domenica 31 luglio 2016

          MARKARIS: GUARDARE ALLA GRECIA PER CAPIRE L’ITALIA

La caratteristica più originale dell’attempato commissario ateniese Costas Xarìtos, il protagonista dei romanzi di Petros Markaris, è di essere un uomo del Novecento, e di non avere né interessi né informazioni  culturali. L’unica lettura di cui si diletti è quella dei dizionari. Ne possiede alcuni e la sera, prima di dormire, si diletta ad aprirne uno e a leggere la definizione di una parola che non conosce. Da queste letture il commissario a volte trae ispirazione per cogliere l’elemento che gli permette di risolvere un caso. Ricordo un romanzo in cui Xarìtos si imbatte nel termine “ossimoro”, ne studia il significato, e improvvisamente capisce che, nell’indagine che sta compiendo, c’è la compresenza  contraddittoria di alcuni elementi, un ossimoro appunto, che però spiega tutto.
    In L’assassinio di un immortale, raccolta di racconti pubblicata dalla Nave di Teseo, troviamo storie diverse, ambientazioni disparate, intrecci complessi, con sullo sfondo i grandi problemi dei conflitti storici tra i popoli e la terribile crisi greca. Solo due dei racconti hanno come protagonista Xarìtos, ma sono di grande efficacia. Anche perché il commissario si trova a dover indagare in mondi per lui ignoti, la società letteraria e il mondo del cinema, e Markaris si diverte a farci capire quanto possano essere grotteschi i vizi e le mediocri ambizioni di chi vive nella speranza del successo intellettuale.
In un racconto, l’assassino se la prende con  i candidati all’Accademia greca, gli immortali, e Xarìtos si trova di fronte a un cadavere a lui sconosciuto. Il suo assistente gli dice trattarsi di un famoso scrittore e lui chiede come l’ha scoperto: “Su Wikipedia”, risponde arguto il giovane. “Se gli chiedo informazioni su cosa sia Wikipedia rischio di giocarmi tutta la mia autorevolezza”, dice tra sé Xarìtos.
Le vittime, come i sospettati dei delitti, sono scrittori affermati ma, scavando nelle loro vite, la polizia trova solo presunzione e arroganza, e dietro un’apparente bonomia, gelosie e violenti risentimenti. Delizioso il ritratto del romanziere pieno di sé, che scrive a penna nei caffè, dove ha un tavolo riservato e i camerieri lo conoscono e sanno i suoi gusti; esilarante l’autore che gira con un cappellaccio in casa, e disprezza tutti i colleghi; un cammeo quello dell’editrice, che definisce i candidati all’Accademia degni di Harmony. Qui Xarìtos finalmente è a suo agio, perché sua moglie gli Harmony li divora, e si sente preparato.
Non va molto meglio nel mondo del cinema, perché anche qui i protagonisti si credono dei padreterni, ma il mercato greco è modesto e tutto si risolve in produzioni sostenute dallo stato, che poco incassano al botteghino. Ma  quando un regista ha il sostegno del Centro cinematografico greco, tratta i collaboratori come servitori, spadroneggia e non accetta suggerimenti da nessuno. Che qualcuno finisca per ammazzarlo a colpi di travertino non stupisce nessuno.
C’è, in questi racconti di Markaris, l’ironia di chi gli intellettuali li conosce bene. Sa quanto possano gonfiarsi di autostima e chiudersi in se stessi, e non abbiano il senso dei limiti del proprio valore. Il confronto con il semplice e intuitivo commissario è amaro e induce a poco entusiasmanti paragoni con il nostro paese.
La propensione dell’intellighentsia a organizzarsi in circoli che hanno la funzione di promuovere solo chi ne fa parte, escludendo dalle preziose collaborazioni – al cinema, alle riviste,  ai mezzi di comunicazione - chi non è funzionale alla conventicola, è una delle caratteristiche più deprimenti del mondo della cultura italiana. Pochi gli scambi tra autori, difficile che ci sia rispetto e interesse per il lavoro e le idee di chi non fa parte del “giro” giusto. Raro che si dimostri interesse per autori emergenti. E, ancora, divaricaz[UW1] ione per i legami con le forze politiche, i gruppi editoriali, le alleanze che determinano la distribuzione dei premi più prestigiosi e persino le diverse provenienze regionali.
Markaris si limita a descrivere una società culturale molto simile alla nostra: autoriferita, provinciale e senza consapevolezza né del proprio valore né dei propri compiti. Il senso ultimo di quel disegno è che chi ha il privilegio di avere un ruolo tra chi può trasmettere idee, narrazioni, fascinazioni letterarie e  visuali, semplicemente non ha il senso ultimo di quello che è il lavoro più interessante che un uomo possa compiere.
Non è un caso che uno dei protagonisti di Markaris concluda: “Chi, in questo paese, prova ad avere successo senza raccomandazioni e maneggi è un potenziale assassino”. Un po’ esagerato, per l’Italia; ma lo schema è  quello. Pure, sarebbe bello se gli intellettuali fossero meno individualisti e avessero interesse per il mondo che li circonda. Ma forse è difficile porre rimedio.

