mercoledì 31 gennaio 2018

ASCOLTARE E' UN MESTIERE DIFFICILE

Nel momento in cui quotidiani e televisione pagano un pesante tributo allo sviluppo della comunicazione in rete, qual è lo stato di salute della radio? Se lo chiede Giorgio Zanchini nel suo nuovo libro, La radio nella rete, Donzelli, e la risposta è: la radio se la cava meglio degli altri. Anzi: “in una rete dove gli scambi e i cosiddetti ‘prestiti mediali’ sono continui, può persino prosperare”. Questo, soprattutto perché si è adattata tanto alla tecnica che alla tempistica dei nuovi media. Invece di esserne fagocitata, li ha integrati, ne ha sfruttato le potenzialità a proprio vantaggio, e ha usato l’allargamento della platea dei prosumers, i produttori-consumatori, per essere ancora più rapida e “leggera” nel rapporto con l’attualità.
Per capire come si è verificata la sopravvivenza del più vecchio dei media senza fili, bisogna considerare più elementi. Zanchini da un lato ripercorre le osservazioni dei grandi che hanno riflettuto sulle caratteristiche del mezzo, da Arnheim a Brecht, da McLuhan a Eco, e dall’altro ricorda il modo in cui, nel tempo, la radio si è evoluta, e ne trae una serie di conclusioni semplici ma illuminanti.
Contrariamente ai mezzi “pesanti”, giornali e tv, la radio è stata la prima ad aprirsi al contributo del pubblico, anche in diretta, offrendo strumenti di condivisione – forse illusori, dice Zanchini, ma comunque coinvolgenti – che sono gli stessi dei mezzi digitali. Se la rete è essenzialmente un mezzo di comunicazione senza mediatori, però, la radio mantiene forme di intermediazione, e quindi di autorevolezza, anche se è sempre più aperta al contributo degli ascoltatori, e ha quindi un profilo più orizzontale degli altri mezzi tradizionali.
Tecnicamente, la radio è il più duttile dei media, perché può essere ascoltata con strumenti diversi e in tempi e luoghi diversi. Ogni programma può essere ascoltato in diretta, in streaming, registrato, recuperato in podcast  e selezionato senza limiti nell’offerta di un numero enorme di stazioni. “La trasmissione oltre ad avere un durante (…) ha ormai un prima e un dopo”. Insomma, per certi versi si tratta del mezzo più aperto a ogni forma di fruizione, nel tempo e nello spazio.
Se la radio ha mantenuto tanta vitalità, è perché è un mezzo di parola, perché si basa su un elemento fondamentale dei rapporti umani: la conversazione. Un elemento che richiama ideali illuministi, anche se non sempre conduttori e ascoltatori sono all’altezza della sfida di portare profondità e riflessione sui grandi temi del presente.
Il libro è ricco di informazioni sul panorama delle emittenti in Italia e all’estero, sui modelli di programmazione, di flusso o di palinsesto, sulle caratteristiche del pubblico e sui modelli di conduzione. Particolarmente interessanti alcuni “decaloghi”, da quello di Gadda a quello di Sinibaldi, e  le osservazioni sulla lingua e sulla sintassi della radio. Oltre ad essere una miniera di informazioni, però, il libro è  strumento di riflessione, non soltanto sullo specifico radiofonico ma anche, in generale,  sui processi comunicativi nell’era digitale.
Una domanda centrale è quella su che spazio resti per l’ascolto attento, “nell’era della disattenzione, della connessione perenne”. E se ci siano dei rischi, in questo processo di ibridazione che ha trasformato la radio nel più multimediale dei mezzi di comunicazione. “Ho l’impressione che possa esserci una perdita in termini di profondità e di chiarezza”, dice Zanchini; che la soglia dell’attenzione rischi di calare, che ci sia un’inevitabile perdita di concentrazione. Contro i cantori del multitasking, bisogna ammettere che “il cervello fatica a gestire in modo logico ed efficiente tutte le attività che gli chiediamo in simultanea”.  Qui il rischio maggiore: “Alcune conseguenze della rivoluzione digitale, in particolare frammentazione, disattenzione, connessione perenne, possono impoverire uno degli spazi in cui la comunità riflette assieme”. Ecco, questo mi pare il vero nodo del rapporto tra radio e rete, e forse della trasmissione di informazione e conoscenza nel tempo della rivoluzione digitale. Il continuo flusso di informazioni non è pericoloso perché contiene troppa sostanza. E’ pericoloso che noi si perda la capacità di discernere non – come vuole la moda – tra notizie vere e fake news, ma tra quello che ci serve e quello che è superfluo. In questa prospettiva, la radio non sfugge al destino di tutti i mezzi nell’entropia informativa della contemporaneità. Se non avremo gli strumenti per selezionare ed analizzare i contenuti del flusso informativo, saremo connessi, ma non saremo in grado di connettere tra loro gli elementi che servono ad avere coscienza critica del presente; avremo sempre più informazioni, ma meno conoscenze, e meno capacità di interpretare la complessa realtà che ci circonda.

