martedì 23 maggio 2017

L’ITALIA E’ IN DECLINO, ED E’ COLPA MIA

Ebbene sì, lo ammetto: scrivo con un po’ di astio. Ma ho aspettato apposta che passasse il tempo, che il risentimento si affievolisse, che le mie osservazioni non suonassero solo rivalsa e acredine vendicativa. Ma questa non la digerisco stesso. Vedete voi.
Il 21 febbraio di quest’anno, sulle pagine della cultura di Repubblica, Michele Ainis se n’è uscito con un articolo intitolato Il circolo vizioso delle leggi (e dei libri), in cui denunciava una drammatica decadenza della cultura come delle istituzioni nazionali. E alla base di questa decadenza (“Le prove? Basta volgere lo sguardo sulla pubblicistica…”) ci sarei io, con i miei Centolibri, un volume di tre anni fa che, per i molti che non ne sanno giustamente niente, elencava e riassumeva i classici più popolari in Italia.
Il ragionamento di Ainis, grosso modo, era questo: oggi i libri non parlano più della vita, ma si limitano a rimasticare pagine già scritte, raccontando male storie che, così, non servono più a nulla. Così i libri diventano autoreferenziali, citano dei titoli a caso, e magari dimenticano l’Odissea. E non sono romanzi che parlano di altri romanzi, come quelli di Calvino o di Borges, ma proprio libri che parlano di altri libri. Uno scandalo.
Per fortuna che per Ainis condivido questa grave responsabilità con Nick Hornby, Gian Arturo Ferarri e altri autori ben più importanti di me. Ma il risultato è lo stesso, perché Ainis sostiene che, di questo passo, con l’affermarsi di libri “falsi, artificiosi, che trasudano d’un sapere libresco” (per forza: libri che parlano di libri non possono che essere libreschi), la letteratura perde forza narrativa, e “fuori lo sguardo si allarga su un deserto”. Ora attenzione, il passo successivo è importante: “Ne è prova l’impoverimento della nostra sfera pubblica”. E qui Ainis descrive l’assenza di progettualità, la povertà del dibattito pubblico, il vaniloquio dei programmi tv, l’uso proprietario dello stato da parte di partiti e l’eccessivo numero di leggi in vigore. Qui la dura accusa: “Il cerchio di chiude: se i libri parlano di libri, anche i politici parlano soltanto dei politici”. Conclusione: nessuno scriverebbe più i Finnegan’s Wake, perché oggi la moda è il libro sul libro.
Ora, chi ritenesse che il passaggio dall’esistenza di libri mediocri al declino delle istituzioni in Italia sia un salto logico, sbaglia: si può benissimo dire che il declino della cultura finisce per riverberarsi nel declino dello stato. Personalmente sono tanto d’accordo che lo predico (inutilmente) da anni.
Quello che a me sembra davvero difficile da sostenere è che l’esistenza di libri che parlano di libri sia un fattore di declino. E quando sarebbe cominciato? Con Fozio, che elencava diligentemente i libri della sua biblioteca, o bisogna arrivare a De Santis, Croce, o alla critica contemporanea?
E’ dall’antichità che, per nostra fortuna, ci si interroga sul valore e sulla capacità di trasmettere conoscenza dei libri che ci hanno preceduti. Il fatto che ci siano libri che parlano di libri non soltanto non è un sintomo di declino, non soltanto non impedisce che nascano nuovi Joyce, e che si sperimenti tutto lo sperimentabile, ma  è anche il segno che la cultura è viva, perché i libri che parlano di libri sono semplicemente la garanzia che i libri non muoiano, vengano riletti e analizzati, e rivivano nella loro continua rivisitazione critica.

Non vale, probabilmente, per i miei Centolibri: troppo poca cosa persino per l’attenzione che Ainis dedica loro. Ma poco male. Quello che credo di poter affermare è che, se l’Italia è in declino, non è colpa mia. Ne sono quasi sicuro.

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