mercoledì 21 ottobre 2020

UN'AUTOBIOGRAFIA OBLIQUA 

Antonio Franchini ha fatto un gioco obliquo, pubblicando i racconti raccolti in Il vecchio lottatore, sottotitolo: e altri racconti postemingueiani, NN editore. Obliquo perché già il sottotitolo è ingannevole: cosa vuol dire postemingueiano (prendiamo la sua grafia)? Forse che rifiuta un taglio duro, diretto, come quello di Acqua, sudore e ghiaccio (per me, uno dei suoi libri più belli)? Certo, qui ci sono racconti che parlano del sentimento paterno e di memoria di amici scomparsi. In effetti, abbiamo  momenti più lirici, meno “sodi”, rispetto ad altre prove dello scrittore. O forse che nega la derivazione della sua scrittura dal pragmatismo nordamericano che ha segnato le sue opere precedenti. Ma una certa dose di elementi primordiali, di lotta dura, di senso della disciplina sportiva, di confronto con la natura e di pulsioni primarie restano,  e non marginalmente. Il postemingueiano, a mio avviso, si può cogliere solo nell’insieme, malgrado i nove racconti raccolti qui siano apparentemente separati da tematiche e ambientazioni diverse. Il gioco obliquo, insomma, consiste nel fatto che, raccogliendo storie scritte in momenti diversi, con ambientazioni lontane e persino una scrittura che cambia a seconda del quadro rappresentato, l’insieme di questo libro risulta esser una sorta di autobiografia per immagini, dove ogni racconto sembra disegnare una fotografia delle diverse immagini che l’occhio dello scrittore ha visto, metabolizzato e elaborato letterariamente fino a farle diventare un percorso di vita. Un autoritratto con sfondi variabili.

Uno scenario cubano, percorso da napoletani in trasferta, con l’immancabile poker, l’inutile tentativo di pescare i marlin, i daiquiri. Personaggi esagerati, con nomi fiabeschi: lo Squalo, la scimmia, il Patatino, in una prospettiva in tutto è epico: le sbronze, le sfide a braccio di ferro, le grasse ragazze tedesche. Fino alla saturazione: “Quanto deve durare ancora, ‘sta strunzata?”. E La conclusione, con la foto ricordo fatta con un marlin imbalsamato, che sembra vero. “Gli parve di averlo appeso nell’armadio dei suoi sogni irrealizzati e di essere uscito per sempre dalla vita che davvero avrebbe voluto per sé”.

Impressionante lo scenario delle visite alle trincee di Caporetto, con i musei che raccolgono pietosi resti, rimasugli di vite perdute un secolo fa in una guerra assurda, i recuperanti, che vivevano raccogliendo residuati bellici, gli esperti che fanno visite guidate a quello che è una sorta di immenso cimitero senza tombe. Episodi raccolti, forse sognati, che rianimano questa terra dolente.

E ancora un aficionado della corrida, Ermanno Doris, uomo dedito a pratiche estinte, che cerca di creare a casa sua un angolo di Spagna, ma che è stato anche karateka, pittore (di plazas de toros), esperto di spade giapponesi e scrittore in proprio. Sostiene di dovere la vita all’autore, ma lui non saprà mai perché. Vede un’affinità tra la corrida e la letteratura: “La tauromachia resta il massimo esempio , nonostante i trucchi, di una cosa vera e la letteratura è il massimo esempio in virtù dei trucchi e nonostante i pregi, di una cosa finta”. Ma in fondo non è nemmeno così. Resta la aficiòn, un’innocua follia, “gratuita, inattuale, sfolgorante”.

L’ultimo racconto della raccolta, che dà il titolo al libro, è il più tradizionalmente franchiniano. E’ una “famiglia” – un gruppo – di lottatori, con i loro problemi, perché anche i lottatori invecchiano e, anche se esistono combattimenti riservati a chi è più avanti negli anni, possono essere difficili se non patetici. Ma la storia parte da lontano, dal senso ultimo della disciplina, della logica del combattimento, del pensiero del lottatore: “Voi non siete rabbiosi, voi non avete sentimenti, dovete acquisire una mentalità predatoria”. E quando il vecchio lottatore si chiede perché abbia lottato per tutta la vita, deve dirsi che sono tante. “Per gloria e per vanto (…), per amore della bellezza e per sfogo del corpo (…) per abitudine e impossibilità di smettere (…) Le stesse ragioni per le quali ci si impegna in qualunque altra cosa, le stesse ragioni che, quando mancano, inducono a buttarla, la vita”.

Quasi un romanzo a sé “Pesca alla trota in Carnia”, il ritratto di un ragazzo originale, Zanon, “figlio laconico di una terra ingrata”. Un’amicizia fatta  di avventurosi campeggi con pesca subacquea di trota fario (caratteristica: ha la pelle punteggiata di pallini rossi), nelle acque gelide del Tagliamento, con la compagnia di una ragazza bella, apparentemente spregiudicata, inarrivabile, che però forse ha avuto una storia con Zanon; e poi viaggi nella Germania del Nord, alla ricerca di organi bachiani, il suo matrimonio, lo sci, fino a quell’inevitabile distacco che fa perdere per strada gli amici della gioventù, che si incontrano sempre più di rado. La rivedrà, la ragazza, vent’anni dopo; sempre bella, meno originale, imborghesita. Di Zanon sapremo che era diventato ricco, che si era comprato un’isola, che è morto immergendosi nel Tagliamento. Forse pescava trote fario.

Ma forse il più significativo, quello che lascia più chiaro il senso di tutto il libro è il primo racconto, Le leonardiadi, scritto tutto il seconda persona, in cui il protagonista-autore accompagna la figlia a ujna gara per bambijni, alla fine delal quale anche gli adulti potrebbero partecipare a ujna corsa campòestyre, cui però l’autore non parteciperà. “Perché non ha i corso?”, chiederà alla fine la figlia. Ma lui è un genitore e, per fortuna, non deve correre per vincere.