                                                          Da "L'Immaginazione", settembre 2016




                                             Tra tecno entusiasti e tardoumanisti

Ma cos’è la disintermediazione? “L’eliminazione di intermediari dalla catena distributiva di beni o servizi”, recita il dizionario. Dunque un fenomeno di eliminazione di passaggi intermedi tra chi produce e chi consuma. Il fatto che oggi si usi spesso il termine a proposito dei nuovi media, però, non ha a che fare solo con merci, musica, video e giochi, ma anche con informazioni, idee e giudizi. Con la conoscenza, il sapere, in parole povere. E che, con l’uso del web, si possa comprare proficuamente tutto senza mediatori è vero; ma se parliamo di conoscenza? Della disintermediazione negli scambi culturali si discute e si sa poco; ed è quindi particolarmente prezioso l’ultimo libro di Giorgio Zanchini, Leggere, cosa e come, sottotitolo: Il giornalismo e l’informazione culturale nell’era della rete, Donzelli editore, che a questo problema è dedicato.
Anticipiamo che, dopo una accurata descrizione, ricchissima di dati, di come avvengono oggi gli scambi culturali, Zanchini conclude che non abbiamo né il tempo né la preparazione per leggere tutto quanto la rete ci propone, e che quindi di mediazione c’è ancora bisogno. E che “i nostri saperi sono troppo incerti per affrontare da soli (…) l’oceano di impulsi, informazioni, opinioni che la rete ci squaderna davanti”. Aggiunge però che i meccanismi stessi della rete hanno messo in discussione i mediatori tradizionali: giornalisti, intellettuali, critici. E che nuove forme di intermediazione si sovrappongono a quelle tradizionali, per le quali gli onnivori, i consumatori indefessi del web, hanno sospetto se non vero e proprio rifiuto. La crisi di credibilità dei mediatori culturali tradizionali è certo in parte giustificata. La società letteraria che domina i supplementi culturali della carta stampata è un mondo spesso elitario, autoriferito, viziato da condizionamenti interni, che parla a una platea ristretta. In rete, invece, proliferano blog di critica letteraria, di gruppi di lettura, di giudizi spontanei. Quello che una volta passava attraverso il passaparola verbale oggi passa attraverso i luoghi deputati in rete, i “media partecipativi”. E questo ha anche ridotto il principio di autorità, rivoluzionato i criteri del giudizio, erodendo la separazione tra alto e basso, cancellando i confini tra impegno ed evasione.
Chi sono, dunque, i nuovi mediatori? Il pubblico,la collettività, i consumatori, dirà chi è convinto delle caratteristiche di indiscussa democraticità della rete. Sono Google, Amazon, Facebook e Microsoft, ma soprattutto il mercato, dirà invece chi, come Asor Rosa, è convinto che questo sia il tramonto della modernità. E il rifiuto della mediazione produrrà una cultura più libera e più diffusa, una nuova intelligenza collettiva, o favorirà la nascita di una generazione di semianalfabeti, sempre connessi ma titolari di un sapere sconnesso, che non sanno leggere un libro ma, poiché passano ore davanti ai dispositivi elettronici, sono convinti di essere bene informati sul mondo in cui vivono?
Cinquantadue anni fa Umberto Eco, affrontando il dibattito aperto dallo sviluppo della cultura di massa, ha coniato la definizione di apocalittici e integrati per identificare chi di quella rivoluzione era un sostenitore acritico e chi la riteneva un fattore di drammatico declino. E sosteneva che solo chi studia con serietà i fenomeni  della comunicazione può descriverne la qualità, perché ogni novità comporta cambiamenti, anche negativi, ma non può essere né rifiutata né arrestata. Zanchini riparametra a oggi quella divisione e parla di “tecnoentusiasti” e “tardoumanisti”, due categorie altrettanto estremizzanti e poco utili a definire il cambiamento in atto, che finiscono per accentuare la separazione storica tra consumatori e professionisti della cultura.
Sarebbe bello e auspicabile che quei due mondi si integrassero, ma la sensazione è che, invece, si guardino “con sospetto, contrapposta altezzosità o disinteresse”.
Innegabile, in definitiva, che la rete sia anche uno spazio di riappropriazione dei contenuti da parte dei fruitori, un’occasione per recuperare autonomia di giudizio e capacità di analisi. Ma vero anche che bisogna essere in grado di verificare le fonti, distinguere le semplici opinioni dalle analisi ragionate. E che, se i lettori oggi non sono più soltanto passivi, la conoscenza, la competenza, lo studio, la passione di chi sui testi ha lavorato non per questo sono diventati inutili, né la funzione critica può essere considerata soltanto l’elitaria pretesa di imporre un sapere oligarchico. “Il mediatore resta a mio avviso una figura decisiva per un’appropriazione controllata delle forme culturali altrui”, conclude Zanchini, ricordando che “C’è un briciolo di umiltà nell’affidarsi ai mediatori”. E, aggiungo io, un briciolo di arroganza nel rifiutarli in blocco.




