sabato 9 maggio 2015

SVEVO INDAGA

Non so cosa darei per sapere come la prenderebbe, Svevo, a trovarsi protagonista dei ben due libri, e per di più di taglio poliziesco, usciti a breve distanza tra loro, negli ultimi mesi. Uno, LA MORTE DANZA IN SALITA – Ettore Schmitz e il caso Bottecchia, di Alessandro Mezzena Lona, edito da Simone Volpato, è un romanzo breve che ci fa trovare uno Svevo-Schmitz già anziano, fumatore pentito recidivo, malato immaginario quanto Zeno, in vacanza a Peonis, un paesino del Friuli, per fare moto, lavorare a un nuovo romanzo, respirare aria buona, dimagrire un po’ e – a Dio piacendo – smettere di fumare.
Non riuscirà in nemmeno uno dei suoi intenti, ma in compenso troverà la soluzione al mistero della morte, avvenuta sulle strade del luogo in situazioni non chiarite di un  ciclista, Ottavio Bottecchia, famoso trionfatore del tour (vicenda realmente accaduta). Servirà a poco, perché i probabili assassini, protetti dalle bande fasciste che cominciano a spadroneggiare nel paese, non saranno incriminati e anzi, forse, avranno un ruolo anche nella morte dello stesso Svevo, dovuta effettivamente a un misterioso incidente stradale avvenuto un anno dopo.
Ma le giornate di Svevo, che sta godendo i primi, tardivi successi letterari, sono inframezzate da molte birre, un piacevole ristorante del paesino carnico e le chiacchierate con don Dante, il parroco, e Casseri, il capitano dei carabinieri. Ed è il temperamento curioso di Svevo che fa emergere gli indizi, e apre lo scenario dei segreti del luogo: la falsa pista di un contadino che avrebbe lanciato un sasso contro il ciclista, le gelosie di un eroe della grande guerra che ha sposato una ragazza troppo bella, la presenza di bellimbusti del partito fascista che hanno amici potenti in città. E il cittadino Schmitz, con il suo carattere bonario e la sua innata propensione a occuparsi dei fatti che ha sotto gli occhi, è l’unico che riesce a suscitare la confidenza che svelerà il mistero.
Un po’ più defilato è il ruolo che ha Svevo nel romanzo di Deana Posru e Gianfranco Sherwood, L’AVVENTURA SEGRETA – Quando Italo Svevo chiese aiuto a Sherlock Holmes, MGS Press, perché i veri protagonisti, qui, sono il mitico detective inglese e il suo aiutante-biografo Watson. Svevo-Schmitz è a Londra su incarico della tirannica suocera, la proprietaria della famosa ditta di vernici marine Veneziani, che lo ha spedito a trattare l’apertura di una fabbrica in Inghilterra; qui si fa rubare per sbadataggine un prezioso codice cifrato necessario per comunicare in segreto con la casa madre. Per recuperarlo, si rivolge a Holmes. Ma il furto nasconde traffici e conflitti internazionali complicatissimi, e l’azione del racconto quindi si sposta a Trieste. Un giallo complesso, che si legge con gusto, e non ha niente da invidiare alla scrittura (peraltro non eccelsa) di Conan Doyle. 
Ma vedere Holmes e Watson all’opera nella Trieste della belle époque, centro di traffici, commerci spregiudicati, fermenti irredentistici e di ininterrotte trame spionistiche di tutte le  potenze europee è uno spettacolo. La città è descritta con grande efficacia, e Holmes naturalmente ci si ambienta benissimo, e trova subito il bandolo degli intrighi che ci sono dietro la faccenda della ditta Veneziani. Pedinamenti, corse col tram di Opcina, attentati, vari di navi, travestimenti, sequestri e fughe sono la materia prima che gli autori maneggiano con disinvoltura. Il racconto tiene e, come nel libro di Mezzena Lona, dietro l’invenzione c’è una ricerca rigorosa che dà plausibilità alla storia.
E Svevo? Certo, l’industriale-scrittore compare spesso, è disinvolto nel trovare un aiutante per i detective, conosce bene la città; ma il fascino del suo personaggio, in tutti i due libri, è che Svevo è rappresentato come la copia, l’alterego di Zeno Cosini. Troppo facile, si potrebbe dire. Ma il fatto è che le caratteristiche di Zeno sono in realtà connaturate alla maggior parte dei triestini. Scarsa propensione al lavoro, temperamento superficiale, languida tendenza a farsi trascinare da una bettola a un ristorante, a parlare volentieri di tutto e a sparlare di tutti. Ecco, Svevo ci ha regalato un personaggio emblematico, un archetipo ancora oggi attualissimo del comportamento dei suoi concittadini. Un personaggio che, da solo, senza bisogno di ripetere i contorni del protagonista della Coscienza, ci viene incontro come un vecchio amico, riempie le pagine e rende immediatamente percepibile l’atmosfera insieme decadente e vivacemente ventosa che Trieste ha ancora oggi.
Un’unica differenza: oggi i triestini sono tutti salutisti, passano le loro giornate a passeggiare, a fare sport, e a rosolarsi al sole sulla riviera di Barcola. Difficile, ai giorni nostri, sarebbe trovare un ipocondriaco di tale fattura, che non riesce a smettere di fumare. 