C’è, in tutti questi racconti, in modo diverso ma sempre presente, una malinconia e un senso di morte che fa pensare ad anni che sembrano spensierati, animati dall’ebbrezza di una conquistata autonomia, di sfide a grandi cose, ma che hanno in sé qualcosa di dolente. Il filo conduttore di tutto il libro è l’arrivo della linea d’ombra, quando quell’esaltazione sfuma nella consapevole responsabilità dell’età adulta. Lì viene meno la “mentalità predatoria”, e ci si pongono le domande.

martedì 14 luglio 2020


Le ziette: l’altra parte della famiglia
“Vado a casa delle mie zie, perché io una casa non ce l’ho”. Chi parla è Tino Faussone, il protagonista della Chiave a stella, di Primo Levi. Grande e grosso, capace di montare con le sue manone ponti, tralicci e piattaforme petrolifere, non ha casa e quando, tra un viaggio di lavoro e l’altro, torna a Torino, va dalle zie. “Sono due zie di chiesa, mi ricevono nel salotto buono e mi danno i cioccolatini”, spiega a Levi Faussone; e qui c’è un particolare che fa riflettere. Faussone non dice “due donne di chiesa”, dice “due zie di chiesa”, e con questo ha aggiunto all’indicazione di genere una caratteristica che rende uniche queste parenti. Prima che donne, zie.
“Cosa faremo di questo ragazzo?”, si chiede Betsey, l’energica la zia di David Copperfield, tipico personaggio dickensiano, interrogandosi sul suo futuro. “Io gli farei un bagno”, risponde imperturbabile il signor Dick. La zia Betsey è un tipo che paga regolarmente l’ex marito perché non si faccia vedere e ha un affittuario, il signor Dick (nome allusivo? Chissà) che, anche se non viene esplicitato, sembra vivere more uxorio con la zia. Siamo nella puritana Inghilterra vittoriana, dove già il fatto che la zia abbia cacciato il marito è del tutto al di fuori dai canoni sociali borghesi, e che in sovrappiù  conviva con un uomo addirittura scandaloso. Ma le zie sono così, e per questo rappresentano un originale soggetto letterario.
Compaiono carsicamente, nell’universo letterario, ma sono stelle di prima grandezza. Il loro compito è obliquo, ma spesso centrale. La Sanseverina, zia vedova di Fabrizio del Dongo, presa da tumultuosi rapporti sentimentali, sotterraneamente innamorata del nipote, è un personaggio chiave della Certosa. Una zia di carattere, anticonformista al limite dell’incoscienza, volitiva e incurante di norme e convenienze. Tutt’altra cosa le Sorelle Materassi, emblematiche di un mondo di zie tutte casa e parrocchia, che però perdono la testa per il nipote sciagurato e per amor suo si fanno derubare di tutto.
Ci sono, è vero, importanti zii letterari maschi, dal principe di Salina ai paperi di Disney. Ma non arrivano mai ad avere la peculiarità delle zie. Perché la loro ironia corrosiva, la volontà di dare ai nipoti strumenti per maturare fuori dalle convenzioni e per conquistare una visione del mondo capace di rinnovamento, in conflitto con le tradizioni, rappresenta un formidabile strumento di progresso etico e sociale. Così per Zia Mame, così con In viaggio con la zia di Graham Green, così con la formidabile Zia Julia di Vargas Llosa. Per non parlare delle terribili zie di Jane Austen: quella di Darcy, in Orgoglio e pregiudizio e quella di Fanny Price, in Mansfield Park, tutte e due usate dall’autrice per dimostrare che anche le più tenaci e ostinate opposizioni al cambiamento sociale della modernità non possono che essere sconfitte.
C’è un modello di zia che lascia una traccia indelebile nella letteratura moderna e che giustifica l’idea che il ruolo delle zie, nel romanzo, vada al di  là della semplice parentela. Perché le zie sono spesso un surrogato dei genitori, ma con caratteristiche completamente diverse. Tenere e ingenue, alle volte autoritarie e crudeli, ma anche coraggiose al limite della temerarietà. Hanno un’autonomia, sociale e affettiva, che una madre non può avere. E insieme un ruolo di protettrici se non educatrici che possono esercitare con la libertà che nessun genitore ha. Non hanno gli stessi patemi delle madri, ma possono esprimere un affetto anche più caldo e disinvolto. Non devono essere severe, perché non è da loro che ci si aspetta un’educazione rigorosa, ma possono esercitare una sorta di dominio sotterraneo che le porta a insinuare nei nipoti il tarlo dell’anticonformismo e della ribellione.
Le zie della letteratura sono uno strumento per la comprensione dei modelli di formazione dell’uomo moderno. Un archetipo letterario che lascia il segno: quando in un racconto compare una zia, tutti solleviamo le sopracciglia, allunghiamo le orecchie. Sta per succedere qualcosa. Le zie sono grimaldelli per entrare nelle dinamiche famigliari da una porta laterale, per aprire prospettive inusuali nei problemi della consanguineità, per guardare con un prisma che cambia l’ottica dell’osservazione quello che nascondono le parentele. Le muse di un’umanità in via di sviluppo.
Personaggi formidabili per costruirci intorno un racconto. Tant’è vero che se n’è accorto anche il cinema, in più di un’occasione, com’è accaduto con le terrificanti ziette di Arsenico e vecchi merletti, che seppelliscono i loro pigionanti in cantina. Grazie, zia! 

