domenica 25 ottobre 2015

MA PER CAMBIARE BISOGNA CONOSCERE LA STORIA


La prova del potere, di Giuliano Da Empoli, Mondadori, è un libro insieme paradossale, irritante e stimolante. Paradossale perché dopo aver sostenuto a più riprese che per la generazione dei trenta-quarantenni (TQ, s’intende) “gli esempi del passato sono un grimaldello per rimettere in gioco il presente”, poi racconta la storia italiana in modo fantasioso, per non dire impreciso e falsato. Irritante perché trasforma quello che vorrebbe essere un manifesto politico e culturale per i TQ in uno storytelling divagante e prolisso, tutto citazioni di film e libri, poco rigorose o strumentali. E stimolante perché, almeno in alcune parti, individua il taglio giusto per leggere il nostro presente e alcuni dei suoi problemi.
La cosa più irritante è il modo in cui Da Empoli parla del ’68,  dei suoi valori e di ciò che ne è conseguito, confondendolo con il movimento hippy, con gli slogan “desideranti” del ’77 e degli anni del Craxismo. Il ’68 ha coltivato certo anche la libertà sessuale, ma soprattutto quella civile e politica, con rigore a volte persino eccessivo, e non soffriva del complesso di Peter Pan; sue conseguenze non sono un paese del bengodi, ma l’autunno caldo, le grandi conquiste economiche e sociali e le grandi riforme civili degli anni ’70: lo statuto dei lavoratori, la liberalizzazione dell’accesso agli studi universitari, la riforma sanitaria, la legge 180, il nuovo diritto di famiglia ecc.
Da Empoli parla di un’Italia che negli anni ’50 e ’60 si divertiva: certo, una esigua percentuale di alto borghesi ha dato vita a un periodo di grande felicità creativa e anche mondana. Ma avrebbe dovuto ricordare i milioni di emigranti che in quegli anni hanno lasciato la fame del Sud per incontrare il razzismo e la scarsa solidarietà dei settentrionali, e il lavoro alienante e sottopagato delle fabbriche del Nord. Sai che divertimento.     
E sostiene (copyright Magrelli) che Berlusconi ha trovato pronto un elettorato “formato dalla rivoluzione dei valori del Sessantotto”. Ma Berlusconi è stato il sintomo di una malattia che comincia con gli anni ’80, e che coincide con il raggiungimento del benessere e lo sviluppo di un ampio ceto medio, che non sente più le spinte al cambiamento e alla solidarietà perché ha la sensazione che non ci sia più niente da conquistare. Il ’68, con Drive In e con le olgettine, non c’entra niente.
Non convince infine il parallelo tra l’Italia e Venezia, che vorrebbe farci credere che una città-museo (e quindi un paese-museo) si possono salvare dal declino con intelligenti iniziative culturali, come è stata la Biennale per Venezia. In Italia ci sono più festival culturali che in tutto il resta d’Europa, ma il Pil non cresce lo stesso.
Difficile affermare, infine, che “piccolo è bello”, che l’Italia ha un suo modello di sviluppo e non ha bisogno di scimmiottare nessuno. Vero per il gusto; drammaticamente falso per il resto. Abbiamo alle spalle un modello di furbizia, illegalità diffusa, opportunismo, mancanza di senso dello stato e familismo amorale che è all’origine della nostra crisi; un sistema inquinato da mafie diffuse, apparati dello stato corrotti, giustizia inefficiente e evasione fiscale di massa che non solo non invidia nessuno, ma che è il problema per cui è difficile che qualcuno venga a investire nel nostro paese e impianti le grandi imprese ad alta tecnologia che producono ricchezza e lavoro.
Da Empoli invece centra il problema quando dice che i continui allarmi sul populismo sono astorici: non esistono sistemi politici efficienti che non abbiano una certa dose di populismo. E ha ragione quando contesta le giaculatorie dei principali commentatori che non sopportano il governo in carica, il suo agire e le riforme che mette in atto con critiche che hanno il fondamento in un mondo che non c’è più, e che è inutile rimpiangere. E che i vecchi partiti, circondati da intellettuali organici, fondazioni e organi di stampa embedded non erano meglio dei partiti “liquidi” della postmodernità. Ha ancora ragione quando dice che non dovrebbero esserci tabù: non nell’immaginare che “musei, istituti, associazioni che hanno esaurito la loro funzione” potrebbero essere chiusi. Che la politica culturale si è ridotta alla gestione delle sovvenzioni alle istituzioni. E che si possono riorganizzare gli apparati dello stato che servono solo a moltiplicare il clientelismo e il voto di scambio.
Ha ragione infine a dire che la generazione TQ deve far saltare i codici, perseguire la trasgressione e uscire dall’ambiguità e dall’incertezza. Mi permetto di aggiungere che lo potrà fare soprattutto se saprà utilizzare l’esperienza di chi è più anziano, che magari sa osare, ha letto con attenzione il nostro passato e non cade in errori di valutazione. Rischio che nessuno, ancorché giovane, può permettersi di correre.


