sabato 23 novembre 2019


IL GIALLO, O DELLA CENTRIFUGAZIONE DELLA REALTA'

Capita di sentir dire, periodicamente, che di gialli ce n’è troppi, che non se ne può più, che sul giallo si è detto tutto e che non c’è nulla da aggiungere. Poi, puntualmente, si scopre che la letteratura gialla, come tutta la letteratura, ha sempre qualcosa di nuovo da dirci e noi non abbiamo che da impegnarci a scoprirla.
Adelphi sta meritoriamente ripubblicando tutto Sciascia, e Il metodo di Maigret è, appunto, una raccolta di saggi sul giallo che risulta illuminante. Sciascia, negli anni ’50, parte da un atteggiamento dubbioso, che nel tempo va modificandosi: forte consumatore di gialli Mondadori, all’inizio non ritiene che abbiano altro che la dignità di un prodotto di consumo. Pensa anzi che tendano a snaturarsi con un eccesso di violenza gratuita e una propensione a riempitivi erotici che ne definiscono una deriva deteriore. Sa però che i buoni giallisti hanno appreso la lezione di Stevenson e di Conrad, di Melville, Proust e Kafka. E insieme sa che Faulkner e Cain hanno preso molto dal giallo, e che Hemingway e Graham Green devono qualcosa a Hammett. L’idea che in realtà tutta la grande letteratura abbia spesso preso spunto da stimoli polizieschi porta Sciascia a pensare al furto della mandria di Ercole, nell’Eneide, o al metodo – poliziesco – della follia di Amleto nella sua indagine sull’assassinio del padre, e così via. A questo punto Sciascia arriva ad apprezzare anche quello che definiamo il giallo commerciale, e scopre che “assume la realtà quotidiana del delinquente che misteriosamente opera e della società che da esso si difende” e che la tecnica specifica del romanzo poliziesco è la “centrifugazione della realtà”. Magnifica intuizione, perché è vero che il giallo comprime in un romanzo quello che, nella nostra vita quotidiana è generalmente diluito in tempi lunghi. Così facendo, però, ci costringe e prendere contatto col male. E qui Sciascia arriva pensare che, in fondo, quella dimensione un po’ gratuita dell’eccesso di delittuosità della realtà del poliziesco sia qualcosa che, in altri tempi, “si manifestava con il sentimento del sacro”. Un’altra fantastica intuizione: pensare che la proliferazione del racconto giallo altro non sia che la sostituzione del racconto mitico, della tragedia greca, del confronto con il destino mortale che accompagna la coscienza dell’uomo dalle origini del pensiero simbolico ad oggi.
Non posso qui riassumere tutte le intuizioni di Sciascia, ma val la pena arrivare alla sua lettura di Simenon e del metodo di Maigret che, per Sciascia, è “un uomo che si affida alla conoscenza del cuore umano e alle istantanee intuizioni”, e che coglie “nell’esitazione di un gesto e nell’arredamento di una stanza più verità che nelle impronte digitali e nelle perizie balistiche”.
Un’osservazione che ci porta a un altro libro che di giallo parla, sia pure con altra prospettiva. E’ La versione di Fenoglio, di Gianrico Carofiglio che è, sì, una serie di casi gialli; ma anche una riflessione sui metodi di indagine e sugli strumenti analitici che hanno gli investigatori. Carofiglio li mette in bocca al suo maresciallo, e i casi che si susseguono, assieme alla vicenda del rapporto che il maresciallo instaura con un giovane, rendono particolarmente accattivante la lettura. Ma quel che voglio sottolineare qui è che anche il maresciallo Fenoglio, come Maigret, indaga più con la riflessione psicologica che con la tecnologia. “Le indagini ben fatte devono contenere sbavature: sono sinonimo di genuinità”, dice. Si deve procedere per aggiustamenti progressivi. Ed è un errore, trovato un sospetto, passare subito alle conclusioni. Anche perché, se ci si fissa su uno schema, questo può produrre una cecità selettiva: un’illusione logica. Le indagini non sono procedure lineari, perché tutti, in qualche modo mentono, anche quando credono di essere sinceri. E non esiste un trucco magico che consenta di smascherare le bugie. Quello più originale può essere quello di ripercorrere una testimonianza a ritroso, partendo dalla fine: difficile non contraddirsi, se si sta mentendo.
Ricalcando Poe, Fenoglio spiega che alle volte un’indagine coglie nel segno perché, invece di cercare indizi, ne scopre uno mancante. Fedele alla logica della ricerca scientifica, Fenoglio ritiene che per provare davvero una congettura si debba sforzarsi di demolirla; e che solo se resiste al tentativo di falsificarla è davvero utile a spiegare ciò che è accaduto.  E che l’importante non è avere certezze, ma dubbi. Non credo di esagerare se dico che riflettere sulle indagini è come riflettere sulla vita. Su come dovremmo confrontarci con il nostro vissuto, con i nostri fallimenti, con la nostra visione del mondo. Tutte prospettive che dovrebbero passare al vaglio di un tentativo di demolizione; alla ricerca di un pezzo di verosimiglianza.


