire la loro ai lettori qualunque. Naturalmente è in parte vero: lo sto facendo anch’io, in questo momento. Ma è anche vero che tendo a non considerare autorevole una recensione scritta in un italiano zoppicante, e gravida di risentimento verso la cultura ufficiale. Che si merita il massimo disprezzo, sarà vero, ma per ridimensionare la quale è necessaria un’autorevolezza che questi scritti non hanno.
Se una conclusione posso trarre, da questa come da altre ricognizioni fatte in rete, debbo dire che i giudizi dei lettori sono spesso superficiali, frutto di letture mal digerite e di piccoli risentimenti personali. Qualcuno dirà che non è un problema, che opinioni del genere sono sempre esistite. Ma una volta non si trovavano in rete, e non avevano altro ruolo che quello di una chiacchiera da bar. Oggi i pareri su Conrad che ho riportato hanno, per certi versi, la stessa dignità  di una introduzione di un grande anglista o della recensione di uno specialista di letteratura marinara. Ecco, questo secondo me è un problema. Perché se tutti i pareri hanno diritto allo stesso rispetto, alla fine nessun parere avrà diritto a rispetto alcuno. Se lo studioso vale come il lettore comune, non ci sarà più nessuno che rappresenterà un momento di mediazione tra chi ha competenza e chi non ne ha. Se non ci sono più gerarchie della conoscenza, non ci sono nemmeno gerarchie dei ruoli.
Immagino che qualcuno penserà che questa è la democrazia, che quello che accade per le recensioni dovrebbe accadere per tutto e che in questo modo saremmo tutti più uguali e più felici. Non sono d’accordo. Neanche un po’. Saremmo tutti più ignoranti, più arroganti e più confusi. La democrazia è anche rispetto per le competenze. Senza quel rispetto, è logico che i genitori vadano a minacciare il professore che dà cattivi voti al ragazzo che non studia, che i cittadini disonesti protestino il giudice che li condanna e gli evasori fiscali chi vuol far pagare loro le tasse. L’uguaglianza è necessaria in partenza, per dare a tutti le stesse opportunità. Dopo, chi più sa deve avere più responsabilità, ne deve portare il peso, risponderne e esserne degno. Questo sì. E chi non ha l’autorevolezza necessaria per svolgere il ruolo che ha conquistato, ne paghi le conseguenze. Ma non tutti possono fare tutto. E la rete, che per la sua capacità di dare infinite informazioni a tutti, è uno strumento di grande democrazia, non lo è se ci riduce tutti allo stesso ruolo.
Ricordiamo il percorso della rivoluzione della Fattoria degli animali. Non siamo, e non vogliamo diventare tutti uguali. Anche perché, dietro l’angolo, c’è sempre un maiale che sostiene di essere più uguale degli altri.

