LA NARRAZIONE, AD OGNI COSTO
Ci sono scritti letterari che suggeriscono raffinate analisi sociologiche e saggi che coinvolgono come romanzi. Anzi, forse è il caso di dire che la fusione tra i due generi, oggi sempre più frequente, è la forma di scrittura più feconda. Perché quello che prevale, indipendentemente dal genere dominante, è il racconto, la narrazione, il trascinante progredire di una storia. Ecco qualche esempio recente.
La forma è quella del racconto lungo, ma la sostanza è
teatrale: un unico atto, in più quadri. Il
mondo non mi deve nulla, edizioni e/o, di Massimo Carlotto, ha un ritmo
serrato, è pieno di ironia, e ha una brillante conclusione a chiave.
Il protagonista è un ladro dilettante, il classico esodato
che si ricicla come topo di appartamenti e si imbatte in una bella donna di
origine tedesca, ex croupier che, frodata dei suoi risparmi da una speculazione
sui derivati finiti carta straccia, la vuol fare finita. Sullo sfondo, la
moglie del ladro, la classica piccolo borghese rompiscatole che lo tormenta con
telefonate inconcludenti anche quando è “sul lavoro”.
Il senso del racconto è tutto nei dialoghi tra queste vittime
di due tipici incidenti del nostro tempo. Lui banale, debole, insicuro,
professionalmente (come ladro) del tutto impreparato, ma vitale; lei, teutonica
ma capace di sentimentalismo, elegante e smaliziata, determinata a non morire
povera.
Anche fuori dagli equivoci, dagli incidenti di percorso, dal
lento svelarsi della sostanza dei protagonisti c’è, nel testo, un’allegoria del
presente: può succedere che la bella signora tedesca (la Germania), già ricca,
finisca nelle mani di un malandato nullafacente riminese (l’Italia), e ne
chieda la collaborazione per risolvere i problemi che l’avidità finanziaria può
produrre. Non è facile che finisca così, fuori metafora, ma chissà, dopo i risultati delle europee, non si sa mai.
Un po’ in equilibrio tra letteratura e saggismo antropologico
Mondo piccolo, di Valerio Millefoglie
, Laterza, induce una riflessione che ci lascia piacevolmente incuriositi. Il
sottotitolo, Spedizione nei luoghi in cui
appena entri sei già fuori, illumina sul processo analitico-narrativo.
Entriamo nel ristorante, nella casa, nella discoteca, nel bar, nella prigione,
nell’albergo, nel cinema, nello zoo più piccoli che si possano immaginare. Le
descrizioni sono anodine, non ci sono commenti, niente soddisfatti
bamboleggiamenti su quanto il piccolo possa essere grazioso, delizioso, intimo.
Solo il dettaglio di come luoghi abitualmente grandi possono conoscere versioni
lillipuziane senza perdere le loro caratteristiche originali. E di come ci si
arriva.
E’ una volta conclusa la lettura che ci rendiamo conto che
abbiamo davanti un trattato sulle dimensioni. Perché ci si chiede sempre qual è
la grandezza di un luogo, di un
oggetto, di un fabbricato, e non la piccolezza? Eppure la piccolezza, oltre ad
essere sinonimo di grazia (C’est mignon,
n’est-pas?), è una sfida a ripetere in piccolo quello che nasce per essere
grande. E, come nei modellini, quello che ci lascia stupiti è la possibilità di
mantenere la scala, la precisione del dettaglio. Solo che il modellino è finto,
mentre qui le cose sono vere, ci si entra dentro. Ed ecco che la versione
miniaturizzata ci permette di verificare meglio il senso, la qualità
funzionale, il valore ultimo dell’originale. Niente di peggio che essere
impressionati dalle grandi dimensioni e perdere di vista la funzionalità, la
efficienza, la dimensione umana delle cose. Perché errori stilistici e bellurie
insensate, cadute di gusto e mostruosità nella dimensione macro si perdono, si
perdonano, si obliterano, E’ nella dimensione micro che dimostrano, senza
infingimenti prospettici, la loro vera sostanza.
E’ un saggio, non è un romanzo, L’onesto porco (sottotiolo: Storia
di una diffamazione), di Roberto Finzi, Bompiani, ma si legge come un’opera
di brillante intrattenimento. Perché del povero porco c’è veramente tanto da
dire, specie dopo macellato, perché “Puossi rassomigliare a’virtuosi, quali
vivi sono mal trattati, ma morti desiderati et honorati” (Vincenzo Tanara,
1644). Di quanto siano deliziosi salsicce, salami, prosciutti, mortadelle, braciole,
zamponi, cotechini e salama da sugo. Ma anche di come, da vivo, sia meno sporco
di quanto si pensi e, anche se usato come metafora del male e del diabolico,
sia in fondo animale intelligente e mansueto.
Finzi trova le citazioni dei grandi che ne hanno scritto, da
Aristofane a Bonvesin della Riva, da
Folgòre da San Gemignano al Boccaccio. Ripercorre le proibizioni alimentari,
che risultano peraltro infondate, e l’uso ingiurioso del nome, anche questo spesso
incongruo. Troia, per esempio,
termine oggi terribilmente infamante, pare derivi da una ricetta per la maiala ripiena, come lo era il
cavallo degli achei, pietanza per niente traditrice e assai prelibata.
La panoramica delle citazioni dotte non può non concludersi
con il dialogo immaginato da Plutarco tra Ulisse e Grillo (uno dei greci
tramutati da Circe in maialoni, ominosa visione). A Ulisse, che gli chiede se
non vuole tornare uomo, il Grillo-maiale risponde con parole alate e definitiva
saggezza: “Preferisco essere un maiale contento della mia sporcizia piuttosto
che un uomo debole, vanaglorioso, leggero, maligno, ipocrita e ingiusto”. Forse è vero. Meglio un giorno da maiale…
Da "L'immaginazione", aprile 2014