giovedì 7 marzo 2019


BATTIATO, LA LETTERATURA 
E LA GRANDE SFIGA GIOVANILE

Curioso, però, che Battiato abbia lasciato segni tanto significativi in diverse generazioni di giovani. Ma se ne trovano tracce diffuse, e questo dovrebbe pur dire qualcosa, visto che si tratta di un cantante che è stato anche un poeta e – al seguito di Sgalambro - un po’ un pensatore, di taglio mistico-esoterico. Lo cita Enrico Brizzi, nel suo Tu che sei di me la miglior parte (Mondadori), quasi a dare un segno interpretativo a un racconto tutto in presa diretta, senza riflessioni né valutazioni morali. La storia è quella di un gruppo di amici, raccontata dall’infanzia a una gioventù senza maturazione, con i passaggi dai primi turbamenti del protagonista, molto ben inserito in una famiglia tanto disordinata quanto sincera, fino a una spirale di devianza e di conflitti, un po’ di sesso e qualche momento di violenza.
I piccoli cannibali crescono, e dai tempi di Jack Frusciante qualcosa è cambiato, ma la chiave del narrare di Brizzi rimane fondamentalmente la stessa. Se le vicende sono rese con una partecipazione affettuosa e ironica, la sostanza resta quella del diffuso filone della Grande Sfiga Giovanile. Un modello narrativo che va dall’autocoscienza dei gruppi di compagni di scuola fino al girovagare senza meta di chi, finita la scuola, si è ritrovato senza né sogni né desideri, in un mondo che permette di sopravvivere e persino di fare esperienze, ma non di vivere autenticamente. Succede anche ai protagonisti di quest’ultimo libro, che seguiamo con simpatia nella loro lenta discesa verso il nulla, pieni di baldanza giovanile e fragile ingenuità. I primi amori, la scoperta del sesso, la voglia di avere e di essere, lo sballo, soldi facili, qualche sosta in carcere, il distacco e la negazione di valori consunti.
Credo che Brizzi abbia descritto, ancora una volta, con precisione e partecipazione, i riti di passaggio della sua generazione. A me però sembra che resti ancorato a una visione quasi estatica di un vuoto di contenuti. Quasi che i suoi protagonisti non avessero nessuno strumento per interpretare la realtà, come invece ogni generazione non può evitare di produrre.

La traccia di Battiato che usa Francesco Piccolo, invece, sta proprio nel titolo del suo L’animale che mi porto dentro (Einaudi), ma il modello narrativo è tutt’altra cosa. Qualcuno parlerà di autofiction, ma a me pare più evidentemente un’autobiografia. Piccolo non prende mai distanza dal suo racconto, parla sempre e solo di sé, senza né falsi né veri pudori, e senza che la trasfigurazione letteraria trasformi l’esperienza personale in narrazione romanzesca.
 Anche qui abbiamo un racconto di formazione, dall’infanzia ai primi turbamenti sentimentali e alle prime esperienze erotiche, fino a un’autoanalisi, che si vuole spietata, del proprio essere incapace di uscire da un’educazione violenta e dall’abitudine a vivere gli impulsi e i condizionamenti del “branco”. Tutto il libro è una descrizione dell’impossibilità di superare lo stereotipo del comportamento virile, del cinismo e della animalità nella visione del sesso e del senso di appartenenza a un mondo fatto di bullismo, prevaricazione, menzogna e brutalità.
Non si può non leggere con partecipazione la descrizione di una crescita segnata dalla vita della provincia meridionale, da un padre violento, da aggressività incontrollata nello sport, da acne adolescenziale, da ansia di integrazione alle bande giovanili, fino all’esibizione delle conquiste femminili e ai rapporti sessuali come prova di forza.
Piccolo intervalla la descrizione della propria impulsività con le esperienze estetiche: Malizia di Samperi, il Sandokan di Salgari, il Padrino, il fumetto di Lando, Amore senza fine di Zeffirelli, Houllebecq e la canzone napoletana. Sono intermezzi che descrivono il Piccolo-protagonista come uomo capace di proiettare il proprio io nei canoni della narrazione popolare e nel consumo della cultura di massa. Se si supera l’imbarazzo per il fatto che la parola c….o ricorre con una frequenza quasi superiore a quella delle congiunzioni, se ne trae un ritratto forse sincero, ma corrucciato e inquietante di come anche l’intellettuale più esercitato all’uso di strumenti di analisi psicologica possa avere difficoltà a controllare impulsi primordiali. Ed è curioso come, proprio nella descrizione di questo machismo incontrollato, lo scrittore-protagonista guardi a se stesso con un sentimentalismo quasi altrettanto ingenuo e compiaciuto.
La sensazione è che neppure Francesco Piccolo sia sfuggito al canone della Grande Sfiga Giovanile, ma l’abbia fatto redigendo un’autobiografia di voluta spudoratezza e – nel suo caso - di esibito autocannibalismo. E lascia il dubbio che le autobiografie dovrebbero essere consegnate a un tempo futuro, in cui esperienze e veemenze siano state elaborate e metabolizzate fino in fondo.

                                                                        Da "L'immaginazione", marzo 2019