lunedì 6 aprile 2020



L'INCANTAMENTO DIGITALE
E IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA

Per un curioso paradosso negli Stati Uniti, il paese che è sempre stato in prima linea nelle innovazioni tecnologiche e nello sviluppo dei media, si sono diffuse le critiche più radicali – e spesso superficiali – dei processi in atto. Non ci ricordiamo nemmeno più dei Persuasori occulti, di Vance Packard, che alla fine degli anni Cinquanta ci metteva in guardia dalle forme più subdole di pubblicità e pure ha avuto grande diffusione; si sono persi nel tempo gli studi apocalittici sullo sviluppo della comunicazione televisiva, come i Tre topolini ciechi, di Ken Auletta; per venire a oggi, è dall’America che vengono i più duri atti d’accusa al Web e ai suoi effetti, a cominciare da quello di Nicholas Carr, col suo Internet ci rende stupidi? , per arrivare a Proust e il calamaro e il più recente Lettore, vieni a casa, di Maryanne Wolf.
Sono libri che soffrono di un taglio divulgativo che non si propone tanto di indagare in profondità, quanto di indirizzarsi piuttosto verso una critica superficiale e umorale. Un saggismo che tiene conto soprattutto delle posizioni tradizionalistiche degli ambienti accademici, e rappresenta una sensibilità conservatrice, che affonda le sue radici in una lettura forse un po’ approssimativa della scuola di Francoforte.
Sarà per la solida tradizione umanistica, che in Italia informa anche gli studi di sociologia della comunicazione, ma è da noi che, spesso, arrivano i lavori più originali e aggiornati sui nuovi media. Il più recente è un libro scritto a quattro mani da Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini, La cultura orizzontale, edito da Laterza. Originalità che inizia dal titolo, che rappresenta la prospettiva con la quale gli autori guardano al modo in cui si organizza, oggi, la trasmissione delle cultura e del sapere. Una trasmissione ad andamento orizzontale, appunto, senza intermediazioni, che ha obliterato le professioni e le competenze e ha “scardinato il sistema di accesso alla conoscenza a cui eravamo abituati”. Ma questo è un dato di fatto, non un giudizio, e il libro è un’indagine senza pregiudizi, che parte da un’analisi obiettiva di come è cambiato il paradigma dei processi comunicativi nell’epoca della comunicazione digitale, focalizzata in particolare sui comportamenti giovanili.  
Di fronte allo straordinario flusso di informazioni veicolato dalla rete, notano gli autori, dobbiamo tener conto da un lato dell’arretratezza degli intellettuali, chiusi in un sapere autoreferenziale, e dall’altro di  un’alfabetizzazione incompiuta. Malgrado l’alto livello mondiale di scolarizzazione, l’ignoranza non ha mai esercitato tanto fascino come oggi. Colpa della rete? Anche, ma anche di una crisi di autorevolezza delle istituzioni, che non hanno avuto la capacità di cogliere i segnali di cambiamento. La rete dunque mette a disposizione una quantità di dati finora inimmaginabile, illusoriamente gratuiti, ma ai quali si arriva spesso in modo non intenzionale, e non è facile avere gli strumenti per decifrarli, organizzarli e leggerli con competenza. C’è ancora, dunque, la necessità di mediazione; perché la rete è un ambito di grande libertà, ma “non predisposto alla parità delle condizioni di partenza”. E quindi “qualcosa della verticalità rimarrà”, dicono gli autori, perché acquisire informazioni, di fronte al surplus cognitivo, necessita di un mediatore, che permetta “una appropriazione controllata delle forme culturali”. E’ difficile però immaginare chi saranno i mediatori del futuro. Certo non quelli del passato, e se i giornalisti e gli intellettuali hanno ancora un ruolo, oggi si trovano in competizione con i nuovi attori della cultura orizzontale, dagli influencers agli yuoutubers, dai bloggers agli stessi potentissimi motori di ricerca.
Il libro dà conto, con un’indagine approfondita, di come la comunicazione digitale sta cambiando i diversi comparti del consumo culturale: dal libro alla tv, dalla musica al videogioco, dalla radio al cinema. Le novità più significative mi pare emergano dall’analisi del modo in cui ci si informa nell’epoca della disintermediazione. Qui il giornalismo tradizionale si trova a confrontarsi con un sistema ibrido,  nel quale le notizie possono arrivare – come anticipato dagli studi di Lella Mazzoli -  attraverso la crossmedialità: dai mezzi più diversi e da fonti spesso non autorevoli, come lo user-generated content. E’ un universo in cui il flusso informativo si mescola con le relazioni dei social networks , in un “circolo narcisistico”, una sorta di conversazione ininterrotta. Interessante la riflessione sul fenomeno del FoMo, Fear of Missing Out, il timore di perdere la connessione, che produce una sorta di malattia conformistica che costringe all’iterazione di contatti tra fruitori che condividono gli stessi interessi e valori.
Solimine e Zanchini, pur essendosi proposti come ambito di ricerca solo le pratiche culturali in rete, con particolare attenzione ai comportamenti giovanili, ammettono che l’essersi formati in periodo pre-internettiano fa correre loro il rischio di cadere in trappole nostalgiche. Malgrado lo sguardo obiettivo, però, la conclusione non può essere ottimistica. Se è vero, come indicato dagli autori, che “il consumo critico di informazione rischia di essere un privilegio di minoranze”, l’orizzontalità può essere un  fenomeno che “stride con il pluralismo che la rete propaganda come sua bandiera”, perché non supera il forte iato tra chi ha e chi non ha gli strumenti per orientarsi nella ridondanza informativa. Qui il libro ci pone di fronte a un elemento di allarme che è ricorso a più riprese, in vari contesti, negli ultimi anni: le correlazione tra l’uso dei nuovi media e la crescente sfiducia nel sistema democratico, nella politica e nelle istituzioni.  Né è facile immaginare chi possa presiedere alla riorganizzazione dei saperi e alla certificazione della veridicità delle informazioni in un universo che rifiuta la mediazione e non riconosce le competenze. Una preoccupazione che gli autori attribuiscono agli studiosi del pensiero classico: che l’incantamento del mondo digitale abbia “l’effetto di inibire il processo di maturazione che avviene nel continente profondo”. Difficile non essere d’accordo. Il prevalere dello sguardo veloce e superficiale è già in atto. La rete non cambia solo il flusso della comunicazione; ci cambia dentro, tutti.

