martedì 7 gennaio 2020


Come arrivai a conquistare la Capanna Nera

Il ricordo delle nevi di una volta, si sa, è sempre favoloso. E infatti, mentre calavamo verso Corvara, dalla macchina  che scendeva da passo Campolongo ricordo di aver visto, affascinato, due muraglie altissime, quasi si fosse miracolosamente aperto un varco in una enorme massa di neve, come per Mosé al passaggio del Mar Rosso. E certo, di neve ce n’era proprio tanta, negli inverni degli anni '50. Ma le giornate di quel primo anno sugli sci sono state radiose, il sole faceva sciogliere la neve sul tetto, e nella mansarda della scalcinata pensione in cui alloggiavamo un catino raccoglieva l’acqua che sgocciolava dal soffitto malandato.
Tempi difficili, c’erano pochi soldi, negli anni del dopoguerra; ma i miei genitori non avrebbero rinunciato allo sci per nulla al mondo. Così ci si doveva adattare: stanze umide, cibo scarso (brodini, fettine di carne trasparenti, qualche patata) e ai piedi sci e scarponi ereditati da amici più grandi. Gli scarponi, di vecchio cuoio, malgrado fossero stati debitamente unti di grasso di foca, si bagnavano dopo una sola ora d’uso. Gli sci, provvisti dei mitici attacchi Kandahar, con molla posteriore, erano dei legnacci marrone senza lamine che – poiché la plastica non era ancora stata inventata – avevano come soletta una mano di vernice rossa, alla quale la neve fresca si attaccava tenacemente. Dopo i primi tentativi, durante i quali sotto gli sci si erano formati degli zoccoli  che non permettevano di muovere un passo, ho capito che l’unica era di infilare velocemente gli attacchi e cominciare a muovere freneticamente gli sci avanti e indietro, in modo che lo zoccolo non si formasse.
 Addosso avevo dei pantaloni di lana niente affatto impermeabile; per difendermi dai rigori invernali indossavo una giacca a vento di semplice cotone impermeabilizzato, ma sfoderato. Sotto, una serie di maglioni che mi facevano quasi sembrare in carne, mentre allora ero (da non crederci) di una magrezza scheletrica. Alle mani, delle manopole di lana, e sopra delle manopole di cotone cerato (per così dire). L’insieme da un lato mi infagottava, rendendo faticoso ogni movimento, dall’altro era talmente inadatto al contatto con la neve, che dopo la prima caduta mi ritrovavo bagnato da capo a piedi e tale restavo fino al ritorno alla pensione.
Facevo parte di un gruppetto di bambini, tutti principianti e un po’ imbranati, affidati alla pazienza angelica di un maestro di nome Karl. Più che una scuoletta di sci, era un asilo infantile; e più che imparare lo sci da discesa, imparavamo ad usare gli sci come mezzo di trasporto.  Il primo giorno, se ricordo bene, lo abbiamo passato in una zona di perfetta pianura, imparando appunto a non permettere che si formasse lo zoccolo sotto gli instabili pezzi di legno e a non cadere per semplice mancanza di equilibrio. Poi è arrivato il campetto: bisognava salire a scaletta una decina di metri di dislivello e scendere, in pochi secondi, a spazzaneve. Solo dopo, con appositi paletti, abbiamo imparato lo spazzaneve a curve che, senza lamine, devo dire, risultava un esercizio piuttosto impervio. Ricordo di essere riuscito, a fine corso, ad accennare a un cristiania a sci quasi uniti: un trionfo.
Una volta acquisiti i principi fondamentali, è arrivato il grande giorno: siamo andati in gita verso Colfosco. Breve discesa con pendenza irrisoria, salita poco faticosa, sosta, discesa e risalita fino alla pensione. Oggi si direbbe sci di fondo. Per noi, un’avventura indimenticabile.
Familiarizzati con lo sci “da passeggio”, siamo stati iniziati allo skilift. Ce n’era uno solo, a Corvara, a quel tempo; del resto c’era anche una sola seggiovia, e gli adulti, quando si erano stufati di fare su e giù per il Col Alto, mettevano le pelli di foca e andavano al Chertz o verso il Gardena.  Ma era uno skilift primitivo. Non c’era un attacco a molla, e il traino avveniva con una T di legno attaccata a una catenella, che veniva agganciata direttamente al cavo di acciaio dell’impianto. La partenza avveniva con uno strappo violento, e prima di riuscire ad adattarmi devo essere caduto una decina di volte, dopo pochi metri. Ma anche dopo aver capito come reggere allo strappo iniziale, cominciava una sorta di tortura. C’erano punti in cui, per l’ondulazione del terreno, il cavo era tropo alto, per cui, essendo troppo piccolo per toccare terra, decollavo, appeso alla breve catenella. Mi trovavo sospeso da terra, in equilibrio instabile e cadevo rovinosamente nell’atterraggio. In altri punti il cavo scendeva raso terra, mi passava praticamente tra gli scarponi, il legno sgusciava da tutte le parti. Era quasi impossibile mantenere l’equilibrio, e nel tentativo di non perdere il traino tutto si risolveva in una caduta e in un patetico trascinamento raso terra finché non riuscivo a liberarmi della maledetta T di legno.
Devo dire che non ero nemmeno il più incapace, e che i miei compagni di corso di solito finivano i tentativi di risalita tra urla e lacrime che il paziente maestro Karl asciugava con un apposito fazzolettone confortandoci in tedesco, che per fortuna capivamo abbastanza bene, perché allora si usavano governanti austriache.
E’ stato solo all’ultimo giorno di quella prima, gloriosa settimana di addestramento, che siamo arrivati tutti, senza cadere, alla fine dello skilift. E da lì, con una risalita un po’ a scaletta e un po’ a spina di pesce, abbiamo finalmente raggiunto una meta ambitissima, il nostro primo rifugio: la Neger Huette, la Capanna Nera, luogo dalle mille delizie.
Oggi i bambini che fanno scuola di sci, alla fine della settimana bianca fanno una garetta e vengono premiati tutti senza distinzione, mentre i genitori filmano la competizione con i telefonini, tra annunci di altoparlanti che magnificano i tempi di discesa. Noi, più modestamente, ma con uguale se non superiore soddisfazione, l’ultimo giorno siamo trionfalmente arrivati alla Capanna Nera, e abbiamo avuto un premio ineguagliabile: una meravigliosa cioccolata calda con la panna. 


da "In Alto", Soc. Alpina Friulana

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