sabato 23 maggio 2020


SCRIVERE UN APOLOGO E' UNA SFIDA TEMERARIA

L’ultimo Rushdie, Mondadori,  450 pagine, si intitola Quichotte (Chisciotte alla francese, mah), e vuole essere un calco moderno e spregiudicato del classico di Cervantes. Parla di un mediocre scrittore di libri di spionaggio che inventa il Chisciotte moderno sotto forma di emigrato indiano (dall’India) negli USA, commesso viaggiatore di oppioidi illegali. La sua Dulcinea è un conduttrice televisiva di successo, tossica, indiana anche lei. In viaggio verso l’incontro con la bella, Q. è accompagnato da un figlio immaginario, Sancho, che deruberà la sorella di Q., detta Molla Umana, e fuggirà, alla ricerca di un’identità reale, in dialogo con il grillo parlante e una fata turchina sovrappeso. Sullo sfondo, tra l’apparizione di uomini-mammut, agenti segreti nippo-americani e colloqui con la statua di Andersen, le vicende dello scrittore; anche lui munito di un figlio agente della CIA e di una sorella malata. In conclusione, la classica fuga in macchina attraverso gli Stati Uniti, mentre Q. dialoga con la sua pistola e la bella lo accompagna verso un sogno di fantasmatici viaggi interplanetari.
Rushdie sa scrivere, il ribollire di invenzioni riempie il libro e produce la curiosità che porta ad aspettarsi una conclusione fantasmagorica. Ci riesce. Il rischio di scrivere un romanzo picaresco, però, ambientato negli USA di oggi, è quello di mettere insieme pezzi del Mago di Oz, di Lolita e di Philip Dick. E il risultato è sì una satira di un mondo in crisi, ma chiusa in un ritratto un po’ confuso degli USA e dell’immigrazione indiana.
Anche Lo scarafaggio di Ian McEwan, Einaudi, meno di 100 pagine, si presenta come un apologo della Gran Bretagna della brexit e un’allegoria del declino delle democrazie occidentali. Lo scarafaggio protagonista si insinua al n. 10 di Downing street e si sveglia nel corpo umano del primo ministro. Sostenuto da un governo di uomini-scarafaggio come lui, imposta un grande progetto: l’inversionismo, un capovolgimento delle regole del mercato. Si paga per lavorare, si viene pagati per consumare. L’inversione trova qualche resistenza, che viene però superata. L’unico ministro non di origine scarafaggesca si deve dimettere a causa di un finto scandalo che lo mette fuori gioco; e la ritrosia del parlamento viene superata quando il presidente degli USA (scarafaggio anche lui) si schiera a favore dell’inversione. Lasciamo al lettore il divertimento di arrivare alla tragicomica conclusione.
In una postfazione, Mc Ewan dichiara apertamente di essersi ispirato alla Modesta proposta di Swift, e di voler parlare in allegoria della brexit. “Il più insulso, masochistico e inconcepibile proposito della storia di queste isole” al quale, con l’eccezione di Putin e Trump, il mondo guarda con sgomento. Una scelta per la quale ha votato solo il 37% dell’elettorato. Per descrivere “qualcosa di orrendo” che si è insinuato nella politica britannica, a Mc Ewan  è sembrato naturale ricorrere a un’immagine ripugnante come quella dello scarafaggio.
Un ragionamento, per me, assolutamente condivisibile, come ogni riflessione su quanto questo fenomeno sia figlio di tendenze sovraniste e di una propaganda fatta di falsità e di discutibili insinuazioni. E non posso che concordare sul fatto che le tensioni antieuropee nascondano tendenze autoritarie e  antidemocratiche.
I libri di Ian Mc Ewan e di Salman Rushdie, però, mi sembrano fallire il loro intento sul piano letterario. C’è da chiedersi perché, visto che si tratta di due scrittori di talento. Credo che accada perché la dimensione allegorica è di per sé difficile da maneggiare, al di là della statura di chi scrive. Diventa facilmente parodia del racconto romanzesco, non lo sostituisce, e finisce per annoiare perché la trasparente funzione satirica si esaurisce presto, mentre la narrazione stenta a coinvolgere perché usa una trama tutta cerebrale, senza emozioni né sentimento.
Un’ultima annotazione. Due libri che si riferiscono, fin dal titolo, a due grandi classici, sono di per sé una sfida temeraria. Don Chisciotte e il suo doppio Sancho hanno certo ispirato altre narrazioni, ma l’uso che Rushdie fa del personaggio è tutto in burla, e così perde la sua drammaticità. L’uso che Mc Ewan fa dello scarafaggio non ha a che fare con il disagio dell’uomo moderno, come in Kafka, ma con il declino della politica, e anche qui l’emblema si stempera in una visione grottesca che non raggiunge il lato profondamente umano della metamorfosi di Gregor Samsa.
A questi due scrittori, che hanno voluto parlarci della crisi del nostro mondo, sembra essere mancato lo slancio epico necessario per dire le grandi contraddizioni dell’uomo. Senza quella dimensione, ogni riscrittura, ogni rifacimento, rischia di diventare un divertissement, che lascia un po’ il tempo che trova.

Da "L'immaginazione", n. 318

lunedì 6 aprile 2020



L'INCANTAMENTO DIGITALE
E IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA

Per un curioso paradosso negli Stati Uniti, il paese che è sempre stato in prima linea nelle innovazioni tecnologiche e nello sviluppo dei media, si sono diffuse le critiche più radicali – e spesso superficiali – dei processi in atto. Non ci ricordiamo nemmeno più dei Persuasori occulti, di Vance Packard, che alla fine degli anni Cinquanta ci metteva in guardia dalle forme più subdole di pubblicità e pure ha avuto grande diffusione; si sono persi nel tempo gli studi apocalittici sullo sviluppo della comunicazione televisiva, come i Tre topolini ciechi, di Ken Auletta; per venire a oggi, è dall’America che vengono i più duri atti d’accusa al Web e ai suoi effetti, a cominciare da quello di Nicholas Carr, col suo Internet ci rende stupidi? , per arrivare a Proust e il calamaro e il più recente Lettore, vieni a casa, di Maryanne Wolf.
Sono libri che soffrono di un taglio divulgativo che non si propone tanto di indagare in profondità, quanto di indirizzarsi piuttosto verso una critica superficiale e umorale. Un saggismo che tiene conto soprattutto delle posizioni tradizionalistiche degli ambienti accademici, e rappresenta una sensibilità conservatrice, che affonda le sue radici in una lettura forse un po’ approssimativa della scuola di Francoforte.
Sarà per la solida tradizione umanistica, che in Italia informa anche gli studi di sociologia della comunicazione, ma è da noi che, spesso, arrivano i lavori più originali e aggiornati sui nuovi media. Il più recente è un libro scritto a quattro mani da Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini, La cultura orizzontale, edito da Laterza. Originalità che inizia dal titolo, che rappresenta la prospettiva con la quale gli autori guardano al modo in cui si organizza, oggi, la trasmissione delle cultura e del sapere. Una trasmissione ad andamento orizzontale, appunto, senza intermediazioni, che ha obliterato le professioni e le competenze e ha “scardinato il sistema di accesso alla conoscenza a cui eravamo abituati”. Ma questo è un dato di fatto, non un giudizio, e il libro è un’indagine senza pregiudizi, che parte da un’analisi obiettiva di come è cambiato il paradigma dei processi comunicativi nell’epoca della comunicazione digitale, focalizzata in particolare sui comportamenti giovanili.  
Di fronte allo straordinario flusso di informazioni veicolato dalla rete, notano gli autori, dobbiamo tener conto da un lato dell’arretratezza degli intellettuali, chiusi in un sapere autoreferenziale, e dall’altro di  un’alfabetizzazione incompiuta. Malgrado l’alto livello mondiale di scolarizzazione, l’ignoranza non ha mai esercitato tanto fascino come oggi. Colpa della rete? Anche, ma anche di una crisi di autorevolezza delle istituzioni, che non hanno avuto la capacità di cogliere i segnali di cambiamento. La rete dunque mette a disposizione una quantità di dati finora inimmaginabile, illusoriamente gratuiti, ma ai quali si arriva spesso in modo non intenzionale, e non è facile avere gli strumenti per decifrarli, organizzarli e leggerli con competenza. C’è ancora, dunque, la necessità di mediazione; perché la rete è un ambito di grande libertà, ma “non predisposto alla parità delle condizioni di partenza”. E quindi “qualcosa della verticalità rimarrà”, dicono gli autori, perché acquisire informazioni, di fronte al surplus cognitivo, necessita di un mediatore, che permetta “una appropriazione controllata delle forme culturali”. E’ difficile però immaginare chi saranno i mediatori del futuro. Certo non quelli del passato, e se i giornalisti e gli intellettuali hanno ancora un ruolo, oggi si trovano in competizione con i nuovi attori della cultura orizzontale, dagli influencers agli yuoutubers, dai bloggers agli stessi potentissimi motori di ricerca.
Il libro dà conto, con un’indagine approfondita, di come la comunicazione digitale sta cambiando i diversi comparti del consumo culturale: dal libro alla tv, dalla musica al videogioco, dalla radio al cinema. Le novità più significative mi pare emergano dall’analisi del modo in cui ci si informa nell’epoca della disintermediazione. Qui il giornalismo tradizionale si trova a confrontarsi con un sistema ibrido,  nel quale le notizie possono arrivare – come anticipato dagli studi di Lella Mazzoli -  attraverso la crossmedialità: dai mezzi più diversi e da fonti spesso non autorevoli, come lo user-generated content. E’ un universo in cui il flusso informativo si mescola con le relazioni dei social networks , in un “circolo narcisistico”, una sorta di conversazione ininterrotta. Interessante la riflessione sul fenomeno del FoMo, Fear of Missing Out, il timore di perdere la connessione, che produce una sorta di malattia conformistica che costringe all’iterazione di contatti tra fruitori che condividono gli stessi interessi e valori.
Solimine e Zanchini, pur essendosi proposti come ambito di ricerca solo le pratiche culturali in rete, con particolare attenzione ai comportamenti giovanili, ammettono che l’essersi formati in periodo pre-internettiano fa correre loro il rischio di cadere in trappole nostalgiche. Malgrado lo sguardo obiettivo, però, la conclusione non può essere ottimistica. Se è vero, come indicato dagli autori, che “il consumo critico di informazione rischia di essere un privilegio di minoranze”, l’orizzontalità può essere un  fenomeno che “stride con il pluralismo che la rete propaganda come sua bandiera”, perché non supera il forte iato tra chi ha e chi non ha gli strumenti per orientarsi nella ridondanza informativa. Qui il libro ci pone di fronte a un elemento di allarme che è ricorso a più riprese, in vari contesti, negli ultimi anni: le correlazione tra l’uso dei nuovi media e la crescente sfiducia nel sistema democratico, nella politica e nelle istituzioni.  Né è facile immaginare chi possa presiedere alla riorganizzazione dei saperi e alla certificazione della veridicità delle informazioni in un universo che rifiuta la mediazione e non riconosce le competenze. Una preoccupazione che gli autori attribuiscono agli studiosi del pensiero classico: che l’incantamento del mondo digitale abbia “l’effetto di inibire il processo di maturazione che avviene nel continente profondo”. Difficile non essere d’accordo. Il prevalere dello sguardo veloce e superficiale è già in atto. La rete non cambia solo il flusso della comunicazione; ci cambia dentro, tutti.

Mi permetto di aggiungere una mia riflessione. Mi pare certo è che l’orizzontalizzazione  non stia aprendo la strada di una nuova democrazia della cultura, ma che ci sia il rischio invece che apra due percorsi, uno politico e uno sociale, ambedue recessivi. Da un lato, con la morte delle ideologie e la crisi dei partiti tradizionali, sembra farsi avanti – non solo in Italia - una classe politica fatta di soggetti che non hanno un progetto proprio, ma elaborano opportunisticamente le proprie strategie elettorali sul modo in cui l’opinione pubblica si aggrega intorno a sensibilità occasionali, legate a campagne stampa spesso basate su notizie imprecise se non false. Dall’altro sembra delinearsi un nuovo tribalismo, costituito da circoli ristretti, concentrati su interessi particolari e su valori acquisiti acriticamente. Una frammentazione, un processo di parcellizzazione sociale che non va nella direzione della modernità, ma a spinte anarcoidi e a un ritorno a fenomeni di rifiuto del principio di responsabilità collettiva e di delega agli organismi costituzionali.
Nel momento in cui dobbiamo proporci di uscire dalla gravissima crisi prodotta dalla pandemia del coronavirus, abbiamo bisogno di ripensare in modo profondo i nostri rapporti con le istituzioni e di elaborare un progetto di società sul quale investire per il futuro. Per farlo, sarà necessario superare i tribalismi e gli opportunismi, perché l’idea che tutto possa tornare come prima è illusoria, ma soprattutto pericolosa.