mercoledì 28 maggio 2014

LA NARRAZIONE, AD OGNI COSTO
Ci sono scritti letterari che suggeriscono raffinate analisi sociologiche e saggi che coinvolgono come romanzi. Anzi, forse è il caso di dire che la fusione tra i due generi, oggi sempre più frequente, è la forma di scrittura più feconda. Perché quello che prevale, indipendentemente dal genere dominante, è il racconto, la narrazione, il trascinante progredire di una storia. Ecco qualche esempio recente.
La forma è quella del racconto lungo, ma la sostanza è teatrale: un unico atto, in più quadri. Il mondo non mi deve nulla, edizioni e/o, di Massimo Carlotto, ha un ritmo serrato, è pieno di ironia, e ha una brillante conclusione a chiave.
Il protagonista è un ladro dilettante, il classico esodato che si ricicla come topo di appartamenti e si imbatte in una bella donna di origine tedesca, ex croupier che, frodata dei suoi risparmi da una speculazione sui derivati finiti carta straccia, la vuol fare finita. Sullo sfondo, la moglie del ladro, la classica piccolo borghese rompiscatole che lo tormenta con telefonate inconcludenti anche quando è “sul lavoro”.
Il senso del racconto è tutto nei dialoghi tra queste vittime di due tipici incidenti del nostro tempo. Lui banale, debole, insicuro, professionalmente (come ladro) del tutto impreparato, ma vitale; lei, teutonica ma capace di sentimentalismo, elegante e smaliziata, determinata a non morire povera.
Anche fuori dagli equivoci, dagli incidenti di percorso, dal lento svelarsi della sostanza dei protagonisti c’è, nel testo, un’allegoria del presente: può succedere che la bella signora tedesca (la Germania), già ricca, finisca nelle mani di un malandato nullafacente riminese (l’Italia), e ne chieda la collaborazione per risolvere i problemi che l’avidità finanziaria può produrre. Non è facile che finisca così, fuori metafora, ma chissà, dopo i risultati delle europee, non si sa mai.
Un po’ in equilibrio tra letteratura e saggismo antropologico Mondo piccolo, di Valerio Millefoglie , Laterza, induce una riflessione che ci lascia piacevolmente incuriositi. Il sottotitolo, Spedizione nei luoghi in cui appena entri sei già fuori, illumina sul processo analitico-narrativo. Entriamo nel ristorante, nella casa, nella discoteca, nel bar, nella prigione, nell’albergo, nel cinema, nello zoo più piccoli che si possano immaginare. Le descrizioni sono anodine, non ci sono commenti, niente soddisfatti bamboleggiamenti su quanto il piccolo possa essere grazioso, delizioso, intimo. Solo il dettaglio di come luoghi abitualmente grandi possono conoscere versioni lillipuziane senza perdere le loro caratteristiche originali. E di come ci si arriva.
E’ una volta conclusa la lettura che ci rendiamo conto che abbiamo davanti un trattato sulle dimensioni. Perché ci si chiede sempre qual è la grandezza di un luogo, di un oggetto, di un fabbricato, e non la piccolezza? Eppure la piccolezza, oltre ad essere sinonimo di grazia (C’est mignon, n’est-pas?), è una sfida a ripetere in piccolo quello che nasce per essere grande. E, come nei modellini, quello che ci lascia stupiti è la possibilità di mantenere la scala, la precisione del dettaglio. Solo che il modellino è finto, mentre qui le cose sono vere, ci si entra dentro. Ed ecco che la versione miniaturizzata ci permette di verificare meglio il senso, la qualità funzionale, il valore ultimo dell’originale. Niente di peggio che essere impressionati dalle grandi dimensioni e perdere di vista la funzionalità, la efficienza, la dimensione umana delle cose. Perché errori stilistici e bellurie insensate, cadute di gusto e mostruosità nella dimensione macro si perdono, si perdonano, si obliterano, E’ nella dimensione micro che dimostrano, senza infingimenti prospettici, la loro vera sostanza.
E’ un saggio, non è un romanzo, L’onesto porco (sottotiolo: Storia di una diffamazione), di Roberto Finzi, Bompiani, ma si legge come un’opera di brillante intrattenimento. Perché del povero porco c’è veramente tanto da dire, specie dopo macellato, perché “Puossi rassomigliare a’virtuosi, quali vivi sono mal trattati, ma morti desiderati et honorati” (Vincenzo Tanara, 1644). Di quanto siano deliziosi salsicce, salami, prosciutti, mortadelle, braciole, zamponi, cotechini e salama da sugo. Ma anche di come, da vivo, sia meno sporco di quanto si pensi e, anche se usato come metafora del male e del diabolico, sia in fondo animale intelligente e mansueto.
Finzi trova le citazioni dei grandi che ne hanno scritto, da Aristofane a Bonvesin della Riva,  da Folgòre da San Gemignano al Boccaccio. Ripercorre le proibizioni alimentari, che risultano peraltro infondate, e l’uso ingiurioso del nome, anche questo spesso incongruo. Troia, per esempio, termine oggi terribilmente infamante, pare derivi da una ricetta per la maiala ripiena, come lo era il cavallo degli achei, pietanza per niente traditrice e assai prelibata.

La panoramica delle citazioni dotte non può non concludersi con il dialogo immaginato da Plutarco tra Ulisse e Grillo (uno dei greci tramutati da Circe in maialoni, ominosa visione). A Ulisse, che gli chiede se non vuole tornare uomo, il Grillo-maiale risponde con parole alate e definitiva saggezza: “Preferisco essere un maiale contento della mia sporcizia piuttosto che un uomo debole, vanaglorioso, leggero, maligno, ipocrita e ingiusto”. Forse  è vero. Meglio un giorno da maiale…
                                         Da "L'immaginazione", aprile 2014