giovedì 23 giugno 2016

INDAGARE E' CONOSCERE

C’è chi insiste a dire che in Italia si scrivono troppi gialli, che non rappresentano la realtà italiana, che non sono veri romanzi, che la letteratura è tutt’altra cosa. Mi chiedo: ma dove vive, cosa legge, questo cenacolo di uomini eletti, che ama solo la letteratura alta e colta. E, soprattutto, dove la trovano, la letteratura alta e colta? Certo non tra i romanzi “duri”, tutti citazioni erudite, autoanalisi, flusso di coscienza, realistica rappresentazione dei popoli dell’abisso e del deteriorarsi delle classi dirigenti. Lì, a mio avviso, da molti anni a questa parte, si trovano solo sterili esercizi di autofiction, descrizioni di descrizioni. Né alte né colte.
Se è vero, poi, che in vetta alle classifiche troviamo spesso dei noir, dei gialloni muniti di robusta trama sanguinolenta e di un congruo numero di cadaveri, ma scritti in modo sciatto, con la scrittura compiaciuta e quegli artifici linguistici che sono i tipici prodotti delle scuole di scrittura creativa, è bene ricordare che c’è anche altro, e di meglio. Libri che magari non arrivano in vetta alle classifiche; se i critici leggessero, invece di guardare le classifiche, se ne accorgerebbero.
Un giallo di raffinata scrittura, che racconta con efficacia una vicenda anni Cinquanta, ambientata in Liguria, è I garbati maneggi delle signorine Devoto. Ovvero, un intrigo a Sestri Ponente, di Renzo Bistolfi, pubblicato da Tea. Non solo i personaggi, ma la lingua, i dettagli, l’ambientazione sociale, sono una perfetta fotografia di quel tempo. Tre sorelle, zitelle, una cieca, figlie di una famiglia borghese decaduta, vivono una vita di decorosi risparmi nella casa di famiglia, a Sestri. Ma qualcuno cerca di cacciare loro e i tradizionali abitanti della piccola comunità di palazzine e villini della periferia bene. Ci sono amministratori ambigui e spregiudicati, giovanotti che esibiscono il primo benessere del dopoguerra, fanciulle che cascano nella trappola delle apparenze, e soprattutto una vecchietta che rischia, oltre che il suo benessere, addirittura la pelle. Le signorine Devoto, indagano e arrivano a una conclusione imprevista e clamorosa. La trama è tesa e piena di sorprese, la costruzione un meccanismo perfetto; ma è il clima, i profumi di vecchi merletti e di brodini di magro, le conversazioni in parrocchia e i tè con amiche e conoscenti che costituiscono il nerbo del racconto. Difficile essere più acuti nel cogliere il delinearsi di un ceto affamato e moralmente disinvolto che vuole la sua parte del benessere che cresce nel paese, agli albori del boom economico, e la occhiuta e rigorosa vigilanza delle terribili vecchiette, tanto piene di tradizione, superstizioni e pregiudizi, quanto capaci di cogliere i segni del degrado incipiente.   
Non troppo dissimile, per l’ambientazione provinciale e per la capacità dell’autore di descrivere un clima e un ceto abitualmente invisibile, è La copia infedele, di Stefano Trinchero, 66thAnd2ND. Qui l’ambientazione è contemporanea, il luogo è Torino, ma originale è chi indaga: Riberto, un giornalista sportivo, specializzato nel seguire la terza squadra di calcio torinese (dopo Juve e Toro, non può che essere una formazione molto marginale). Un cronista un po’ indisciplinato, piuttosto alcolico, capace di aggressività, molto autonomo nella sue scelte professionali e sempre in attrito con il direttore.
Il caso da cui parte la vicenda è un incidente automobilistico, in seguito al quale un calciatore rimane in coma. Riberto è costretto a indagare. Non è il suo mestiere, ma l’uomo è cocciuto, e inizia a seguire un pista che risulta esatta  e pericolosa. Mentre alcuni balordi tentano di farlo fuori, la trama ci porta nelle zone oscure dei periti e dei liquidatori delle assicurazioni. Non anticipo altro. Quel che conta però è la scrittura, pulita e ricca di dettagli; il disegno dei personaggi, uno più curioso dell’altro, un piccolo universo di sfigati, di impiegati infedeli e di funzionari bigotti e testardi. E lo sfondo di una Torino che non è più né la capitale sabauda né la città-Fiat, ma una metropoli postmoderna, senza personalità, piena di piccoli trafficanti che si arrangiano al margine della legge (e oltre), di artisti falliti, di paesaggi urbani devastati e sconsolanti. Forse qualcosa che avrebbe potuto far intravvedere gli ultimi risultai elettorali. Perfetta, infine, la descrizione della vita di redazione di un giornale. Terribile, come oggi accade.

C’è, in questi due libri, come in tanti altri usciti negli ultimi anni, una vivacità letteraria, uno sguardo analitico, una visione critica del presente che i più raffinati intellettuali che descrivono senza  ironia il proprio mediocre e limitato mondo non riescono nemmeno a sfiorare. Lì, secondo me, nell’indagine, nel peregrinare dei detective più o meno improvvisati, c’è lo sguardo più lucido sulla contemporaneità che abbiamo avuto in questi anni.