(da L'IMMAGINAZIONE)

PAROLE PESANTI E OPINIONI LEGGERE

“Le parole sono importanti”, protestava Nanni Moretti di fronte alla vaghezza espressiva di giovani della penultima generazione. Lo sono ancora.  E’ successo, poco tempo fa, che un capo politico, in una dichiarazione pubblica, si sia espresso così: “dirò ai miei deputati e ai miei senatori di fare…”. Quell’uomo non stava parlando dei suoi compagni di partito. Voleva affermare esattamente quello che ha detto, e cioè di esser il proprietario di uno schieramento parlamentare, che per lui evidentemente non era fatto di esseri pensanti ma di suoi famigli, suoi scherani. Un capo, che dà ordini a un esercito uso a obbedir tacendo.
Al di là del partito politico in oggetto, del fatto che affermazioni del genere non suscitano nessuna reazione, né di stupore né di indignazione, e questo già preoccupa, credo che quella espressione, per isolata che sia (ma non lo è), abbia un significato che va al di là della brutalità ormai consueta del gergo politico attuale. Mi pare tocchi un paio di problemi, culturali, che sono stati, sì, oggetto di dibattito, ma in modo, a me pare, confuso e un po’ superficiale.
Uno è quello sull’opportunità di definire o meno chi fa politica oggi fascista. Seri studiosi si sono impegnati a ricordarci che per fascismo si intende un modo di gestire la cosa pubblica, con la deriva sociale, economica e culturale che, a suo tempo, ne è conseguita. E naturalmente, vista l’obiettività di questa osservazione, dobbiamo ammettere che nessun movimento politico, oggi, potrebbe essere definito fascista. Però ci si è fatti beffe anche di uno scritto sul fascismo di Umberto Eco dove, come spesso faceva, parlava con lieve divertimento di cose serissime, e dove sosteneva esservi una matrice fascista che si può riscontrare nei comportamenti umani, che stava alla base dei valori del fascismo mussoliniano. Dunque, c’è anche qui un problema di uso del linguaggio. Se diamo del fascista a chi, essendo un conservatore un po’ arrogante , bellicoso e poco incline a riconoscere il valore del parlamentarismo democratico, esageriamo? Per non essere imprecisi dovremmo – come suggerisce qualcuno – parlare di postfascismo, o neofascismo? Oppure bisogna ricordare che è da quel tipo di valori che il fascismo ha avuto origine?
A me pare che, in questo caso, non ci si debba perdere nel nominalismo. E’ bene definire fascista chi aborrisce le istituzioni democratiche e tradisce una vocazione autoritaria. Se non lo si fa, si finisce per accettare che la sua cultura politica abbia un valore accettabile per tutti. Se no, rischiamo di dimenticarci che i parlamentari non sono proprietà di un capo, ma rappresentano, ognuno per sua responsabilità personale, i propri  elettori e quindi la nazione.
C’è un altro termine che, negli ultimi anni, è diventato oggetto continuo di polemica e di aggregazione ideologica: è il rifiuto nei confronti delle élites. Anche qui l’uso della parole è discutibile, ma soprattutto impreciso. Con chi se la prendono i movimenti e i loro capi che ricordano in continuazione che le élites hanno rovinato il paese? Molto difficile capirlo, tanto che sembra trattarsi fondamentalmente di puro strumento di propaganda: si inventa un nemico, ancorché inesistente, gli si dà un nome che suona plausibile e si va all’attacco. Penso che sia importante riflettere su questo, che è ancora una volta un problema culturale, perché tutti i movimenti autoritari hanno costruito la loro fortuna inventando nemici immaginari, dando loro la parvenza di un’entità segreta e pericolosa che lavora nell’ombra contro gli interessi di un popolo. Dai tempi dei Protocolli dei savi di Sion, il meccanismo è stato usato ripetutamente, e con efficacia. Tempo fa un leader politico continuava a chiamare i suo i elettori a combattere il pericolo comunista, mentre i comunisti erano spariti dalla scena politica italiana ed europea da un pezzo. Oggi il pericolo sono le élites. Ma quali? Le élites economiche, finanziarie, quelle politiche (cioè gli stessi che ne stigmatizzano l’esistenza ), le élites intellettuali (ormai senza potere), i giornalisti (mentre i lettori dei giornali stanno sparendo) o quelle degli apparati della comunicazione digitale? 
Penso che dietro questa fantasiosa costruzione propagandistica ci sia qualcosa di pericoloso, e cioè l’idea di mettere in guardia gli elettori nei confronti di chi, avendo competenze, può imporre loro qualcosa di spiacevole. Un economista che spiega che, se non si pagano le tasse, non si hanno più servizi; un medico che dice che, senza vaccini, c’è il pericolo di epidemie; un intellettuale che dice che, se la collettività non studia, non legge, non si informa non è consapevole.
Ecco, qui il vero problema culturale. Un’onda emotiva che dice che chi più sa più ti danneggia. Ecco perché le élites fanno paura. C’è il rischio che dicano la verità.