sabato 15 marzo 2014

Street poetry

Visto in via Zamenhof, Milano

La rete e il minestrone quotidiano

“Chi ha appreso dei misteri della vita tra galline e conigli ha una visione assai leggera delle carnali nefandezze”. Be’, chi non ama il fecondo argomentare alla radio di Gianluca Nicoletti, così intriso di riferimenti alle “carnali nefandezze”, dovrà almeno riconoscere la genuinità della sua vocazione e la sincerità della ricognizione che fa su di sé e sulle sue radici nel Libro infame: una sorta di autobiografia illustrata, pubblicata da Tunué. Libro che, sia ben chiaro, di infame non ha niente.  E anche il dubbio, pure legittimo, che l’operazione autobiografica sia il segno di una presunzione e di un egocentrismo ossessivo, viene meno di fronte al forte taglio ironico che permea tutto il volume, illustrazioni di Roberto Ronchi comprese.
Perché dietro lo schema autobiografico c’è un lavoro, durato anni, di rivisitazione scanzonata del costume, e di svelamento delle ipocrisie che permeano il nostro quotidiano. Tutto, come fa sempre Nicoletti, giocato sul filo sottile che unisce la tradizione di un’Italia contadina, provinciale, bigotta e insieme sensuale, alla contemporaneità segnata dalla rivoluzione della tecnologia digitale. A chi lo accusa di essere spesso “sopra le righe”, Nicoletti risponde che “L’allusione porno gastronomica è per me l’unica via di fuga dal proibizionismo dei sensi”, aggiungendo che “L’allusione prandiale alle fantasmatiche sollecitazioni sconce suggerite dal cibo sin dalla mia fanciullezza faceva parte del costume locale”; e “non è colpa mia: così sono cresciuto”; “vengo dalla provincia più intrisa di pudibondo libertinaggio che ci sia in Italia”.
E’ pensando al fatto che la deriva tecnologica dell’archiviazione digitale di fatti, esperienze, emozioni di una vita potrebbe essere la strada per costruire una memoria che dia conforto per quello che si perde, e permetta rievocazioni nostalgiche, che Nicoletti ripercorre, a salti, alcuni segni della formazione di un figlio del dopoguerra e del boom. Si va dalle polverine per fare l’acqua frizzante alla mucca Carolina, dalla carne in scatola ai terrificanti manifesti coi mutilatini che avevano toccato i residuati di guerra, ai banchi di scuola con il calamaio per l’inchiostro alla prima comunione con i pantaloni corti. Non mancano le prime esperienze erotiche, suggerite dalle pubblicità di biancheria intima sul catalogo Postalmarket, per passare dalle immagini del “frate favarone” alle ragazze di Drive in e Colpo grosso, dai soldatini di piombo agli anni di piombo, da Lanciostory alla mamma che, più o meno consapevolmente, boicotta l’ingresso in casa delle amichette del figlio.
Ma c’è una cosa che lega la semantica del nascente consumismo degli anni ’50 – ’60 alla vertigine con la quale Nicoletti, dal ’90 in poi, si lancia nel mondo del web passando interi anni intriso di chat lines, di second life, di facebook. E’ l’idolatria del sintetico – l’idrolitina, la carne Simmenthal, il surrogato di cioccolata – che segna gli anni della ricostruzione e del boom, il progressivo allontanarsi dalla natura, l’inarrestabile avanzata di prodotti (e mentalità) industriali, di cibi e oggetti segnati dalla tecnologia a scapito di quelli, semplici e banali, di veloce decadenza e marcescenza, che forniva l’orto di casa, o il negozio di alimentari all’angolo. Ecco, in questo passaggio c’è la formazione di Gianluca Nicoletti, e c’è la trasformazione del nostro paese degli ultimi sessant’anni. “Penso che divenimmo i pionieri degli amori digitali proprio perché avevamo coltivata fin dalla fanciullezza quella fantastica confidenza con tutto ciò che riproduceva sinteticamente il banale e caduco prodotto della natura”.
Il passo successivo sono le protesi emotive dei Golem che riproducono in forma digitale il nostro agire umano, lo smarrirsi in un universo che mette in comunicazione con un numero potenzialmente infinito di persone, l’illusione che le memorie elettroniche ci rendano meno inermi di fronte alla fugacità delle cose della vita. Una dimensione in cui il monitor diventa un reliquiario di noi stessi, e noi siamo una sorta di imbalsamatori delle nostre anime, che ordiniamo nel museo digitale delle nostre allucinazioni. Se questo ci renderà meno fragili e se le tracce che avremo lasciato sopravvivranno meglio all’erosione del tempo, non ci è dato sapere. Per ora, dice Nicoletti, viviamo in un tempo mitico che si è fuso con la vita di ogni giorno. “Ho avuto il privilegio di poter seguire un passaggio nella catena evolutiva pari a quello che ha determinato il pollice opponibile”. Ma anche lui, che pure ha la sensazione di essere stato testimone e insieme protagonista di una delle rivoluzioni più significative della storia dell’uomo, conclude: “Come tanti miei contemporanei, ho diluito il mio tempo mitico nell’imbecille minestrone del quotidiano”. Niente di grave. L’importante è saperci ironizzare sopra.

domenica 2 marzo 2014

Aere perennius

Sono in ritardo, terribilmente in ritardo.
Mentre io mi attardavo a promuovere la lettura
c’era chi aveva capito che i libri non servono più.