                                                   Da'"l'Immaginazione", Maggio-giugno 2016 

venerdì 8 aprile 2016

DONCHISCIOTTISMO E DINTORNI

Sono rari i personaggi letterari diventati emblematici, proverbiali; in sintesi,degli eroi eponimi, il cui nome rappresenta un modo di essere, una caratteristica psicologica, un archetipo umano. Lo sono Ulisse, come Madame Bovary o Oblomov: personaggi nominando i quali ci riferiamo inequivocabilmente a un paradigma originale. Diciamo odissea per parlare di qualunque sperdimento, bovarismo per ogni aspirazione velleitaria, oblomovismo per l’accidia e la pigrizia più perniciosa. E’ certamente un eroe eponimo anche Don Chisciotte, e non è un caso se ancora oggi, a quattro secoli dalla morte di Cervantes, parlare di “donchisciottismo”, di “battaglie contro i mulini a vento” comunica immediatamente, a tutti, un significante univoco, ampio e profondo.
Eppure Don Chisciotte non è solo un folle, impegnato in uno sventato tentativo di rinnovare le gesta dei cavalieri erranti, e quindi destinato a sicuro fallimento. Certo, la sostanza del romanzo è spesso pesantemente ironica, il “cavaliere dalla triste figura” le prende da tutti, si umilia davanti a personaggi squallidi, è oggetto di scherzi e beffe atroci. Come può succedere, però, probabilmente il personaggio ha finito per andare oltre gli stessi obiettivi dell’autore e Don Chisciotte, nato come macchietta sprovveduta e ridicola, finisce per essere un personaggio drammatico, e per agire in uno schema di conflitti e di contraddizioni che vanno molto al di là della superficie comica che era forse il limite che Cervantes si era posto.
Accade innanzitutto per la dinamica che si crea tra il cavaliere e l’improbabile scudiero: Chisciotte e Sancio sono eredi e progenitori delle coppie oppositive, dei “doppi” che popolano la letteratura. Da Don Giovanni e Leporello fino ad Agilulfo e Gurdulù, la dialettica servo/padrone ha prodotto una sorta di cartina di tornasole per i personaggi letterari nei confronti della realtà. Tanto sono assurdi e romanzeschi i padroni, tanto sono coi piedi per terra i servitori. Tanto sono utopistici e idealistici i valori dei ceti superiori, tanto riportano alla dura realtà quotidiana le materialistiche sensibilità degli scudieri. Insieme, costituiscono gli elementi inscindibili della sostanza dell’uomo. Ed è quello che tratteggiano anche  Chisciotte e Sancio.
Ma accade anche nella rappresentazione dell’eclisse di un ceto: l’aristocrazia, alla fine del Siglo de oro, è in crisi, non ha più né il ruolo né l’autorevolezza avuta fino allora. Le spade e le lance non possono nulla all’apparire della polvere da sparo; l’eroismo cavalleresco si cancella, nel fumo e nel frastuono delle battaglie combattute a colpi di cannone. E la fuga nella lettura dei romanzi cavallereschi di Chisciotte è il sintomo di questo declino. Come lo sono i paesaggi sociali nei quali il viaggio picaresco dei due antieroi si compie. Nelle sue avventure, Chisciotte si confronta con osti, galeotti, contadini, porcare, prostitute, pastori e barbieri. Tutta un’umanità brulicante, che il sognatore Chisciotte scambia per la proiezione di un mondo nobiliare in via di estinzione; mentre sopravviene un ceto popolare, duro e cinico, spesso violento, che prende a calci l’emblema del conflitto di classe: il perdigiorno Chisciotte, smarrito nella difesa di un ruolo obsoleto.
In questa prospettiva tragicomica, Chisciotte finisce per esser, molto modernamente, alienato: non solo per la fuga dalla realtà, ma anche perché sente il vuoto che ha intorno, soffre la mancanza di senso, si confronta con il nulla che rimane, una volta smarrito il proprio ruolo.

Ecco, l’emblema del combattente contro i mulini a vento che è arrivato fino a noi non è solo quello della macchietta che affronta sfide insensate, che non può comunque vincere. E’ anche quello dell’uomo solo, insoddisfatto, di fronte all’enigma della vita, che deve inventare ideali utopistici per sostituire il nulla che sente dentro, una volta persi i punti di riferimenti della tradizione e del passato.   