MANZONI E LA LETTURA: UNA BIRBANTERIA


Poiché non mi risulta che qualcuno ci abbia pensato prima, non stupirà, dato il peso che il libro ha nella costruzione dell’identità nazionale e dell’immaginario collettivo degli italiani, che ci si chieda che ruolo abbiano, nei Promessi sposi, la lettura e la cultura in generale.
Abbiamo tutti in mente quel “Carneade! Chi era costui?”, del pavido don Abbondio che legge, ignaro della burrasca che sta per addensarglisi sul capo, “seduto sul suo seggiolone”, in “un libricciolo”. Povero prete; il Manzoni non si fa scrupoli nel descriverne il carattere codardo, ma a ben guardare dovremmo avere un po’ di rispetto per questo curato di campagna che non sa bene chi sia Carneade, del quale pure il nome “mi par bene d’averlo letto o sentito”, e almanacca su che tipo di “letteratone del tempo antico sia”. Perché – ci informa subito dopo l’autore, il curato “si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani”.  Ora, a parte questo curioso metodo di leggere a casaccio il primo libro a disposizione, è bene ricordare che stiamo parlando di epoca in cui la lettura non era certo abitudine diffusa, e il fatto che don Abbondio (certo, non aveva altri svaghi) leggesse abitualmente, ne fa un piccolo eroe dell’aggiornamento professionale. Almeno rispetto a quanto – a giudicare dalle statistiche – si legge oggi.
Del resto veniamo informati che né Renzo né Lucia né Agnese sono alfabetizzati; sanno a stento leggere lo stampatello, ma le lettere che si scambiano sono scritte da scrivani e poi lette da terzi di fiducia, con il risultato un po’ grottesco – tipo telefono senza fili – che le notizie per strada si aggrovigliano e confondono, finendo per produrre più confusione che informazione. Né vi è nessuno che, nei lunghi mesi passati da Lucia nel convento di Monza, si sogni di insegnarle a leggere nemmeno un messale. Segno evidente che l’idea di alfabetizzare i poveracci non solo non era obiettivo dei religiosi, ma forse addirittura cosa da evitarsi in quanto pericolosa e inadatta a un popolo che è bene non si avvicini troppo alla conoscenza.
A ben vedere, dopo il cenno a Carneade, non sentiremo più parlare di libri finché non si arriverà ai capitoli del rapimento di Lucia. Qui troviamo un cenno al fatto che le opere di carità di Federigo Borromeo non si limitano al sostegno alla povertà, che “potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa”, ma arrivano alla costituzione della biblioteca Ambrosiana, costata cinquecentomila scudi, costituita mandando in giro per l’Europa e perfino nel Medio Oriente studiosi a raccogliere il meglio disponibile sul mercato. Una raccolta di trentamila volumi, quindicimila manoscritti, e studiosi stipendiati per studiare e pubblicare i testi che  poteva suggerire il materiale a disposizione. Manzoni si dilunga nel raccontarne le meraviglie e conclude con acume: ”Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile mostrare (…) che furono miracolosi, o che non furono niente”. Infatti è tentativo inane dare conto, specie allora, con cifre o dati certi, di cosa produca la presenza di una biblioteca in una comunità. Ma conclude riflettendo su quanto fosse stata giudiziosa l’iniziativa “in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa”. Vien fatto di dire che si tratta di difetti ancora fortemente radicati nel paese.
Si torna a parlare di libri poco dopo, quando Lucia viene accolta nella famiglia di un sarto che “è uomo che sapeva leggere”. Per un sarto, un’originalità, tanto che “passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza”. Le letture del sarto in verità non sono un gran che: il Leggendario dei santi, il Guerrin meschino, i Reali di Francia. Ma questa spolverata di sapienza ne fa un intellettuale, tanto che, commentando l’apparizione tra i paesini del lecchese del cardinal Federigo, è il sarto a far sapere che “ha letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, né anche in Milano”. Quando si parla di miracoli.
Si riparla del sarto, dal quale Agnese e don Abbondio si fermano per “una fermatina”, di ritorno dal castello dell’innominato, dopo il passaggio dei lanzichenecchi. Nel dialogo tra i due intellettuali, Manzoni fa dire al sarto, a proposito delle disgrazie occorse, che “s’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte”. Per farci capire che il sarto, consapevole di essere stato testimone di qualcosa che ha valore di testimonianza storica, vorrebbe che questa fosse resa immortale con la pubblicazione di apposite memorie. Excusatio non petita del Manzoni, che ci ha pensato lui, nelle lunghe pagine precedenti, che descrivono l’invasione barbarica, e ora sta solo giustificando lo spazio che vi ha dedicato.
So bene che non bisogna mai giudicare i grandi del passato senza considerare il contesto in cui agivano. Ma le rarefatte apparizioni di libri e di lettori ci hanno, fin qui, dato la sensazione che il Manzoni abbia una sorta di visione un po’ elitaria, se non sarcastica, della possibilità di far arrivare barlumi di conoscenza a chi non abbia solide basi intellettuali. La citatissima descrizione della biblioteca di don Ferrante, e della sua misera fine, ne dà un’ulteriore prova. Manzoni ironizza sul fatto che si fosse rassegnato al fatto che “gli universali, l’anima del mondo, la natura delle cose non eran cose tanto chiare quanto si potrebbe credere”. E forse non aveva torto. Ma non si ferma qui, e lo ridicolizza dicendo che della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo che uno studio, che Aristotele e Plinio li aveva più letti che studiati e via maltrattando, con bruschi passaggi dalla stregoneria al Machiavelli (“mariolo ma profondo”), concludendo che aveva titolo di professore soltanto per la scienza cavalleresca e i codici d’onore. Che poi di fronte al contagio don Ferrante, ritenendo non trattarsi né di sostanza né di accidente, non prendesse precauzione alcuna e morisse di peste “come un eroe di Metastasio”, ancora una volta il Manzoni lo racconta come un fatto umoristico, con un malcelato sogghigno.  
Un giudizio, a me pare, assai severo, considerando che il povero don Ferrante è un autodidatta, vive in un’epoca di rarefatti scambi culturali, e già il fatto che si fosse imposto di dominare discipline così distanti ne fa un ardimentoso combattente per la conoscenza. Che i risultati non fossero straordinari, in fondo, era più che logico. Ma il nostro, ridicolizzandolo, continua a far filtrare, forse suo malgrado, un’acredine, tradisce un’alterigia aristocratica cha fa pensare che per lui il borghese, se proprio non doveva limitarsi ad essere un “vil meccanico”, al massimo poteva dedicarsi a magnificare la preghiera e la carità cristiana.  
Non è da meno la descrizione di come i sapienti del tempo parlassero di malattie e veleni, utilizzando i libri come strumento di mistificazione. A partire dai “dotti (… che ) vedevano l’annunzio e la ragione insieme de’ guai in una cometa”, come dimostrato da un libro, Specchio degli almanacchi perfetti, che “correva per le bocche di tutti“; per seguire con le Disquisizioni Magiche del Delrio che – e qui forse Manzoni non ha torto – furono “impulso potente di legali, orribili, non interrotte carneficine”. “Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste manufatta”, indotta artificialmente, insomma. Della voce del volgo, conclude Manzoni, “la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere”. Un giudizio amaro, ancorché, purtroppo, in parte ancora valido (par di sentire certi insensati allarmi sociali di oggi), sulla difficoltà di essere intellettualmente onesti, e di essere onestamente informati.
Potremmo dire che un briciolo di speranza, nella possibilità di accesso alla conoscenza dei poveracci, il Manzoni ce lo dimostra quando, verso la fine del libro, parlando dei molti figli avuti dagli sposi, dice che Renzo “volle che imparassero tutti  a leggere e a scrivere”; ma mi pare che si tradisca un po’ anche qui, quando lo fa concludere dicendo che “giacché c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro”. Birberia, l’alfabetizzazione! Ma santo cielo.
Un dettaglio, per concludere. Quando don Abbondio viene incaricato di andare a recuperare Lucia al palazzo dell’innominato, deve montare una mula. Pavido come sempre, il nostro si informa se la bestia sia quieta. “Si figuri”, risponde l’aiutante di camera che lo fa montare, “è la mula del segretario, che è un letterato”. Spiegazione non sorprendente, rivelatrice dell’atteggiamento diffuso per la cultura, e non solo nel ‘600: saper di latino non coincide col saper cavalcare. Insomma: natura e cultura, ci ammonisce Manzoni, raramente vanno d’accordo.