Da "L'immaginazione", febbraio 2018



AVERE BRAVI MAESTRI

Si è un po’ sopita la polemica suscitata da un provvedimento che potrebbe impedire a chi ha soltanto il titolo di maturità magistrale di insegnare nelle scuole elementari. Mi par di capire che gli interventi che si sono succeduti, sulla stampa e sugli altri media, hanno visto prevalere l’opinione di chi ritiene che, per insegnare ai bambini, sia necessaria una laurea. Le motivazioni sono diverse, ma emerge soprattutto l’idea che oggi l’insegnamento sia un impegno molto più complesso del passato, che siano necessari princìpi pedagogici scientifici, che solo una preparazione universitaria può dare.
Devo dire che per certi versi sono d’accordo: più si studia, meglio è. E questo non vale soltanto per i maestri. Sono convinto che anche per chi si sente portato a mestieri che non prevedono un impegno intellettuale, un corso di studi universitario può esser utile. Maturare una cultura approfondita fa bene a tutti, e fa far meglio ogni mestiere, da quello dell’idraulico a quello dell’insegnante. La preparazione, poi, per chi deve occuparsi della formazione dei cittadini di domani, non può essere né affrettata né superficiale. E’ vero.
I dubbi, invece, mi vengono dal fatto che quelli ai quali dovrebbe essere interdetto l’accesso ai ruoli  siano maestri che già insegnano, spesso anche da molto tempo. Credo che, per l’insegnamento elementare, la pratica sia fondamentale, e una vocazione sia determinante. In mancanza dell’una e dell’altra, secondo me, un titolo universitario non basta, a fare un buon insegnante.
Ma il motivo per cui sono portato a pensare che il provvedimento sia inopportuno è che la storia ci ha insegnato che si può essere dei grandi educatori senza aver avuto titoli di studio elevati. Non penso soltanto al maestro Perboni, o alla maestrina dalla penna rossa del libro Cuore; penso ad alcuni grandi, che magari poi hanno conquistato titoli importanti, ma che dall’istituto magistrale venivano, e hanno lasciato tracce significative nelle scuole dove hanno insegnato come nella cultura nazionale e internazionale. Forse il nostro legislatore non lo sa, ma due grandi poeti come Zanzotto e Bandini venivano dell’istituto magistrale, e hanno insegnato alle elementari. E uno dei più grandi scrittori del Novecento, Leonardo Sciascia, era un maestro elementare. Chi non vorrebbe aver avuto un tale maestro, nella scuola, indipendentemente dal titolo di studio?
Sarebbe opportuno riflettere su quanto, nella formazione della scuola primaria, dipende dalla formazione avuta e quanto dalle capacità dei singoli. L’intelligenza, la sensibilità, l’intuizione necessari a lavorare con i bambini, non sono qualità equamente distribuite tra gli esser umani. C’è chi ne ha molte, chi niente. Gli studi fatti c’entrano poco. Ai bambini non bisogna insegnare materie astruse, nozioni molto complesse, tecniche raffinate. Bisogna insegnare ad apprendere e ad avere a che fare con i libri, dove c’è tutto quello che serve. Un bravo maestro è uno che sa far incontrare i bambini con la cultura. Chi, indipendentemente dagli studi fatti, non lo sa fare, un bravo maestro non lo sarà mai.