venerdì 10 luglio 2015


IL PORNOLIBRO

Lo so, sono in ritardo, come al solito, terribilmente in ritardo.
Non mi ero accorto che il libro, fino a ieri consumo di un’élite intellettuale,
è improvvisamente diventato merce di consumo popolare. Almeno come simbolo…

Le ultime statistiche dicono che in Italia il numero di “lettori di almeno un libro all’anno” - curiosa categoria che, almeno su base demoscopica, dovrebbe farci risultare un popolo vagamente alfabetizzato – è in diminuzione. Personalmente la cosa non mi stupisce: non si tratta di lettori, ma di acquirenti casuali di un soprammobile da esibire sul tavolino del salotto. Che in tempi di crisi si risparmi su un cosa inutile come i soprammobili, non dovrebbe stupire nessuno. Quello che mi stupisce, invece, è che di alcuni di questi libri si possa continuare a fare pubblica esibizione come si trattasse di letteratura e non di qualcosa che ha a che fare con inconfessabili vizi privati, e cioè di bibliopornografia.
Una precisazione. A cosa ci riferiamo quando parliamo di pornografia? Per il Treccani, “Trattazione o rappresentazione di oggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore”. Insomma, il porno è un modo di rappresentare le cose in modo tale da dare la sensazione di partecipare a qualcosa di invidiabile ma difficilmente realizzabile (partecipare ad atti di sesso sfrenato, nel caso della pornografia sessuale), senza che invece se ne abbia avuto in nessun modo la capacità, il coraggio, o forse nemmeno la volontà.
Ora,  perché dovremmo limitare il concetto di pornografia soltanto all’erotismo? Come il mondo è pieno di seduttori a parole, i salotti sono pieni di madames Verdurin, di lettori velleitari, che poco sanno di lettura e di libri, ma vorrebbero tanto averne familiarità. Pensiamo un momento a cosa significherebbe lo stesso tipo di illusoria partecipazione ad atti altrettanto poco diffusi dell’erotismo sfrenato, come per esempio un rapporto di assidua frequentazione con la lettura. Ne verrebbe fuori una pornografia del libro, una bibliopornografia, una visione edulcorata e del tutto artificiosa, come nel caso della pornografia sessuale, della lettura. Né stupisce che di questa forma di godimento illusorio si siano sviluppati interi filoni, perché in fondo vantarsi della dimestichezza col libro, per qualcuno, è un po’ come per il macho latino vantarsi delle sue conquiste.
Veniamo al sodo. Solidamente in testa alle classifiche dei libri più venduti. Dimmi che credi al destino, di Luca Bianchini, Mondadori, è un accogliente polpettone sentimentale, attraversato dallo spleen di una gioventù in preda a una sfiga insuperabile, io direi metafisica, e a una tendenza alla transumanza internazionale, che ha avuto numerosi precedenti in storie di giovani che vagano per l’Europa; e in questo caso di giovani italiani trapiantati senza particolare motivi a Londra si tratta. Tra le avventure di Ornella, una ragazza un po’ sventata, della sua commessa Clara, preoccupata soprattutto di  curare il suo gatto, di un paio di sfigatoni di contorno e di un napoletano allegro e spiantato di sostegno, la vicenda scorre felicemente e il libro si lascia leggere senza troppi problemi. Un clima un po’ a metà tra i Celestini di Benni e la Belleville di Pennac. Cosa ci porta dunque alla bibliopornografia? Il fatto che Ornella è una libraia, e che tutto si svolge attorno alla sua libreria (italiana) a Londra. Bello, confortevole, illuminante: i libri fanno pensare, aiutano a vivere ecc.
Ma è proprio così? Neanche per sogno. Perché di libri, in questo romanzo, non si parla mai. Sì, si dice che “Diego [il napoletano, n.d.r.] non avrebbe mai immaginato che i romanzi potessero davvero cambiare un po’ la vita”. Ma esempi, niente. E succede che Clara si lanci nell’affermare “C’è sempre l’istante in cui un libro ti chiama”; ma a parte che vorrei sapere qual è, questo istante, ancora una volta sono affermazioni senza riferimenti bibliografici. C’è, è vero, un momento di grande felicità critica in cui Diego consiglia un libro “Perché parlava di Napoli e non era scritto da Erri De Luca”, ma è un esempio isolato. Siamo in una libreria, ma non si parla di libri: non del loro contenuto, non dei loro protagonisti, non delle illuminanti avventure e dei drammi descritti dai classici che dovrebbero avvicinarci al perché della vita. Niente. Solo amorucci e sfiga giovanile.
La libreria come luogo geometrico delle emozioni, delle passioni, degli svelamenti. Del resto altri casi non mancano: Niall Williams, in Storia della pioggia, Neri Pozza, racconta di una ragazza che è confinata a letto, ma sopravvive perché ha tanti libri intorno. E avanti con l’Assassinio in libreria, La libreria degli amori inattesi, Il segreto della libreria sempre aperta e dalla affascinante Libraia dai capelli rossi.
Un ultimo, illuminante esempio. L’apprezzato regista David Cronenberg ha dato alle stampe un romanzo, Divorati, pubblicato in Italia da Bompiani, dove troviamo, all’undicesima riga della prima pagina del testo, questa frase: “Sentiva l’odore dei libri stipati negli scaffali alle loro spalle, avvertiva il feroce calore intellettuale che emanavano”. Sic, si sarebbe scritto un tempo, in nota. Ma oggi val la pena riflettere. Il più andante romanzo pornografico non avrebbe potuto fare di meglio. In fondo se si scrivesse: “Sentiva l’odore dei sessi che si erano uniti nell’alcova alle loro spalle, avvertiva il feroce calore erotico che emanavano”, non si sarebbe discostato che di pochi gradi concettuali da quello che scrive Cronenberg. Il lettore che ne avesse la propensione, è autorizzato alla masturbazione intellettuale quanto il lettore di un sano libro porno è invitato a praticare l’autoerotismo dalla dettagliata descrizione di un atto sessuale.

E’ un problema? E’ una visione snobistica, francofortese, della lettura e della cultura popolare? Spero di no. Perché non c’è niente di male, in definitiva: l’importante è che si legga davvero. E la bibliopornografia ha ancora molto da dirci. 

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