                                                                               Da "L'immaginazione" 

venerdì 1 maggio 2015

IL GIORNALISMO CULTURALE E LA CULTURA DIVERGENTE

C'era una volta la Cultura con la C maiuscola. Erano tempi in cui solo una ristretta élite rappresentava la parte di un paese che si esprimeva in pubblico, che aveva gli strumenti necessari per parlare, scrivere, fare arte e musica e, in definitiva, per determinare le scelte di una nazione. Anche nelle democrazie moderne, a lungo, c'è stata un'oligarchia della conoscenza, una piccola percentuale della popolazione destinata a detenere gli strumenti di trasmissione del sapere come del potere.
Nella seconda metà del '900 si è fatta strada una nuova definizione di cultura, per così dire con la c minuscola. E' quella che, invece di riferirsi soltanto alle zone di produzione creativa intellettuale ed artistica, si riferisce più ampiamente all'insieme di valori, di usi, di comportamenti, di tradizioni e di espressione estetica che sono patrimonio comune di un intero popolo, e non delle sole élites. Ha avuto inizio così un cambiamento che, allargando a tutta la popolazione di un paese la base produttiva di fenomeni culturali, produce la nuova identità di una nazione.
Qualche anno fa Henry Jenkins, in Cultura convergente (Apogeo, 2007), descriveva il rapporto interattivo tra vecchi e nuovi media come un processo che porta i diversi mezzi di comunicazione a fondersi tra loro e mette in comunicazione i due livelli di cultura di cui abbiamo parlato. Un processo che avrebbe, secondo l’autore, liberato nuove energie culturali e intellettuali, in particolare per la democratizzazione della produzione di informazione e sapere che si è aperta con il diffondersi dell’uso della rete.  
Questo nuovo modo di intendere la cultura ha naturalmente inciso sul giornalismo culturale. E avrebbe dovuto incidere anche sul giornalismo in generale e sulla comunicazione di massa nel suo insieme. Il passaggio da una comunicazione di massa, fatta però con criteri di élite, a una comunicazione veramente aperta a tutto il corpo sociale, avrebbe dovuto provvedere ciascuno di un bagaglio conoscitivo tale da rendere tutti preparati al compito di essere cittadini partecipi e consapevoli.
Cos’è accaduto, invece? C’è stato, per usare un termine medico, una sorta di effetto paradosso. La democratizzazione si è dimostrata illusoria perché, invece di aprire il rimescolamento e la compenetrazione di due universi poco permeabili, i cambiamenti e i nuovi media hanno fatto sì che la cultura alta si sia, per certi versi, ulteriormente isolata e la cultura bassa abbia avuto un’involuzione deteriore. La alta continua ad avere un suo spazio, è poco incline ad aprirsi a un pubblico non specializzato e agisce in un universo chiuso. Mentre la bassa si è ulteriormente adeguata al livello più corrivo della comunicazione commerciale, rinunciando a puntare all’apertura ai più del pensiero della comunità intellettuale, ma occupando in compenso buona parte dell’area una volta occupata dalla alta.
Le culture sono divergenti, come lo sono i mezzi di comunicazione. Da un lato la cultura di élite, sui supplementi di quotidiani, e alcuni dei blog più interni alla società culturale; dall’altra i media popolari e la rete, con una massa di interventi senza filtro, dove tutto si confonde, dove non esiste la mediazione dell’esperto autorevole, dove non c’è separazione tra il professionista e il mitomane, dove il flusso di commenti generici del lettore occasionale si fonde con la recensione del critico militante. Un frullato dove tutto è altrettanto, democraticamente, significativo e quindi, necessariamente, irrilevante. Perché la mancanza della mediazione non produce una convergenza tra le culture e i mezzi, ma anzi ne accentua la divergenza.
Qui, secondo me, è il nodo; e da qui, a mio avviso, parte una modificazione che, paradossalmente, cercando di democratizzare l’informazione culturale, la sta uccidendo.
