venerdì 1 maggio 2015

IL GIORNALISMO CULTURALE E LA CULTURA DIVERGENTE

C'era una volta la Cultura con la C maiuscola. Erano tempi in cui solo una ristretta élite rappresentava la parte di un paese che si esprimeva in pubblico, che aveva gli strumenti necessari per parlare, scrivere, fare arte e musica e, in definitiva, per determinare le scelte di una nazione. Anche nelle democrazie moderne, a lungo, c'è stata un'oligarchia della conoscenza, una piccola percentuale della popolazione destinata a detenere gli strumenti di trasmissione del sapere come del potere.
Nella seconda metà del '900 si è fatta strada una nuova definizione di cultura, per così dire con la c minuscola. E' quella che, invece di riferirsi soltanto alle zone di produzione creativa intellettuale ed artistica, si riferisce più ampiamente all'insieme di valori, di usi, di comportamenti, di tradizioni e di espressione estetica che sono patrimonio comune di un intero popolo, e non delle sole élites. Ha avuto inizio così un cambiamento che, allargando a tutta la popolazione di un paese la base produttiva di fenomeni culturali, produce la nuova identità di una nazione.
Qualche anno fa Henry Jenkins, in Cultura convergente (Apogeo, 2007), descriveva il rapporto interattivo tra vecchi e nuovi media come un processo che porta i diversi mezzi di comunicazione a fondersi tra loro e mette in comunicazione i due livelli di cultura di cui abbiamo parlato. Un processo che avrebbe, secondo l’autore, liberato nuove energie culturali e intellettuali, in particolare per la democratizzazione della produzione di informazione e sapere che si è aperta con il diffondersi dell’uso della rete.  
Questo nuovo modo di intendere la cultura ha naturalmente inciso sul giornalismo culturale. E avrebbe dovuto incidere anche sul giornalismo in generale e sulla comunicazione di massa nel suo insieme. Il passaggio da una comunicazione di massa, fatta però con criteri di élite, a una comunicazione veramente aperta a tutto il corpo sociale, avrebbe dovuto provvedere ciascuno di un bagaglio conoscitivo tale da rendere tutti preparati al compito di essere cittadini partecipi e consapevoli.
Cos’è accaduto, invece? C’è stato, per usare un termine medico, una sorta di effetto paradosso. La democratizzazione si è dimostrata illusoria perché, invece di aprire il rimescolamento e la compenetrazione di due universi poco permeabili, i cambiamenti e i nuovi media hanno fatto sì che la cultura alta si sia, per certi versi, ulteriormente isolata e la cultura bassa abbia avuto un’involuzione deteriore. La alta continua ad avere un suo spazio, è poco incline ad aprirsi a un pubblico non specializzato e agisce in un universo chiuso. Mentre la bassa si è ulteriormente adeguata al livello più corrivo della comunicazione commerciale, rinunciando a puntare all’apertura ai più del pensiero della comunità intellettuale, ma occupando in compenso buona parte dell’area una volta occupata dalla alta.
Le culture sono divergenti, come lo sono i mezzi di comunicazione. Da un lato la cultura di élite, sui supplementi di quotidiani, e alcuni dei blog più interni alla società culturale; dall’altra i media popolari e la rete, con una massa di interventi senza filtro, dove tutto si confonde, dove non esiste la mediazione dell’esperto autorevole, dove non c’è separazione tra il professionista e il mitomane, dove il flusso di commenti generici del lettore occasionale si fonde con la recensione del critico militante. Un frullato dove tutto è altrettanto, democraticamente, significativo e quindi, necessariamente, irrilevante. Perché la mancanza della mediazione non produce una convergenza tra le culture e i mezzi, ma anzi ne accentua la divergenza.
Qui, secondo me, è il nodo; e da qui, a mio avviso, parte una modificazione che, paradossalmente, cercando di democratizzare l’informazione culturale, la sta uccidendo.
Per concludere, tornando alla situazione attuale, penso che il giornalismo culturale sia una specializzazione in via di estinzione. Naturalmente rimangono isole felici, specie nei grandi quotidiani e nei loro supplementi (La lettura, Il domenicale del Sole, Tuttilibri, Alias ecc.), dove è ancora vitale e combattivo, con firme autorevoli e giornalisti impegnati, che apprezziamo e invidiamo; ma nei giornali minori, e soprattutto nel giornalismo radiotelevisivo, sempre più spesso le redazioni culturali vengono accorpate con le redazioni della società o dello spettacolo, riducendo e spesso eliminando lo spazio dedicato ad argomenti specificamente culturali, producendo redazioni meno specializzate e competenze più ampie ma più superficiali. La notizia curiosa, la spigolatura, il particolare divertente, il pettegolezzo culturale, la vita privata dei protagonisti della società letteraria sono quello che tende a determinare le scelte di chi confeziona i notiziari.