                                                                                                da "IL LIBRAIO", aprile 2016

martedì 1 marzo 2016

ABBIAMO SOGNATO CHE ERANO FINITE LE GUERRE
E CI SIAMO RISVEGLIATI CON I CONFLITTI ASIMMETRICI

“Il sistema internazionale sta entrando in una condizione di anarchia che non può promettere niente di buono”. Questa l’osservazione che Luigi Bonanate pone a provvisoria conclusione del suo ultimo saggio, Anarchia o democrazia, Carocci editore. Non è difficile seguire il ragionamento di Bonanate: per secoli si è ritenuto che solo all’interno degli stati si potesse evitare la risoluzione violenta dei conflitti, mentre tra gli stati regnava un’anarchia internazionale, che non poteva non suscitare guerre. Nell’89 il crollo del regime sovietico ha dimostrato che si possono produrre clamorosi mutamenti politici anche senza guerre, e questo ha cambiato il paradigma interpretativo dei rapporti tra gli stati. Ma quella mutazione, lungi dal produrre un nuovo ordine, ha prodotto una nuova, e incontrollata, anarchia. Le guerre non sono sparite, ma sono più subdole: spesso sono guerre civili, non vengono dichiarate, possono durare anni, a bassa densità, non si sa nemmeno se e quando finiscano, sono asimmetriche, vedono in conflitto non più gli stati tra loro ma schieramenti internazionali contro nazionalismi esasperati e fondamentalismi religiosi, o almeno contro la volontà di potere e di controllo del territorio che nascondono.
Bonanate ci conduce nell’analisi dell’origine dei conflitti, ed è convincente quando afferma che la bellicosità degli stati è inversamente proporzionale alla loro democraticità. Quando si chiede perché gli USA abbiano condotto guerre insensate e dannose, come quelle in Afghanistan e in Irak, risponde che non basta tenere libere elezioni per avere una democrazia sostanziale, che evidentemente è la democrazia degli USA che ha avuto un periodo di declino, e non il pacifismo democratico. E che la manipolazione dell’opinione pubblica può orientare fortemente in senso bellicista una nazione.
Le conclusioni non sono confortanti. Anche se una ragione per non disperare, dice Bonanate, c’è: è la democratizzazione dei rapporti tra gli stati, che è l’unica strada che può garantire la pace.
Completata la ricognizione scientifica, e quella di Bonanate è impeccabile, credo si debba riflettere su quello che ci riguarda direttamente. Che dobbiamo fare, noi? La persistenza dei conflitti, una volta archiviata la guerra fredda, è  alla base delle nostre insicurezze, del risveglio dei nazionalismi e anche di alcuni rilevanti problemi economici. La drammatica situazione del Medio Oriente è certo in parte dovuta agli errori degli USA e dell’Occidente tutto, ma anche e forse soprattutto alla lotta per il potere in atto tra fazioni e nazioni islamiche. La maggior parte delle vittime sono civili arabi, e l’esodo della popolazione, che si riversa negli stati europei, è un dramma che noi non siamo preparati ad assorbire, ma rappresenta soprattutto un germe di violenza e di instabilità internazionale che può durare decenni, se non di più. Nel Nordafrica le primavere arabe, se si eccettua il caso della Tunisia, si sono dissolte in una guerra civile diffusa o nel rafforzamento di assolutismi e dittature militari. E i conflitti all’interno degli ex stati satelliti dell’URSS, infine, sono lontani dall’essersi risolti.
Per chi ha sognato che la morte delle ideologie e la fine del confronto tra i due blocchi avrebbe aperto un periodo di pace e di benessere, non è un bel risveglio. Credo che anche gli americani si siano convinti ormai che esportare la democrazia formale con le armi non sia una soluzione, specie in paesi che hanno ancora un forte ancoramento a ideologie teocratiche, e che vedono i processi  democratici come una negazione dell’intangibilità delle leggi divine. Bombardare assassini e tagliagole può essere un tentativo di aiutare le fazioni meno violente; ma non è detto, e non ci procura simpatie.
Qualcosa, però, qui e ora, a me pare si possa e si debba dire. A me pare che la difesa a oltranza dei confini nasconda una strisciante tendenza a riaffermare la purezza delle etnie nazionali. Che i muri servano solo a difendere i privilegi del benessere raggiunto per paura di doverlo condividere con rifugiati che non hanno nulla da perdere. E che, mentre la crisi demografica dei paesi occidentali mette a rischio le nostre economie, sbagli chi soffia sulle braci della paura del diverso e del razzismo sotterraneo che riprende vigore.

Non possiamo imporre ad altri la nostra cultura, ma almeno non dovremmo rinunciare alle conquiste morali e culturali che hanno caratterizzato gli ultimi settant’anni di vita dell’Europa. Quella che possiamo opporre, alla preoccupante anarchia di cui parla Bonanate, è una battaglia politica e culturale. Non vorrei che domani, come possiamo fare noi oggi pensando alla miopia della generazione che ha dato credito e consenso al fascismo, fossimo accusati dai nostri nipoti di essere stati ciechi di fronte al rischio di collasso della democrazia europea che avevamo sotto gli occhi. 