                                                                               da "l'IMMAGINAZIONE", MARZO 2020

martedì 28 gennaio 2020


Aiuto, sono in ritardo: non mi ero accorto 

che i festival culturali sono l'oppio dei popoli


Cosa si intende per cultura, a cosa serve, e chi e come la trasmette? Sono domande legittime, visto che le risposte cambiano col cambiare dei mezzi di trasmissione del sapere e dei valori dominanti. Goffredo Fofi ha scritto in proposito L’oppio del popolo, pubblicato da Elèuthera: un pamphlet molto polemico, nel quale nota come oggi ”di cultura come originalità del pensiero e delle opere ben pochi parlano”, del fatto che gli opinion makers hanno un ruolo nefasto per la democrazia e l’intelligenza dei nostri connazionali tornati ad essere – secondo Fofi – “una plebe indistinta”; e ancora dell’impossibilità di difendersi dalla stupidità, del fatto che non esiste più una coscienza collettiva e che siamo diventati tutti una “piccola borghesia generica, succube, condizionata e oppressa”.
Un allarme che in parte sento anch’io, basato su un’analisi parzialmente condivisibile. C’è però, nel libro, una vivace contestazione delle manifestazioni che si sono diffuse negli ultimi anni, e in particolare dei festival culturali e delle “capitali della cultura”. Per Fofi si tratta di occasioni di autopromozione per assessori alla cultura che hanno solo l’interesse di divertire, semplificare e rincuorare. “Banchetti a base di canzonettisti, teatranti e scrittori”, un minestrone il cui l’ultimo ingrediente è la politica, “che non renderà certo migliori le nostre città e più giusti i loro abitanti”. E se la cultura, si chiede Fofi, non fosse altro che “lo strumento privilegiato del dominio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, per farci accettare l’inaccettabile?”.
Qui Fofi non lo seguo. Perché anche se festival e capitali culturali possono certo essere strumentalizzati da amministratori beceri, fatti con fini commerciali e con personaggi mediocri, sono convinto che se anche uno solo di chi vi partecipa ne trae spunto per un pensiero, per un desiderio di approfondire un problema, per un desiderio di leggere un libro che altrimenti non avrebbe letto, sono comunque qualcosa che serve a noi tutti.
Vale, in questo senso, la lettura  di Cielo e soldi, Il giornalismo culturale tra pratica e teoria, di Giorgio Zanchini, Aras editore. E’ un libro in cui l’autore raccoglie l’esperienza di sette edizioni del Festival del giornalismo culturale di Urbino, Pesaro e Fano, che dirige assieme a Lella Mazzoli, che è anche la prefatrice del volume. E salta subito agli occhi, leggendolo, come un festival possa essere anche uno strumento per documentare e monitorare  il mondo della cultura del nostro paese, una sorta di incontro annuale per mettere a punto un’indagine su come cambia il rapporto tra produzione culturale e comunicazione, e su come i mezzi incidano sui messaggi.
Comincio dalla seconda parte del volume, in cui Zanchini fa una ricognizione attenta ed esaustiva dei territori del giornalismo culturale in Italia. Una mappa precisa, utilissima per capire come si stiano modificando le terze pagine (dove esistono ancora), si sviluppino i supplementi dei quotidiani, come cambiano le trasmissioni culturali televisive - oggi concentrate soprattutto in canali dedicati - e di come in rete si sia sviluppata una variopinta tessitura di siti di cultura. Una trasformazione profonda, che vede anche una fertilizzazione incrociata dei mezzi. Se è vero che i quotidiani perdono copie, è vero però il loro pubblico coincide con quello dei consumatori forti di cultura, che le loro versioni on line crescono e che i contenuti dei giornali spesso entrano in vario modo nella rete. E anche le trasmissioni televisive, che pure i giovani non guardano, hanno ancora la capacità di stimolare grossi numeri di consumatori culturali.
Quella che pare evidente è la crisi della forma-recensione, spesso sostituita –tanto sulla carta che in tv e in rete – da interviste, segnalazioni brevi o recensioni “non affidate a critici di professione, più impressionistiche che meditate”. Pezzi, conclude Zanchini, “che non permettono nessuna vera elaborazione del pensiero critico”.
Torno qui alla prima parte del libro, nella quale l’autore dà conto del dibattito che ha animato il festival negli anni. Fondamentale, a questo punto, è la messa in discussione degli intermediari, la marginalizzazione delle competenze. La crisi del giornalismo culturale tradizionale può essere arrestata? Può esistere un nuovo modello di intermediazione? E la crisi in atto non è forse lo specchio della parallela crisi delle strutture politiche e sociali?
Andiamo verso una sorta di “autocomunicazione di massa”, e “I processi lenti di acquisizione dei saperi faticano a resistere” si osserva. Vero. Ma forse dobbiamo chiederci: esistono processi di acquisizione del sapere che non siano lenti? Questa, forse, la vera domanda, e da qui la scommessa se il giornalismo culturale può avere un futuro.