Da “L’Immaginazione”, ottobre 2015

lunedì 5 ottobre 2015

SONO DIVENTATO REAZIONARIO
E NON MI SENTO IN COLPA

Aiuto, mi sono scoperto reazionario e antidemocratico. Sarà l’età, saranno i tempi cupi, sarà l’incipiente tramonto dell’Occidente. Ma mi scopro schierato con quelli che illustri commentatori considerano qualunquisti, deterministi, rinunciatari. E il problema è che non mi sento affatto in colpa.
Mi è successo leggendo un accorato intervento di Roberto Esposito, del quale spesso condivido le opinioni, sulla Repubblica del 4/5/2015. Esposito ripercorre alcuni dei segnali di crisi della democrazia, dal carattere oligarchico delle istituzioni alla ridotta percentuale di votanti, dal ruolo dei mercati e della finanza nelle politiche economiche a quello dei media nella formazione dell’opinione pubblica; ricorda che ampie fasce della popolazione si trovano escluse dai processi decisionali e che le spinte antipolitiche allargano il solco che divide i cittadini dalle stanze del potere.
In conclusione, Esposito si chiede come si possa rispondere a questa deriva autodistruttiva delle democrazie, e risponde che il problema riguarda la loro sostanza, che oggi sembra risolversi in inutili discussioni tecniche (e il nostro pensiero va al dibattito sulla riforma del senato, che sembra aver bloccato per mesi la vita del Parlamento senza produrre un gran che), mentre dovrebbe consistere in grandi progetti e principi fondatori. E che la politica dovrebbe essere “il luogo in cui si confrontano valori e interessi diversi e contrapposti”.
Ecco, è leggendo queste ultime righe che mi sono chiesto: ma non è che, per caso, la banalità del dibattito politico e il distacco che ne hanno i cittadini nasce dal fatto che nel nostro paese – e forse in tutto l’Occidente – i valori e gli interessi che si contrappongono non hanno niente a che fare con i grandi progetti sociali, con le aspirazioni di rinnovamento universale, con le ideologie, in definitiva, come accadeva una volta, ed è per questo che il dibattito è sempre più sterile e finisce per nascondere soltanto interessi di parte e giochi di potere? 
In effetti, tramontati da un lato il progetto della costruzione di uno stato rigorosamente egualitario, e dall’altro la difesa di regimi conservatori e passatisti, il principale obiettivo della democrazia, oggi, può essere soltanto quello di funzionare. Dentro, con le oscillazioni che ci sono sempre state, ci potrà essere più o meno egualitarismo, più o meno conservazione di privilegi e antichi pregiudizi; ma il vero progetto di chi governa non può più essere quello di una palingenesi universale o di un ritorno ad antichi regimi ormai morti e sepolti; non può che essere quello di governare il più a lungo possibile, con il consenso di chi gli ha dato fiducia, rispettando un programma che può avere risvolti anche significativi, ma non potrà mai essere di cambiamento radicale. Non ci sono contraddizioni economiche e  sociali di tale portata da giustificare governi rivoluzionari. In nessun senso.
E allora? Obama ha varato riforme “di sinistra”, senza produrre rivolte, ma sarebbe difficile attribuirgli un grande progetto sociale; la Merkel governa con l’appoggio di tre quarti del Parlamento e sembra orientarsi soprattutto a seconda delle sensibilità del suo elettorato; in Inghilterra si sono alternati, negli ultimi decenni, governi conservatori e laburisti con programmi molto simili e senza clamorose lacerazioni. E’ grave? E’ la fine della democrazia? O non è piuttosto che comincia a funzionare - in questi paesi da tempo, e ora anche in Italia - un riavvicinamento di “valori e interessi”, appunto, per cui uno schieramento non è più sempre in lotta con l’altra metà del paese, e non vediamo più le opposizioni come un nemico da sconfiggere, ma solo come un avversario, con cui si può persino concorrere alle decisioni più significative? E se è così, perché meravigliarsi se i votanti sono pochi: mica si chiede di scegliere tra libertà e schiavitù. Si vota per un po’ più di diritti civili, o un po’ più di conservatorismo religioso, per un po’ più di autonomia energetica o per un po’ più di rispetto per l’ambiente. Per avere un governo decente, che non anteponga interessi privati a quelli della collettività. Ma non ci sono grandi rivoluzioni, all’orizzonte. Ed ecco perché non è drammatico, se tanti cittadini non votano. Specie considerando la qualità della classe dirigente.
Certo, in Italia, la strada per diventare un paese civile è lunga. Bisognerà che prima o poi qualcuno metta in votazione una legge sul conflitto di interessi, che si sani la vergogna della mancanza di tutele per le coppie di fatto, che si garantisca decentemente il diritto al lavoro, che si conceda in tempi ragionevoli la cittadinanza agli immigrati. E soprattutto che si investa sulla crescita culturale della nazione. Perché qui, a mio avviso, è il nodo, e qui si gioca davvero la tenuta della democrazia. Mi conforta in proposito Maurizio Ferrera, sul Corriere del 5/10/2015, che condivide la diagnosi di una democrazia (anzi, di una socialdemocrazia) in crisi, con pochi progetti. Ma aggiunge che, per rilanciare la crescita e l’occupazione, “senza mettere in discussione né la logica di mercato né gli equilibri di bilancio”, la leva del cambiamento sono “le politiche sociali e l’istruzione”.

In passato riforme importanti come quella del divorzio, dell’aborto, della riforma sanitaria, del diritto di famiglia sono state votate da parlamenti in maggioranza conservatori. Succedeva perché il paese era maturo per avere leggi moderne, e infatti ne ha respinto l’abolizione chiesta con referendum popolari. Se il paese non cresce culturalmente, è difficile che chieda alla sua classe dirigente, indipendentemente dal suo colore, cambiamenti significativi. Se non cresce la consapevolezza collettiva, però, non è solo colpa di chi ci governa. E’ colpa dei media, della scuola, della famiglia. Cioè di ciascuno di noi. Troppo comodo dare la colpa a chi ha il potere: lo abbiamo scelto, lo sosteniamo e lo sopportiamo noi. A me sembra che sia la coscienza di ognuno, non le tecniche  parlamentari, non le ideologie epocali, non i sogni utopistici, a mettere all’ordine del giorno i progetti necessari per modernizzare davvero il paese; e garantire la tenuta della democrazia.