 (Da l'Immaginazione)

giovedì 7 marzo 2019


BATTIATO, LA LETTERATURA 
E LA GRANDE SFIGA GIOVANILE

Curioso, però, che Battiato abbia lasciato segni tanto significativi in diverse generazioni di giovani. Ma se ne trovano tracce diffuse, e questo dovrebbe pur dire qualcosa, visto che si tratta di un cantante che è stato anche un poeta e – al seguito di Sgalambro - un po’ un pensatore, di taglio mistico-esoterico. Lo cita Enrico Brizzi, nel suo Tu che sei di me la miglior parte (Mondadori), quasi a dare un segno interpretativo a un racconto tutto in presa diretta, senza riflessioni né valutazioni morali. La storia è quella di un gruppo di amici, raccontata dall’infanzia a una gioventù senza maturazione, con i passaggi dai primi turbamenti del protagonista, molto ben inserito in una famiglia tanto disordinata quanto sincera, fino a una spirale di devianza e di conflitti, un po’ di sesso e qualche momento di violenza.
I piccoli cannibali crescono, e dai tempi di Jack Frusciante qualcosa è cambiato, ma la chiave del narrare di Brizzi rimane fondamentalmente la stessa. Se le vicende sono rese con una partecipazione affettuosa e ironica, la sostanza resta quella del diffuso filone della Grande Sfiga Giovanile. Un modello narrativo che va dall’autocoscienza dei gruppi di compagni di scuola fino al girovagare senza meta di chi, finita la scuola, si è ritrovato senza né sogni né desideri, in un mondo che permette di sopravvivere e persino di fare esperienze, ma non di vivere autenticamente. Succede anche ai protagonisti di quest’ultimo libro, che seguiamo con simpatia nella loro lenta discesa verso il nulla, pieni di baldanza giovanile e fragile ingenuità. I primi amori, la scoperta del sesso, la voglia di avere e di essere, lo sballo, soldi facili, qualche sosta in carcere, il distacco e la negazione di valori consunti.
Credo che Brizzi abbia descritto, ancora una volta, con precisione e partecipazione, i riti di passaggio della sua generazione. A me però sembra che resti ancorato a una visione quasi estatica di un vuoto di contenuti. Quasi che i suoi protagonisti non avessero nessuno strumento per interpretare la realtà, come invece ogni generazione non può evitare di produrre.

La traccia di Battiato che usa Francesco Piccolo, invece, sta proprio nel titolo del suo L’animale che mi porto dentro (Einaudi), ma il modello narrativo è tutt’altra cosa. Qualcuno parlerà di autofiction, ma a me pare più evidentemente un’autobiografia. Piccolo non prende mai distanza dal suo racconto, parla sempre e solo di sé, senza né falsi né veri pudori, e senza che la trasfigurazione letteraria trasformi l’esperienza personale in narrazione romanzesca.
 Anche qui abbiamo un racconto di formazione, dall’infanzia ai primi turbamenti sentimentali e alle prime esperienze erotiche, fino a un’autoanalisi, che si vuole spietata, del proprio essere incapace di uscire da un’educazione violenta e dall’abitudine a vivere gli impulsi e i condizionamenti del “branco”. Tutto il libro è una descrizione dell’impossibilità di superare lo stereotipo del comportamento virile, del cinismo e della animalità nella visione del sesso e del senso di appartenenza a un mondo fatto di bullismo, prevaricazione, menzogna e brutalità.
Non si può non leggere con partecipazione la descrizione di una crescita segnata dalla vita della provincia meridionale, da un padre violento, da aggressività incontrollata nello sport, da acne adolescenziale, da ansia di integrazione alle bande giovanili, fino all’esibizione delle conquiste femminili e ai rapporti sessuali come prova di forza.
Piccolo intervalla la descrizione della propria impulsività con le esperienze estetiche: Malizia di Samperi, il Sandokan di Salgari, il Padrino, il fumetto di Lando, Amore senza fine di Zeffirelli, Houllebecq e la canzone napoletana. Sono intermezzi che descrivono il Piccolo-protagonista come uomo capace di proiettare il proprio io nei canoni della narrazione popolare e nel consumo della cultura di massa. Se si supera l’imbarazzo per il fatto che la parola c….o ricorre con una frequenza quasi superiore a quella delle congiunzioni, se ne trae un ritratto forse sincero, ma corrucciato e inquietante di come anche l’intellettuale più esercitato all’uso di strumenti di analisi psicologica possa avere difficoltà a controllare impulsi primordiali. Ed è curioso come, proprio nella descrizione di questo machismo incontrollato, lo scrittore-protagonista guardi a se stesso con un sentimentalismo quasi altrettanto ingenuo e compiaciuto.
La sensazione è che neppure Francesco Piccolo sia sfuggito al canone della Grande Sfiga Giovanile, ma l’abbia fatto redigendo un’autobiografia di voluta spudoratezza e – nel suo caso - di esibito autocannibalismo. E lascia il dubbio che le autobiografie dovrebbero essere consegnate a un tempo futuro, in cui esperienze e veemenze siano state elaborate e metabolizzate fino in fondo.

                                                                        Da "L'immaginazione", marzo 2019