                                                                                                          Da "L'Immaginazione", marzo 2016

lunedì 29 febbraio 2016

SE I CRITICI NON LEGGONO

Ma li leggono, i libri, i critici? Alle volte si ha la sensazione che ne parlino solo per sentito dire. Un caso recente me lo fa sospettare. L’anno scorso è stato pubblicato, prima negli USA e poi anche da noi, da Feltrinelli, un romanzo giovanile di Harper Lee, Va’, metti una sentinella. Un sequel del Buio oltre la siepe, che ha gli stessi personaggi e la stessa ambientazione, pur essendo stato scritto prima. L’anziana scrittrice era ricoverata in una casa di cura, dopo un ictus, e la stampa aveva avanzato l’ipotesi che la pubblicazione fosse avvenuta a sua insaputa, o che l’autorizzazione le fosse stata estorta da parenti interessati. Vero che il libro non era mai stato pubblicato prima; e vero che si tratta di un’opera diversa dal celebratissimo Buio. Ma quel che aveva suscitato scalpore (e fatto pensare che la Lee avesse buoni motivi per tenere il libro nel cassetto) era che nel sequel Atticus, l’indomito avvocato, difensore dei neri del Buio, ora anziano ed artritico, risultava – a detta dei critici americani – un odioso razzista. Anche la critica italiana si era prontamente schierata su questa linea, e  il nuovo libro era stato rapidamente archiviato come un errore di gioventù che sarebbe stato meglio lasciare nel dimenticatoio.
Ora, qualche giorno fa Harper Lee è morta, e i coccodrilli si sono concentrati sul presunto scandalo del nuovo libro, e su quanto questo fosse distante dal nobile ed edificante Buio, ancora oggi diffusissimo e letto nelle scuole americane come opera esemplare, per il modo in cui aveva parlato dei pregiudizi del Sud statunitense e delle battaglie contro il razzismo e a favore dei diritti degli afroamericani.
Andrebbe tutto bene se non fosse che, a mio parere, non solo Va’, metti una sentinella è un ottimo libro, scritto con la stessa freschezza del Buio, ma addirittura più interessante, più complesso e letterariamente più significativo; e dire che Atticus vi figuri come un odioso razzista è esagerato, per non dire del tutto inesatto. Naturalmente può darsi che io mi sbagli, ma almeno una cosa va detta: tutti i critici che ne hanno parlato, negli ampi necrologi che hanno pubblicato, sembrano aver parlato di un altro libro; o, com’è probabile, si sono limitati a prendere per buone le critiche uscite, al momento della pubblicazione, negli USA. E il libro o non l’hanno letto, o l’hanno solo sfogliato.
In Va’…, infatti, Harper Lee racconta la vita di Maycomb, la stessa cittadina dell’Alabama in cui è ambientato il Buio, con gli occhi di una Scout (la protagonista di tutti e due i libri) cresciuta, che frequenta l’università a New York. Tornata a casa per le vacanze si accorge per la prima volta che suo padre, e gli altri personaggi della piccola comunità che per lei erano dei combattenti senza macchia, e che aveva idealizzati, sono in realtà costretti a tollerare, se non a condividere l’arretratezza dei concittadini. L’idea che debbano accettare piccoli compromessi e fingere di non scandalizzarsi per i pregiudizi diffusi, perché la vita di una comunità non accetterebbe conflitti così drammatici da mettere in discussione la convivenza civile, la mette in crisi. Aveva immaginato che per un ideale si dovessero combattere battaglie senza quartiere, e invece scopre che, per cercare di incrinare il razzismo dei concittadini, anche il nobile Atticus deve entrare in contatto con loro, e cercare di lavorare dentro la comunità per cambiarne, nel tempo, la mentalità arretrata.  
Il libro è bello e complesso proprio perché mostra come il massimalismo un po’ infantile di Scout si scontri con il moderatismo dell’anziano padre; e come dopo l’intemperanza iniziale, e un violento scontro, anche Scout non possa non capire che le posizioni intransigenti sono legate a una visione immatura della politica e dei rapporti umani, e che anche le lotte più giuste non possono eliminare le ingiustizie con imposizioni improvvise, ma solo con il lento convincimento che porta alla maturazione collettiva.

Nel Buio si respira un clima idilliaco, i bambini capiscono che un vicino è diverso ma è buono, i cattivi si ammorbidiscono di fronte alle disarmante ingenuità di Scout,  e anche se la battaglia di Atticus per difendere un nero ingiustamente accusato di violenza non viene capita dalla maggioranza degli abitanti della cittadina di Maycomb, il suo ruolo lo rende un eroe agli occhi dei figli. Qui, invece, le contraddizioni inevitabili in ogni famiglia, e in ogni comunità, vengono descritte con realismo, le cose non sono dipinte a tinte forti, non tutto è bene o male, ma ci sono i contrasti, le sfumature, i conflitti intrinseci alle cose umane. Il Buio, in questo è sì un romanzo edificante, ma anche semplificante. Va’, metti una sentinella, è stato scritto prima, ma è un romanzo più maturo, più difficile, e forse per questo meno capito e meno letto. Non sarebbe un problema: accade che bei libri, ancorché letti con attenzione, non vengano capiti. Ma se non vengono nemmeno letti, certo, è difficile che comunichino, anche ai critici più illuminati, la complessa realtà di un’esperienza profonda delle contraddizioni della vita.
SI FA PRESTO A DIRE PRIVATIZZAZIONE