   Da L'Immaginazione, gennaio 2020

martedì 14 gennaio 2020


ANCHE LA POESIA PUO' SALVARCI LA VITA

Può sembrare un paradosso pensare che Dante, oggi, possa salvarci la vita. Ma a ben pensarci non soltanto è vero, ma è un’affermazione che sottende un complesso ordine di ragionamenti che è molto opportuno affrontare. Lo fa, con sistematicità, Enrico Castellli Gattinara nel suo Come Dante può salvarti la vita – Conoscere fa sempre la differenza, Giunti editore. Parte, l’autore, dall’idea diffusa che la poesia non abbia poteri che vadano al di là dell’intrattenimento culturale: non cura le malattie, non spegne incendi, non ripara ponti. E in caso di pericolo di morte, nessuno sarebbe così pazzo da chiamare in soccorso un poeta. Insomma, apparentemente la poesia non serve a niente.
Castelli Gattinara comincia ricordando quello straordinario capitolo di Se questo è un uomo in cui Primo Levi racconta come, nell’orrore del campo di sterminio, di fronte alla richiesta di Pikolo, il suo compagno di prigionia francese, di insegnargli un po’ di italiano, a lui venga in mente di recitargli il canto di Ulisse. E di come lo sforzo di ricordare Dante, di spiegarlo al suo compagno, per un momento lo strappi dalle regole assurde del campo, dall’essere sempre sospesi a un filo, dal fatto che la vita del lager riduce l’uomo a un’istintualità primitiva, senza vera coscienza di sé, abbrutito fino al punto di non sapere più cosa si è. Ecco, nell’inferno di Auschwitz Dante, quel “fatti non foste a viver come bruti”, può strappare alla tentazione di lasciarsi sopraffare dalla violenza che distrugge innanzitutto la dignità umana. Può salvare.
 Castelli Gattinara continua la sua ricognizione andando a cerare gli esempi in cui la musica, la lettura di Pinocchio, l’arte, lo studio siano strumenti che possono sollevarci dalla disperazione, dall’isolamento, dallo smarrimento. Succede che chi organizza un’orchestra nella situazione degradata del Venezuela riesca a sottrarre  al richiamo della manovalanza malavitosa giovani che altrimenti non avrebbero nessun modo di sottrarsi al reclutamento criminale; chi coinvolge in un’animazione teatrale, partendo da Collodi, ragazzi africani già preda dei trafficanti di droga riesca a fargli trovare una via d’ uscita dalla marginalità; che la fotografia, la pittura, il cinema siano tanti agganci al mondo dell’espressione umana che, proprio perché immateriale, può salvare dalla violenta materialità di mondi che non lasciano libertà di pensiero e di speranza di costruzione di un futuro sereno.
Se praticare le arti è un modo di accedere alla conoscenza, se dà cognizioni e sapere, può salvare. E non salva solo chi vive situazioni di gravissimo disagio, i deportati e i reietti; salva chiunque rischi di essere, come chi è stato privato della dignità umana, senza capacità di scelta, di conoscenza, di autonomia del vivere le esperienza del mondo e di farne la base per un pensiero critico ed analitico. Riguarda tutti, e in particolare i giovani che studiano. Castelli Gattinara ha provato a chiedere ai suoi studenti adolescenti cosa fosse la cosa più importante per loro. “Su 100 studenti, motivati e interessati, intelligenti e partecipi, nessuno ha scritto una parola che avesse anche minimamente a che fare con la cultura”. Ed è importante la sottolineatura: non ragazzi apatici, svogliati e indolenti: studenti motivati e intelligenti. L’esperienza dell’autore dice che molti ragazzi amano la lettura e si appassionano alla scrittura. Ma quando ne parlano tra loro non accettano che questi siano valori significativi. Le cose importanti sono la famiglia, gli amici, l’amore. Non la poesia. E un libro, sì, può salvanti la vita: ma solo se ti trovi su un’isola deserta e hai tra le mani un manuale di sopravvivenza.
Castelli Gattinara, parlando di Primo Levi, ricorda che nel lager venissero chiamati “musulmani” (nessun riferimento all’Islam) i prigionieri che perdevano dignità e capacità di reagire, voglia di vivere e di lottare. I primi a cedere e ad essere destinati alla camera a gas. Credo che il suo libro voglia farci riflettere sul fatto che, anche se non viviamo in un lager e nessuno di noi rischia di essere ucciso per un abominevole progetto di  sterminio, si possa diventare “musulmani” anche oggi, in un mondo libero. Si possa perdere il coraggio di un pensiero autonomo, si possa cedere al conformismo di massa, si possa rinunciare al principio di solidarietà, alla difesa della dignità umana. Basta lasciarsi andare alla corrente. Non accettare la lezione della poesia, della letteratura, delle arti. L’assenza della cultura, nel progetto di vita dei giovani è un segnale preoccupante. Senza l’aspirazione alla conoscenza ci può esser solo il valore dell’istinto e del possesso. E purtroppo se ne vedono i segni.
 Insomma, credo che dobbiamo convincerci che anche oggi, nella battaglia per un mondo più giusto, Dante può salvarci la vita.