Forse i conigli non dovrebbero avere la presunzione di interloquire con Wittgenstein. Ma  lì (tale il titolo del blog di Luca Sofri) fin dall’8 gennaio campeggia un post che decreta, testuale: ”La fine dei libri”. Sono certo in ritardo, sono d’accordo su alcune osservazioni, ma su altre vorrei sommessamente dissentire.
Dice Luca Sofri che la rete ci ha disabituato alla “lettura lunga” e che il tempo che una volta era usato per leggere libri ora è preso da altri strumenti: videogiochi, social networks, video online ecc. Forse in parte è vero, e ce ne dogliamo. Ma soprattutto che il libro “non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura”, e che è “diventato marginale come mezzo di diffusione della cultura contemporanea”, che trova invece spazio su internet in formati più brevi, “che non sono più superficiali, anzi spesso sono molto più densi e ricchi di certi saggi di 300 pagine allungati intorno a una sola idea”. Sofri aggiunge che non è vero che i libri “restino” più a lungo, e che oggi “resta” più un post su un blog. Un monumento incorruttibile nello scorrere della storia. E  conclude che ci saranno sempre degli “appassionati ‘romantici’ dei libri”, ma che saranno sempre meno, come quelli del teatro: due “nicchie laterali della cultura contemporanea”.
Ora, nessuno mette in dubbio la crisi dell’editoria, anche se a mio avviso è più figlia della crisi economica generale che di una disaffezione per il libro. Né che i nuovi media stiano occupando uno spazio crescente del nostro tempo sia libero che di lavoro, né che abbiano grandi capacità di sintesi e di penetrazione nell’opinione pubblica. Una cosa che onestamente non riesco a condividere, invece, è che la cultura  si possa costruire senza libri: quella non è cultura, è abilità, capacità di organizzarsi, di avere informazioni. Ma la cultura nasce dalla comprensione profonda di fatti, concetti, progetti. Dalla metabolizzazione di ragionamenti complessi.
E non credo che tutti i libri siano solo lungaggini stiracchiate intorno a una sola idea. Lo saranno quelli scritti dagli universitari a meri fini concorsuali. Lo saranno probabilmente la maggioranza di quelli che vengono pubblicati, come è sempre accaduto. Ma che ogni tanto un libro – saggio o romanzo che sia – riesca a sondare spazi inesplorati, dandoci risposte a grandi questioni, o aggiungendo dubbi a quelli che abbiamo già, riesca a raccontare le vicende umane con intuizioni così profonde da farci ripensare a tutto quello che abbiamo fatto nella nostra vita, o a farci scoprire un tipo di persona o di comportamento che non eravamo riusciti ad inquadrare con i nostri mezzi, questo non lo può negare nessuno. Il libro, sì, può essere un monumento aere perennius.
Se poi è vero che, purtroppo, il numero dei lettori, in Italia, non solo non cresce, ma diminuisce perfino, questa è soltanto la dimostrazione non che siamo un paese all’avanguardia, ma che siamo un paese arretrato e condannato al declino culturale, politico ed economico. Eppure, a guardarle bene, le cifre della crisi riguardano soprattutto i lettori deboli, quelli che leggono un libro l’anno, magari di ricette, di diete o di freddure. Perché i lettori forti sono rimasti più o meno gli stessi.
Luca Sofri dice che è assodato che “la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga”, e cioè incapace di leggere testi di molte pagine. Ma non so se è vero. Perché i “lettori lunghi”, in Italia, sono sempre stati pochi. Il problema è che non sono cresciuti proporzionalmente alla scolarizzazione del paese. Può, l’uso della rete, sostituirsi a questa mancata crescita? Io penso proprio di no.
Sempre che ai conigli sia concesso confrontarsi con Wittgenstein, vorrei dire che mi spaventa l’idea – ahimé diffusa - che in futuro apprenderemo molto velocemente dalla rete quello per cui prima perdevamo tempo sui libri. Io penso invece che, rinunciando alla lettura (su carta o su e-reader non conta), saremo sempre meno capaci di pensieri complessi, di ragionamenti in profondità, di assimilare le lezioni del passato, di progettare il nostro futuro con cognizione di causa, di svolgere il nostro lavoro - tutti i lavori, dal più semplice al più complesso – con competenza. Soprattutto ho paura che chi viene affascinato dalla prospettiva della trasmissione informatica della conoscenza non si renda conto che la mancanza di profondità, di “lettura lunga”, impedisce la maturazione di cittadini consapevoli, e quindi di una democrazia degna di questo nome. Perché in un paese dove non si leggono libri, non si sa nemmeno perché e per chi si va a votare. E che in Italia la scarsa percentuale di lettori abbia già dato segnali preoccupanti in questa direzione, mi pare non ci sia bisogno di ripeterlo. E la frequentazione della rete difficilmente produrrà maggiore senso dello stato, solidarietà sociale, coscienza civica. Né capacità di sviluppo, intellettuale come economico, perché vanno di pari passo.