Si discute di Rai: bene. Qualche giorno fa Urbano Cairo, il proprietario de “la 7”, la rete tv, ha lanciato una dura accusa contro la Rai, che avrebbe il torto di fare concorrenza sleale alle tv private perché finanziata, insieme, dal canone e dalla pubblicità. A ruota Pigi Battista, sul Corriere, ha scritto un articolo dicendo che il servizio pubblico televisivo è colpevole di non fare il suo mestiere, di trasmettere programmi  scadenti, di avere troppi dipendenti e quindi di intascare i soldi del canone senza dare in cambio il servizio richiesto. Qualche protesta (timida, in vero) hanno prodotto le più recenti nomine alle direzioni di rete. Ultima arriva la lettera dei 100autori al Direttore Generale (Repubblica, 28/2), che denunciano una stasi produttiva e affermano che “i contenuti Rai hanno perso in larga parte qualunque rilevanza”. Interventi che fanno riflettere. Vediamo.
Due sono i ragionamenti che, a mio avviso, vanno approfonditi, per non lasciare spazio a un’informazione imprecisa. Il primo riguarda l’idea che la Rai lucri sulla pubblicità, oltre che sul canone, e che questo danneggi le emittenti private. Se da un lato è vero che la Rai non potrebbe vivere di solo canone, è vero anche che la legge le impedisce di farcire di pubblicità i suoi programmi, come fanno le reti commerciali. Ecco perché, malgrado abbia un’audience pari a circa un terzo del pubblico nazionale, avendo un limite di affollamento pubblicitario molto più basso di quello delle reti commerciali, raccoglie solo circa un quinto della pubblicità televisiva. Significa che, se fosse una rete commerciale, potrebbe raccogliere molta più pubblicità di quella che raccoglie oggi e che quindi la pubblicità che la legge le impedisce di trasmettere viene raccolta dalle tv commerciali. E’ dunque vero il contrario di quanto dice Cairo: la modesta raccolta pubblicitaria della Rai permette alle tv commerciali di vivere meglio.
Ma è anche vero che la Rai, con le sue risorse, produce altrettanto se non di più di quanto non produce Mediaset, e quindi dà lavoro non solo ai suoi dipendenti, ma anche a un largo indotto, impegnato nella produzione dei prodotti audiovisivi che la Rai trasmette: una ricchezza, per la collettività. E si capisce l’allarme dei 100autori. Se poi si vuol sostenere – a pieno diritto, naturalmente – che i programmi della Rai non sono all’altezza del concetto stesso di servizio pubblico, bisogna anche ricordare che, negli ultimi vent’anni, la dirigenza della tv pubblica è stata nominata da governi alla cui guida c’era il proprietario del maggior gruppo televisivo commerciale in Italia, e che spesso i dirigenti sono venuti direttamente dall’azienda concorrente. Perché stupirsi se c’è stata poca concorrenza? L’allarme era giustificato vent’anni fa, mentre ora vediamo il risultato di una lunga occupazione del servizio pubblico da parte di personaggi che avevano solo interessi privati.
Il secondo ragionamento riguarda il fatto che la Rai fornisca o meno un servizio. Sembra che non vi sia una conoscenza diffusa né delle leggi (la cosiddetta Mammì prima e la cosiddetta Gasparri poi) che regolano l’attività dell’emittente pubblica, né dell’esistenza di un contratto di servizio tra la Rai e il Ministero, che contiene gli obblighi cui la Rai deve adempiere per avere diritto a riscuotere il canone. Sono obblighi molto pesanti, che nessuna rete privata si sognerebbe di affrontare, e che il canone da solo non potrebbe mai finanziare. Cito a memoria. Innanzitutto i canali radiofonici, alcuni dei quali senza pubblicità, e Rai Parlamento, rete che difficilmente potrà mai esser sul mercato. Poi le ventun sedi regionali, che trasmettono radio e telegiornali – senza raccogliere pubblicità locale - anche per platee molto ridotte, come ad esempio il Molise o la Basilicata. Non si deve dimenticare il servizio per le minoranze, per le quali la Rai trasmette nelle lingue delle regioni di confine. Le trasmissioni di Rai International; i canali educativi e per ragazzi. E, ancora, l’attività dell’orchestra sinfonica nazionale, col suo auditorium, a Torino, che è una istituzione fondamentale. E dimentico sicuramente qualcosa.
Il nodo, qui, è legato all’ipotesi di privatizzazione della Rai che pure un referendum, molti anni fa, aveva promosso, e che viene periodicamente ricordata. C’è però un problema: per privatizzare la Rai o bisognerebbe trovare il privato che si faccia  carico di tute queste incombenze senza il contributo del canone, o dell’emittente pubblica si dovrebbe fare uno spezzatino, rinunciare a orchestra, sedi e trasmissioni regionali, Rai parlamento e via dicendo. Ma anche questo produrrebbe dei problemi: se la nuova Rai, privatizzata, raccogliesse tutta la pubblicità che una rete commerciale potrebbe raccogliere con gli ascolti che ha oggi, quanto si lamenterebbero le emittenti commerciali, che oggi lucrano sui mancati introiti della Rai che la legge impone? E ancora: il licenziamento di qualche migliaio di addetti (tecnici, impiegati, dirigenti, giornalisti) impegnati nelle attività di servizio, non sarebbe certo ininfluente sull’economia nazionale. Se è difficile rilanciare i consumi oggi, figuriamoci con migliaia di disoccupati in più. Ma stiamo babbiando, per dirla in camillerese.

Resta il problema della qualità dei programmi. Non entro nel merito, ma certo si può sempre fare meglio, e uno sforzo non guasterebbe. Su questo vedremo alla prova la nuova dirigenza, e forse fanno bene i 100autori a lanciare l’allarme. Ma certo non è il caso di far finta che non ci siano delle regole da rispettare: chi lo dimentica fa della cattiva informazione, gioca sulla sfiducia diffusa nelle istituzioni, stimola soltanto una protesta emotiva e generica. Non parlo di gufi, parlo di chi non informa correttamente e così facendo tradisce, lui sì, il ruolo di servizio che la libera stampa dovrebbe svolgere. La Rai non ne ha bisogno. Ha bisogno di un pubblico attento, di una stampa capace di fare le pulci agli organigrammi, a eventuali dirigenti incompetenti, ai programmi e naturalmente agli sprechi, che pure possono esserci. Ma i manifesti populistici, i ritornelli dell’antipolitica di maniera e le lamentazioni di chi invoca la privatizzazione senza chiedersi cosa significherebbe non fanno bene né alla Rai, né alla qualità dei suoi programmi, né al loro pubblico, e cioè al Paese.      