Per concludere, tornando alla situazione attuale, penso che il giornalismo culturale sia una specializzazione in via di estinzione. Naturalmente rimangono isole felici, specie nei grandi quotidiani e nei loro supplementi (La lettura, Il domenicale del Sole, Tuttilibri, Alias ecc.), dove è ancora vitale e combattivo, con firme autorevoli e giornalisti impegnati, che apprezziamo e invidiamo; ma nei giornali minori, e soprattutto nel giornalismo radiotelevisivo, sempre più spesso le redazioni culturali vengono accorpate con le redazioni della società o dello spettacolo, riducendo e spesso eliminando lo spazio dedicato ad argomenti specificamente culturali, producendo redazioni meno specializzate e competenze più ampie ma più superficiali. La notizia curiosa, la spigolatura, il particolare divertente, il pettegolezzo culturale, la vita privata dei protagonisti della società letteraria sono quello che tende a determinare le scelte di chi confeziona i notiziari.
E’ un modello che privilegia la costruzione del personaggio, una sorta di star system della cultura, dove attorno ai divi dell’intellighenzia, quelli che appaiono in tv, si devono costruire delle storie, una narrazione. Al posto dell’analisi, della critica, dell’esposizione di contenuti, lo storytelling.
Né, a me pare, può essere la rete a sostituire quello che il giornalismo culturale ha significato fino a qualche anno fa. Da un lato perché in rete troviamo le pagine web dei giornali, fatte con lo stesso criterio della carta stampata, sia pure con più ritmo e con l’inserimento di filmati; e dall’altro perché in rete si trovano siti culturali – cito, per tutti, Minima & moralia  – che hanno contenuti e struttura assimilabili a quelli delle riviste su carta, e blog, anche curiosi, dove prevale l’intervento spontaneo di chi non troverebbe spazio altrove. Salvo rare eccezioni, la rete è effettivamente il luogo della massima libertà, dove fluisce quasi senza controlli e senza censure l’opinione di chiunque abbia voglia di esprimersi. Proprio per questo, però, non può essere il luogo dove si esercita il giornalismo culturale, dove chi ha autorevolezza e può diffondere aggiornamento e cultura svolge il suo ruolo, formativo e informativo.
Vi prevale quella che Lella Mazzoli ha definito una “comunicazione discorsiva”, un fluire di onesto chiacchiericcio, in un frullato di prodotti dell’ingegno in cui è difficile distinguere il grano dal loglio. Dove You tube non apre tanto la possibilità di avere notizie di prima mano quanto piuttosto il diffondersi di deliziosi filmati di gattini; dove Anobii non conforta il lettore con rigorosi ragionamenti sulla qualità dei libri in circolazione, ma ci informa sulle letture di singoli esibizionisti che vogliono farci conoscere le loro abitudini letterarie. Dove invece di avere ragionate recensioni abbiamo risentimenti di studenti frustrati che si sentono finalmente autorizzati a stroncare le letture dei classici raccomandate dai professori.
Eppure, io credo che il giornalismo culturale avrebbe ancora una funzione: quella di mettere più cultura in tutto il processo informativo, di fornire un servizio. Servizio è dare informazioni le più oneste possibile sugli avvenimenti, sui prodotti, sui dibattiti culturali; spiegare bene cosa c’è in una mostra, limiti e qualità, elementi di pregio e dettagli scadenti. Servizio è una recensione scritta da un critico che dica ai lettori cosa veramente pensa dei libri che legge; che metta in guardia il lettore che non ha la sua competenza dai successi ingiustificati e dagli scrittori sopravvalutati. Servizio è dare notizia del dibattito che si sviluppa nel paese sui temi più importanti, seri o lievi che siano, con onestà, senza cedere al sensazionalismo e alle interpretazioni forzate per produrre curiosità pruriginose. Servizio è mettere a disposizione del maggior numero di persone il maggior numero di informazioni che possano sviluppare l’interesse critico e la riflessione analitica della collettività.
Qualcuno dirà che, in un paese in cui gli scandali si susseguono incessantemente, l’amministrazione dello stato è in mano a conventicole di corrotti e il parlamento è popolato di indagati, non ha senso porsi il problema di come funziona l’informazione culturale. Personalmente, però, penso che i due campi non siano disgiunti, ma strettamente legati. E che se la nostra classe dirigente è impresentabile, è anche perché il giornalismo culturale è in crisi, e quindi la cultura media degli elettori resta modesta. Un paese dove non ci si preoccupa che le informazioni culturali circolino, raggiungano il maggior numero possibile di persone, escano dal circuito elitario della società delle lettere e dell’accademia, è un paese dove la democrazia stenta ad affermarsi. E’ quello che accade in Italia, e si vede.

Sintesi della relazione introduttiva al
Festival del giornalismo culturale di Urbino,

23 aprile 2015