Lasciamo ai nuovi media tutto il merito di darci informazioni infinite in tempi brevissimi; di metterci in contatto con il mondo senza barriere; e facciamo in modo che tutti vi abbiano accesso, perché sono strumenti indispensabili. Ma credo che non dovremmo perdere occasione per sostenere la lettura, fare in modo che la famiglia, la scuola, la radio e la televisione e, perché no, i nuovi media lancino una grande campagna per stimolare la lettura e familiarizzare gli italiani col libro. Anche con i grossi libroni con un’idea sola: meglio averne letto uno in più che uno in meno. Non è tempo perduto. E’ tempo guadagnato nella costruzione di menti critiche e  aperte. Perché è dimostrato che nei paesi in cui il numero di lettori di libri è più alto, il prodotto interno lordo cresce di più. Pensare che leggendo twitter gli italiani acquisiscano gli strumenti per competere a livello mondiale con i paesi più avanzati è un’illusione pericolosa. Senza pensiero, senza ragionamento, senza “lettura lunga” si resta superficiali, ignoranti, e poveri. E magari, pur illudendosi che un blog sia eterno, si finisce per usare una lingua sciatta, povera e disordinata, che trasmette idee approssimative e confuse.www.wittgenstein.it

venerdì 21 febbraio 2014

Street poetry

Visto in vico Tofa, Napoli

                                                                           Foto di Anna Assumma

Il silenzio è d'oro

Un annetto fa, Trenitalia ci ha informato di aver trasformato una carrozza delle Frecce Rosse in una “zona silenzio”. Tutto contento, alla prima occasione ho subito prenotato un posto silenzioso; certo, la zona silenzio c’era solo in prima, ma mi sono accontentato. Quel primo viaggio è stato una delizia: la porta del vagone riportava in caratteri visibili la scritta “zona silenzio”, e ad ogni finestrino un adesivo ricordava: “Si prega di evitare conversazioni ad alta voce, telefonate, suonerie e musica”, e ringraziamenti per aver rispettato l’invito. Che era, in effetti, rispettato. Una meraviglia. Niente energumeni che urlano ordini alla segretaria, broker che ordinano acquisti e vendite, confidenze sentimentali fatte a voce altissima nell’indifferenza generale, niente suonerie rock a tutto volume.
Naturalmente è durato poco. Già al secondo viaggio hanno cominciato a sentirsi i primi telefonatori urlanti, al terzo c’era chi sentiva concerti a tutto volume sul computer, chi guardava un film senza le cuffie, bambini che giocavano con assordanti beep sul gameboy, magnati russi che ululavano improperi incomprensibili. Inutile protestare. Mi è stato spiegato che, quando erano finiti i posti nelle carrozze normali, si piazzavano lì anche i clienti rumorosi, e non si poteva imporre a chi non aveva chiesto quella collocazione di fare silenzio. Il controllore faceva timide raccomandazioni, e io venivo guardato con odio dai presenti che rumoreggiavano felici.
Nessuno stupore che, recentemente, Trenitalia abbia eliminato la carrozza-silenzio; la zona silenzio si è ridotta a un pezzetto di vagone, sedici posti in tutto, quasi sempre pieni. E’ vero, lì domina un silenzio perfetto. Ed era assurdo pensare di poterlo imporre alla maggioranza dei viaggiatori che, non portandosi dietro non dico un  libro, ma nemmeno le parole crociate, può solo conversare e telefonare rumorosamente.

Ma però: perché la zona silenzio, per striminzita che sia, ci deve essere solo in prima? Forse perché, come si sa, il silenzio è d’oro, e non tutti se lo possono permettere.