martedì 21 gennaio 2014

Priapismo letterario

Accade oggi che si usi una scrittura pesante, 
barocca, inventiva, artificiosa, gonfia, direi erettile. 
Uno stile fortemente involuto, che sembra ideato apposta 
per nascondere il vuoto di idee e la pochezza degli intrecci. 


NON AVALLIAMO LA AVALLONE

“A forza di stare a contatto con i boschi e i sassi, avevano contratto il vizio del silenzio”. “I boschi erano masse scure dove i rami s’intricavano tra loro”. “Continuavano a rimuginare, a risalire la strada deserta, a inabissarsi in quella voragine di abeti e di sterpi senza sapere come fare a trovare un biliardo, un bar aperto, a far accadere qualcosa dentro quel silenzio”. Non starò qui a cercare di spiegare perché i due protagonisti del romanzo della Avallone Marina Bellezza, Rizzoli 2013, la canterina scatenata e il riflessivo mungitore di mucche risultino personaggi di poco spessore in una trama poco plausibile. E’ interessante qui notare la faticosa costruzione di uno stile che vuole essere originale e suggestivo. “Contrarre il vizio del silenzio” perché si vive tra i boschi (ma guidando la macchina con gli amici), far “intricare i rami tra loro”, far “accadere qualcosa dentro un silenzio” sono espressioni volutamente arbitrarie, che piegano la lingua in un contorcimento stridente e inutilmente fantasioso. “Il buio si agitava nel vento, tra le ripe, tra i boschi, come una creatura viva”; il buio che si agita? Come una creatura viva? Il buio? Mah. E quando i giovani che vogliono far accadere qualcosa dentro il silenzio ci riescono, perché investono un cervo con la macchina “L’urto fu devastante. Fu lo schianto feroce di un corpo fatto di lamiere contro un altro corpo ancora più duro”. Il cervo più duro della macchina, eh sì. E allora “Ci fu un istante di panico, in cui tutti e tre ansimavano senza riuscire a fare altro” (…) “con la tachicardia così forte che sembrava potessero sentire l’uno il cuore dell’altro”. E quando i giovani caricano il cervo morente nel bagagliaio della macchina, uno di loro ne capisce il rantolo: “Conosceva il linguaggio delle bestie, glielo aveva insegnato suo nonno da bambino. Sapeva che il linguaggio, senza parole, arriva a coincidere con la radice nuda delle cose”. Che intensità, che coinvolgimento emotivo. Uno stile potente. Una sorta di priapismo letterario.



Sono connesso ma non connetto

Chi volesse informarsi sul significato del termine bovarismo e lo cercasse su Google, troverebbe come prima voce quella di Wikipedia, che suona così: “Il bovarismo è una corrente di pensiero sviluppatasi durante la seconda metà dell’ottocento, che definisce la tendenza di alcuni artisti a sfuggire alla monotonia della vita di provincia: la metropoli, in questa visione, diventa un sogno ambito che, insieme alla lettura, proietta la mente in una sorta di paradiso terreno. La lettura quindi come mezzo di svincolo dalla realtà, intesa quasi come una sorta di droga”.
Difficile immaginare che chi ha steso una voce simile abbia mai sia pur solo sfogliato il romanzo di Flaubert. E misteriosa rimane l’origine di questa immagine vitellonesca di artisti stanchi della provincia che sognano Parigi. Ma il culmine lo si trova nell’immaginosa proiezione della lettura intesa come droga per allontanarsi dalla realtà. Vero che Emma Bovary si esaltava leggendo libri sentimentali, e che la suocera le aveva tolto la tessera della biblioteca per evitare che avesse troppe fantasie, appunto, bovaristiche. Ma che Flaubert abbia disegnato la lettura come droga è una mistificazione sublime.

Per fortuna la seconda voce è quella, corretta, del dizionario Treccani. Ma guai se ci si ferma a Wikipedia: il disastro è in agguato.