da "L'immaginazione", dicembre 2019

martedì 7 gennaio 2020


Come arrivai a conquistare la Capanna Nera

Il ricordo delle nevi di una volta, si sa, è sempre favoloso. E infatti, mentre calavamo verso Corvara, dalla macchina  che scendeva da passo Campolongo ricordo di aver visto, affascinato, due muraglie altissime, quasi si fosse miracolosamente aperto un varco in una enorme massa di neve, come per Mosé al passaggio del Mar Rosso. E certo, di neve ce n’era proprio tanta, negli inverni degli anni '50. Ma le giornate di quel primo anno sugli sci sono state radiose, il sole faceva sciogliere la neve sul tetto, e nella mansarda della scalcinata pensione in cui alloggiavamo un catino raccoglieva l’acqua che sgocciolava dal soffitto malandato.
Tempi difficili, c’erano pochi soldi, negli anni del dopoguerra; ma i miei genitori non avrebbero rinunciato allo sci per nulla al mondo. Così ci si doveva adattare: stanze umide, cibo scarso (brodini, fettine di carne trasparenti, qualche patata) e ai piedi sci e scarponi ereditati da amici più grandi. Gli scarponi, di vecchio cuoio, malgrado fossero stati debitamente unti di grasso di foca, si bagnavano dopo una sola ora d’uso. Gli sci, provvisti dei mitici attacchi Kandahar, con molla posteriore, erano dei legnacci marrone senza lamine che – poiché la plastica non era ancora stata inventata – avevano come soletta una mano di vernice rossa, alla quale la neve fresca si attaccava tenacemente. Dopo i primi tentativi, durante i quali sotto gli sci si erano formati degli zoccoli  che non permettevano di muovere un passo, ho capito che l’unica era di infilare velocemente gli attacchi e cominciare a muovere freneticamente gli sci avanti e indietro, in modo che lo zoccolo non si formasse.
 Addosso avevo dei pantaloni di lana niente affatto impermeabile; per difendermi dai rigori invernali indossavo una giacca a vento di semplice cotone impermeabilizzato, ma sfoderato. Sotto, una serie di maglioni che mi facevano quasi sembrare in carne, mentre allora ero (da non crederci) di una magrezza scheletrica. Alle mani, delle manopole di lana, e sopra delle manopole di cotone cerato (per così dire). L’insieme da un lato mi infagottava, rendendo faticoso ogni movimento, dall’altro era talmente inadatto al contatto con la neve, che dopo la prima caduta mi ritrovavo bagnato da capo a piedi e tale restavo fino al ritorno alla pensione.
Facevo parte di un gruppetto di bambini, tutti principianti e un po’ imbranati, affidati alla pazienza angelica di un maestro di nome Karl. Più che una scuoletta di sci, era un asilo infantile; e più che imparare lo sci da discesa, imparavamo ad usare gli sci come mezzo di trasporto.  Il primo giorno, se ricordo bene, lo abbiamo passato in una zona di perfetta pianura, imparando appunto a non permettere che si formasse lo zoccolo sotto gli instabili pezzi di legno e a non cadere per semplice mancanza di equilibrio. Poi è arrivato il campetto: bisognava salire a scaletta una decina di metri di dislivello e scendere, in pochi secondi, a spazzaneve. Solo dopo, con appositi paletti, abbiamo imparato lo spazzaneve a curve che, senza lamine, devo dire, risultava un esercizio piuttosto impervio. Ricordo di essere riuscito, a fine corso, ad accennare a un cristiania a sci quasi uniti: un trionfo.
Una volta acquisiti i principi fondamentali, è arrivato il grande giorno: siamo andati in gita verso Colfosco. Breve discesa con pendenza irrisoria, salita poco faticosa, sosta, discesa e risalita fino alla pensione. Oggi si direbbe sci di fondo. Per noi, un’avventura indimenticabile.
Familiarizzati con lo sci “da passeggio”, siamo stati iniziati allo skilift. Ce n’era uno solo, a Corvara, a quel tempo; del resto c’era anche una sola seggiovia, e gli adulti, quando si erano stufati di fare su e giù per il Col Alto, mettevano le pelli di foca e andavano al Chertz o verso il Gardena.  Ma era uno skilift primitivo. Non c’era un attacco a molla, e il traino avveniva con una T di legno attaccata a una catenella, che veniva agganciata direttamente al cavo di acciaio dell’impianto. La partenza avveniva con uno strappo violento, e prima di riuscire ad adattarmi devo essere caduto una decina di volte, dopo pochi metri. Ma anche dopo aver capito come reggere allo strappo iniziale, cominciava una sorta di tortura. C’erano punti in cui, per l’ondulazione del terreno, il cavo era tropo alto, per cui, essendo troppo piccolo per toccare terra, decollavo, appeso alla breve catenella. Mi trovavo sospeso da terra, in equilibrio instabile e cadevo rovinosamente nell’atterraggio. In altri punti il cavo scendeva raso terra, mi passava praticamente tra gli scarponi, il legno sgusciava da tutte le parti. Era quasi impossibile mantenere l’equilibrio, e nel tentativo di non perdere il traino tutto si risolveva in una caduta e in un patetico trascinamento raso terra finché non riuscivo a liberarmi della maledetta T di legno.
Devo dire che non ero nemmeno il più incapace, e che i miei compagni di corso di solito finivano i tentativi di risalita tra urla e lacrime che il paziente maestro Karl asciugava con un apposito fazzolettone confortandoci in tedesco, che per fortuna capivamo abbastanza bene, perché allora si usavano governanti austriache.
E’ stato solo all’ultimo giorno di quella prima, gloriosa settimana di addestramento, che siamo arrivati tutti, senza cadere, alla fine dello skilift. E da lì, con una risalita un po’ a scaletta e un po’ a spina di pesce, abbiamo finalmente raggiunto una meta ambitissima, il nostro primo rifugio: la Neger Huette, la Capanna Nera, luogo dalle mille delizie.
Oggi i bambini che fanno scuola di sci, alla fine della settimana bianca fanno una garetta e vengono premiati tutti senza distinzione, mentre i genitori filmano la competizione con i telefonini, tra annunci di altoparlanti che magnificano i tempi di discesa. Noi, più modestamente, ma con uguale se non superiore soddisfazione, l’ultimo giorno siamo trionfalmente arrivati alla Capanna Nera, e abbiamo avuto un premio ineguagliabile: una meravigliosa cioccolata calda con la panna. 


da "In Alto", Soc. Alpina Friulana