Mi permetto di aggiungere una mia riflessione. Mi pare certo è che l’orizzontalizzazione  non stia aprendo la strada di una nuova democrazia della cultura, ma che ci sia il rischio invece che apra due percorsi, uno politico e uno sociale, ambedue recessivi. Da un lato, con la morte delle ideologie e la crisi dei partiti tradizionali, sembra farsi avanti – non solo in Italia - una classe politica fatta di soggetti che non hanno un progetto proprio, ma elaborano opportunisticamente le proprie strategie elettorali sul modo in cui l’opinione pubblica si aggrega intorno a sensibilità occasionali, legate a campagne stampa spesso basate su notizie imprecise se non false. Dall’altro sembra delinearsi un nuovo tribalismo, costituito da circoli ristretti, concentrati su interessi particolari e su valori acquisiti acriticamente. Una frammentazione, un processo di parcellizzazione sociale che non va nella direzione della modernità, ma a spinte anarcoidi e a un ritorno a fenomeni di rifiuto del principio di responsabilità collettiva e di delega agli organismi costituzionali.
Nel momento in cui dobbiamo proporci di uscire dalla gravissima crisi prodotta dalla pandemia del coronavirus, abbiamo bisogno di ripensare in modo profondo i nostri rapporti con le istituzioni e di elaborare un progetto di società sul quale investire per il futuro. Per farlo, sarà necessario superare i tribalismi e gli opportunismi, perché l’idea che tutto possa tornare come prima è illusoria, ma soprattutto pericolosa.


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