Castle in aria


Sono in ritardo, sono terribilmente in ritardo: 
non mi ero accorto che l’organizzazione tayloristica del lavoro
è entrata anche nell’industria culturale


Nikki Heat, una detective della polizia di New York della cui madre, uccisa molti anni prima, non è mai stato trovato l’assassino, si imbatte in un delitto che potrebbe riaprire il caso. Accompagnata dal fidanzato, famoso giornalista e scrittore di gialli, Nikki indaga. Seguono altri delitti e, tra attentati, inseguimenti all’ultimo respiro, qualche litigio con il fidanzato, si arriva a una conclusione che non anticipiamo. Questa la sostanza di Frozen Heat, di Richard Castle, Fazi editore. Un giallone pieno di ritmo, con due protagonisti abbastanza originali, perché la coppia poliziotto-scrittore di successo ricorda Ellery Queen, e in più qui ci sono di mezzo sesso, traumi, sentimento e risentimenti.
Certo, la scrittura è piuttosto piatta, con parecchie cadute di stile e, soprattutto nelle prime pagine, la traduzione lascia molto a desiderare. Il libro, però, nasconde un piccolo mistero, che mi è stato segnalato dall’amico Giorgio Casadio. Se diamo un’occhiata alle bandelle, scopriamo che Castle è l’autore di numerosi bestseller, che il suo primo libro è stato pubblicato quando andava ancora al college e che ha meritato un premio per la letteratura del mistero. In quarta di copertina c’è la foto di un bel giovane, sotto la quale però compare non un nome, ma “American Broadcasting Companies, Inc”. Per essere sicuri di questa paternità industriale basta andare al copyright, dove troviamo la conferma, perché non è del signor Richard Castle, ma degli ABC Studios, la famosa industria televisiva. E in effetti Castle è il protagonista di una serie di telefilm gialli della ABC, trasmessi anche in Italia, uno scrittore che lavora assieme a una detective (come i protagonisti del libro). La foto della quarta, infine, è quella dell’attore che impersona Castle nel telefilm, un certo Nathan Fillion.

Notizie confermate da Wikipedia, che allega la foto del solito attore belloccio, e ci racconta che alcuni dei libri di Castle sono degli pseudobiblion (cioè libri immaginari), che venivano citati nella prima serie del telefilm, e che sono stati scritti solo in seguito al successo del prodotto televisivo. Significativo infine che la serie televisiva, apparentemente ambientata a New York, viene girata a Los Angeles. Un gioco di specchi, una serie di indicazioni che si rimandano l’una all’altra, nomi di personaggi che coprono altri personaggi, senza darci spiegazioni chiare.

In rete, però, c’è anche un sito della serie italiana dove, a un ammiratore che chiede: “Chi scrive i libri di Richard Castle?”, si risponde: “Ovviamente un’altra persona, dato che Castle è un personaggio immaginario”. Dunque, il problema è che, contrariamente a quanto vorrebbe farci credere il risvolto del libro, Castle-scrittore non esiste, e nessuno ha la paternità di questi libri. Nel sito, invece, ci sono commenti entusiastici di lettori convinti che l’autore sia l’attore Fillion, o che Castle esista davvero. Solo un lettore, confuso, alla fine si chiede: “Ma chi ca… li scrive, questi libri?”.

Possiamo immaginare che i libri siano, semplicemente, un prodotto industriale, come quello cinematografico: uno scrive un soggetto, altri scrivono la sceneggiatura, un revisore dà un po’ di unitarietà al racconto. Una catena di montaggio che, sia pure con qualche meccanicità, funziona. D’altronde anche in Italia c’è chi ci ha pensato: i Wu Ming per primi, e ora minimum fax, che ha pubblicato In territorio nemico, che ha come autore “Scrittura Industriale Collettiva”: un insieme di 230 persone che si sono distribuiti i compiti con una divisione tayloristica del lavoro.

Ora, non mi pare ci sia niente di immorale a produrre libri, pseudolibri o libroidi, non so come chiamarli, con un metodo industriale. Lo si fa da sempre col cinema e con la tv; perché non farlo coi romanzi? Certo, bisognerebbe almeno dichiararlo, come fa minimum fax. Ma non è un processo produttivo vietato. Però, come si fa a produrre un buon romanzo con tanti autori? Che stile avrà mai? Che personalità trasparirà da quelle pagine? E considerato quanto si è lottato per superare la frammentazione tayloristica del lavoro nelle fabbriche, possibile che adesso la si applichi alla produzione intellettuale? Perché dobbiamo abbassare il libro allo stesso livello di un prodotto metalmeccanico? Che se ne trae?

A meno che, dopo questo passo verso l’industrializzazione della scrittura, il destino della produzione del libro, come quello dell’automobile, non sia quello di passare dalla catena di montaggio alla automazione, alla linea robotizzata. Ecco, forse la ABC ci sta già pensando. Perché non far produrre, in serie, a un buon computer, dozzine di romanzi che prendono spunto dalle serie televisive? Romanzi scritti dal tenente Colombo, dall’ispettore Barnaby , dal commissario Montalbano? Be’, non vedo l’ora.
                                                                                         Da “L’Immaginazione”, n.276