lunedì 24 maggio 2021

 

LA FANTASIA E’ MEGLIO DELLA REALTA’

 

Quando Pierre Javelin, dipendente dell’Istituto nazionale per la bellezza e l’estetica, dopo una giornata passata a vendere cosmetici torna a casa, scopre che la sua chiave non funziona più, e che in casa sua si è installata una coppia che sostiene di abitare lì’ da sempre. Quando telefona alla moglie, lei ha il tempo di dire poche parole e la linea cade. Quando va in ufficio non riesce a fare la sua firma. Il protagonista della Città senza cielo, di Jean Malaquais, edizioni Cliquot, ha perduto la sua identità e non la ritroverà più.

Si tratta di un romanzo distopico, ambientato in un sistema chiuso, la Città, dove le case sono così alte che non si può vedere il cielo, e dove domina una burocrazia misteriosa e occhiuta, che controlla tutto. Le persone che Javelin incontra assomigliano ai personaggi del Castello dI Kafka: allusivi e licenziosi, sanno ma non dicono, conoscono i problemi di Javelin ma o non vogliono o non possono aiutarlo veramente. Lo vediamo confrontarsi con i nuovi inquilini di casa sua, l’enorme signor Bomba e la sensuale moglie Kouka, la sua direttrice, l’imperscrutabile signorina Limbert, il persecutorio controllore Babitch (che non possiede nemmeno una sedia), la cameriera dell’albergo dove si rifugia, con l’insopportabile nipote Horace e l’unico essere affettuoso, il gatto Simon.

In un insensato vagare tra l’Istituto nazionale di idiosincrasia applicata, l’Istituto nazionale della calza indistruttibile, l’Istituto nazionale dei sigilli e delle stimmate, uffici che lo accusano di far finta di essere chi non è, e lo dichiarano inesistente, o morto, Javelin dovrà accettare che la sua identità è stata cancellata per sempre.

Il libro, uscito in Francia nel 1953, ha avuto una importante prefazione di Norman Mailer e l’autore, morto nel 1998, scrive in francese ma è di origini polacche.  Colpisce, leggendolo oggi, il taglio narrativo, vicino a un filone di fantascienza psicologica che ha avuto un momento di vitalità ma forse è stato dimenticato troppo presto. Conta che il libro ha sostanza, perché mette insieme una scrittura affinata e inventiva, lo schema di una società dove vigono regole incomprensibili e i ritratti di personaggi che hanno rilievo pur essendo, per certi versi, bidimensionali.

 

Gli accosto Il mio nome è mostro, di una giovane scrittrice britannica, Katie Hale, uscito da liberilbri. Anche questo è un libro che si inserisce in un filone ben preciso: quello dei racconti del dopobomba, in cui pochi sopravvissuti (qui sono due donne), occasionalmente rifugiati in sotterranei isolati, abitano un mondo distrutto da una guerra e da un’epidemia che ha eliminato il genere umano.

Se lo schema è noto (basti pensare a Dissipatio H.G. di Morselli), lo svolgimento invece è originale. Perché la prima parte del libro è scritta in prima persona da una donna, abituata alla solitudine da sempre, quasi asessuata, che ha un passato di vera misantropia, con buone doti pratiche e quindi capace di organizzare la vita alla Robinson, che costruisce lentamente una parvenza di normalità. Ma la seconda parte è scritta dalla sua Venerdì: una bambina, una enfant sauvage, che è vissuta senza rapporti col mondo, chiusa in una clinica sotterranea, che conserva solo vaghi ricordi del mondo di prima.

Il racconto è quindi insieme quello della vita delle ultime due rappresentanti dell’umanità che cercano di arrangiarsi, e insieme il processo di crescita e di conquista del linguaggio della bambina selvaggia.

Questi due libri hanno il pregio di essere di facile lettura, ma qualcuno storcerà il naso dicendo che fanno parte di filoni più o meno fantascientifici, e per di più già molto coltivati. Leggendoli, però, si ha la piacevole sensazione di essere usciti da una palude di scritture del tutto sprovviste di fantasia, come sono la maggior parte dei libri usciti negli ultimi anni, in particolare in Italia. Qui invece viene affrontata una sfida, quella di lavorare al di fuori del reale, che merita attenzione. Perché la scrittura che ripete esperienze personali, nel mondo che viviamo tutti i giorni, anche intense, ma banalmente inserite nel quotidiano, spesso non riesce a uscire dalla dimensione diaristica. Mentre lo sforzo di immaginare mondi altri, personaggi del tutto immaginari è, in fondo, il vero ruolo della letteratura. Perché le narrazioni intimistiche, magari arricchite con segnali della contemporaneità – messaggi digitali, posta elettronica – ci parlano di cose che conosciamo molto bene; forse troppo. Ma raramente mettono in discussione il mondo in cui si svolgono. I libri di cui parliamo qui, invece, mettono in scena (uno con grande preveggenza) i difetti di equilibrio della nostra era. E di fronte ai quali la nostra propensione a coltivare la narrazione intimistica non solo non giova, ma forse finisce per svolgere la funzione di distrarci dai veri problemi del vivere. 

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