E’ un modello che privilegia la costruzione del personaggio, una sorta di star system della cultura, dove attorno ai divi dell’intellighenzia, quelli che appaiono in tv, si devono costruire delle storie, una narrazione. Al posto dell’analisi, della critica, dell’esposizione di contenuti, lo storytelling.
Né, a me pare, può essere la rete a sostituire quello che il giornalismo culturale ha significato fino a qualche anno fa. Da un lato perché in rete troviamo le pagine web dei giornali, fatte con lo stesso criterio della carta stampata, sia pure con più ritmo e con l’inserimento di filmati; e dall’altro perché in rete si trovano siti culturali – cito, per tutti, Minima & moralia  – che hanno contenuti e struttura assimilabili a quelli delle riviste su carta, e blog, anche curiosi, dove prevale l’intervento spontaneo di chi non troverebbe spazio altrove. Salvo rare eccezioni, la rete è effettivamente il luogo della massima libertà, dove fluisce quasi senza controlli e senza censure l’opinione di chiunque abbia voglia di esprimersi. Proprio per questo, però, non può essere il luogo dove si esercita il giornalismo culturale, dove chi ha autorevolezza e può diffondere aggiornamento e cultura svolge il suo ruolo, formativo e informativo.
Vi prevale quella che Lella Mazzoli ha definito una “comunicazione discorsiva”, un fluire di onesto chiacchiericcio, in un frullato di prodotti dell’ingegno in cui è difficile distinguere il grano dal loglio. Dove You tube non apre tanto la possibilità di avere notizie di prima mano quanto piuttosto il diffondersi di deliziosi filmati di gattini; dove Anobii non conforta il lettore con rigorosi ragionamenti sulla qualità dei libri in circolazione, ma ci informa sulle letture di singoli esibizionisti che vogliono farci conoscere le loro abitudini letterarie. Dove invece di avere ragionate recensioni abbiamo risentimenti di studenti frustrati che si sentono finalmente autorizzati a stroncare le letture dei classici raccomandate dai professori.
Eppure, io credo che il giornalismo culturale avrebbe ancora una funzione: quella di mettere più cultura in tutto il processo informativo, di fornire un servizio. Servizio è dare informazioni le più oneste possibile sugli avvenimenti, sui prodotti, sui dibattiti culturali; spiegare bene cosa c’è in una mostra, limiti e qualità, elementi di pregio e dettagli scadenti. Servizio è una recensione scritta da un critico che dica ai lettori cosa veramente pensa dei libri che legge; che metta in guardia il lettore che non ha la sua competenza dai successi ingiustificati e dagli scrittori sopravvalutati. Servizio è dare notizia del dibattito che si sviluppa nel paese sui temi più importanti, seri o lievi che siano, con onestà, senza cedere al sensazionalismo e alle interpretazioni forzate per produrre curiosità pruriginose. Servizio è mettere a disposizione del maggior numero di persone il maggior numero di informazioni che possano sviluppare l’interesse critico e la riflessione analitica della collettività.
Qualcuno dirà che, in un paese in cui gli scandali si susseguono incessantemente, l’amministrazione dello stato è in mano a conventicole di corrotti e il parlamento è popolato di indagati, non ha senso porsi il problema di come funziona l’informazione culturale. Personalmente, però, penso che i due campi non siano disgiunti, ma strettamente legati. E che se la nostra classe dirigente è impresentabile, è anche perché il giornalismo culturale è in crisi, e quindi la cultura media degli elettori resta modesta. Un paese dove non ci si preoccupa che le informazioni culturali circolino, raggiungano il maggior numero possibile di persone, escano dal circuito elitario della società delle lettere e dell’accademia, è un paese dove la democrazia stenta ad affermarsi. E’ quello che accade in Italia, e si vede.

Sintesi della relazione introduttiva al
Festival del giornalismo culturale di Urbino,

23 aprile 2015

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