sabato 27 febbraio 2016

MI SONO IMPICCATO. MI SCUSI

“Lei ce l’ha un figlio? Glielo chiedo perché le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”. Chi parla è Salvatore, ora ergastolano, già esponente della delinquenza organizzata di Catania, colpevole di una serie di delitti efferati talmente lunga che non vale nemmeno la pena elencarli. E questa sua analisi, di sociologia spicciola ma non per questo meno rigorosa, la fa al presidente del tribunale che ne sancisce la condanna al carcere con “fine pena: mai”. 
La cosa finirebbe lì se il magistrato non fosse persona sensibile, e il ragionamento dei destini incrociati del bandito e di suo figlio non gli fosse rimasto in mente come un rovello. Avendo colto un fondo di umanità nel delinquente che ha severamente giudicato gli manda, in carcere, un libro.  E’ Siddharta, e la scelta ha un suo motivo: nelle ultime pagine del libro, Herman Hesse scrive: “Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore”.
Il libro ha un suo effetto: tra il magistrato e l’ergastolano inizia una corrispondenza, rarefatta ma non per questo meno sentita e genuina, che durerà ventisei lunghi anni. E che ritroviamo, con tutti gli strumenti per capire cosa accade, nel frattempo, ai due corrispondenti, in un prezioso volume, Fine pena ora, di Elvio Fassone (il magistrato), pubblicato da Sellerio.
Non è un romanzo, ma un racconto talmente coinvolgente che, alla fine, si ha quasi la sensazione di conoscere personalmente i protagonisti. La cauta comprensione dell’uomo di legge da un lato e la vitalità, via via appannata e alla fine assai smorzata, del carcerato dall’altra. Veniamo a conoscere la carriera esemplare di Salvatore: un fratello grande, delinquente già affermato, “morto sparato”, l’idea di sostituirlo, e un’escalation: “qualche trasporto di droga (che altro vuole che facciamo, là?), qualche lavoretto (scippi), qualche lavoro più grosso (rapina), qualche regolamento di conti (ha sgarrato, ora paga)”. Un po’ come una carriera negli uffici, con le prove per passare da un inquadramento a quello superiore.
Ma Salvatore ha un’intelligenza pronta e immediata e impara, dal confronto con la liturgia giudiziaria, il valore delle istituzioni che non ha mai conosciuto. Ne nascerà l’orgoglio e la determinazione di uscire dall’ignoranza e dalla marginalità, studiando e cercando tutti i modi per affinarsi e trovare delle competenze che, in prospettiva, possano permettergli di arrivare all’agognato lavoro esterno e alla semilibertà.
Quando, dopo anni, arriva la prima giornata di permesso, il contatto con il mondo esterno è traumatico, perché il tempo del carcere è fermo, e Salvatore sembra catapultato in un futuro lontano: “Non sapevo nemmeno camminare. Fuori anche l’aria che si respira è diversa da dentro. E’ tutto nuovo per me, le macchine, la roba che c’è nei negozi, la gente com’è vestita, anche il fatto di pagare con l’euro. (…) Al supermercato c’era una confusione che mi sembrava di impazzire. Al ristorante, non sapevo più stare a tavola”.
Salvatore però è sfortunato: un po’ è lui che, forse per non passare per un “infame”, viene punito assieme ad altri compagni di detenzione, un po’ perché fa il matto quando la fidanzata, che lui sperava lo aspettasse fino a un’ipotetica conquista della libertà lo lascia, i suoi tentativi di meritare un alleggerimento della pena sono vanificati.  E allora scrive: “ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato. Mi scusi”. Ma lo hanno salvato. “Adesso ho ancora un po’ male al collo, ma è passata”. Salvatore, invece di “fine pena mai”, ha deciso che era “fine pena ora”. Una rinuncia a lottare, dopo anni di impegno, lui che non aveva nemmeno finito le elementari, per arrivare a un simulacro di redenzione.

Il tono col quale il magistrato ripercorre i ventisei anni di corrispondenza è pacato ma partecipe. Anche perché sa che Salvatore viene da un mondo che ha una sua legge, sia pure contorta, e un concetto dell’onore, anche se nato dalla violenza e dal conflitto. Ma quello che traspare dalle sue parole è una limpida aspirazione a un minimo di benessere, un po’ di serenità borghese; quello che non ha avuto e la cui assenza ha prodotto il fuorilegge che è stato. Ma il valore del libro è che dà voce a chi di solito non ne ha, ci fa entrare in un mondo che abitualmente non è in grado di esprimersi in pubblico. Con il dramma della segregazione, che è terribile, indipendentemente dalla colpa che l’ha prodotta, e le umane aspirazioni a una vita normale. Anche perché persino la prospettiva della libertà, in definitiva, non è semplice: “Forse mi mancherà questa vita, che ci ho passato più della metà degli anni che ho, ma spero di no”.      

                                                                                        Da "L'immaginazione", Febbraio 2016