martedì 27 giugno 2017

CHE DISGRAZIA, SE NON CI FOSSE IL FANTASTICO

Ho simpatia e stima per Edoardo Boncinelli per cui, quando ho visto che aveva pubblicato un articolo intitolato Contro il fantasy (La lettura, 25/6/2017), mi sono compiaciuto perché a me il fantasy, diciamo la verità, mi è sempre stato sullo stomaco. Ho un pregiudizio di fondo, lo confesso, ma le saghe di elfi e altri esserini magici, ambientate in società primitive, pretecnologiche, dominate da angosciose monarchie assolutistiche mi hanno sempre lasciato freddo e un po’ annoiato. Se anche Boncinelli mi sostiene in questa mia idiosincrasia, mi son detto, forse riuscirò a convincermi che sono nel giusto e che il mio non è un pregiudizio, per l’appunto.
Purtroppo non è andata così. Dopo un inizio brillante, e dopo aver giustamente distinto la fantasy dalla fantascienza, dove “gli eventi rispettano sempre un filo di coerenza tecnico-scientifica”, lo scienziato Boncinelli ha preso il sopravvento e si è lanciato in un’apostrofe che finisce per mescolare fantasy e fantastico in un giudizio estremamente negativo che, lo dico sommessamente, mi risulta poco convincente.
“Nelle storie fantasy”, argomenta Boncinelli, “tutto è magia, ovvero il contrario della scienza, in un crescendo di inverosimiglianza”. E continua dicendo che probabilmente questo rappresenta il massimo dell’evasione, e arriva a dire che il magico costituisce l’emblema del disimpegno e della deresponsabilizzazione, le stesse istanze che hanno portato il romanticismo a disintegrare l’illuminismo. La conclusione ha toni apocalittici, perché per Boncinelli non è difficile “trovare un nesso tra tutto questo e il dilagare del ricorso alle medicine alternative (…) e all’imperversare del complottismo come spiegazione degli eventi più diversi”.
Ora, è vero che una potente ventata di irrazionalismo ha colpito i nostri tempi, dal rifiuto dei vaccini alle scie chimiche, per passare, appunto, per i complotti più stravaganti e finire col ritenuto falso allunaggio del ’69. Ma attribuire la colpa di tutto questo alla letteratura fantastica mi sembra decisamente esagerato: non sarà invece il portato del sapere “disintermediato” che caratterizza la diffusione dell’informazione in rete? Perché la letteratura che è “tutto il contrario della scienza” non è intrattenimento irrazionale, ma un potente strumento per parlare della realtà con altri  mezzi. Basta pensare a cosa perderemmo se Poe non avesse scritto i suoi racconti fantastici, che cosa sarebbe il mondo senza Kafka, come potremmo vivere senza i poco razionali viaggi in ippogrifo di Ariosto, senza la magia del Prospero di Shakespeare, dei viaggi di Alice;  e non dimentichiamolo, del Pinocchio di Collodi.
Il fantastico ha le sue radici nei miti dell’antichità, si è sviluppato nei grandi poemi epici e ha continuato ad avere ampio spazio nel racconto e nelle fiabe popolari, per arrivare poi a maturazione col romanzo gotico e il romanticismo tedesco. E’ dunque quasi connaturato con la produzione narrativa e non è solo un modello letterario legittimo, ma vorrei dire quasi necessario.
Senza il fantastico la letteratura sarebbe soltanto realistica, e questo vorrebbe dire una drammatica rinuncia a immaginare, a confrontarci con universi diversi dal nostro, a sforzarci di trovare una logica anche dove apparentemente non c’è. Anche se si trattasse soltanto di un gioco, ricordo che Calvino sosteneva che il gioco è il grande motore della cultura; e anche della scienza, aggiungo io, e Boncinelli non potrà negarlo.
Né mi spaventa che i ragazzi delle ultime generazioni si siano formati sui racconti di Harry Potter. Che male c’è? Intere generazioni si sono costruite un universo di riferimento tra i pirati della Malesia (mai esistiti), negli improbabili viaggi del capitano Nemo, tra le straordinarie avventure raccontate da H.G.Wells; e non sono diventati né fanatici delle medicine alternative (almeno non tutti) né complottisti irriducibili.
Il fantastico è necessario perché noi siamo fatti di ragione e di emozione, di coscienza e di inconscio,di cultura e di pulsioni. E la letteratura fantastica, più o meno bella, racconta da sempre questa complessità, in modo allo volte allusivo, alle volte simbolico, alle volte pescando nei nostri sogni più reconditi. Ma serve, serve non a farci diventare disimpegnati e deresponsabilizzati, ma a sviluppare coscienza di sé.

Quando la bella bambina dai capelli turchini fa venire al capezzale del burattino tre medici, un barbagianni, un corvo e un grillo, che diagnosticano che “se il burattino non è morto è segno che è ancora vivo”, per poi lasciare spazio ai coniglioni con la loro piccola bara che si porterebbero via Pinocchio se non prendesse la medicina siamo, certo, nell’irrazionale più profondo. Ma quante cose ci dice, dopo averci intrattenuto e fatto ridere, quel passo. Che disgrazia, mamma mia, che disgrazia, se non esistesse la letteratura fantastica. 

                                                                                                   (Da "L'IMMAGINAZIONE, n. 301)

lunedì 26 giugno 2017

DALLA CRISI SI ESCE SOLO LEGGENDO

Parliamo di lettura. Discorso banale, ma partiamo da lontano. Quali sono i principali problemi del nostro paese? La stagnazione economica, le diseguaglianze sociali, la disoccupazione giovanile, il debito pubblico e l’immigrazione, diranno in molti. Problemi veri, con pesi diversi, ma tutti abitualmente delegati alla classe politica. Curiosamente, però, oltre a lanciare allarmi, né la stampa né i partiti sanno indicare ricette che non siano, stancamente, interventi di tecnica economica. Ma di quale sia l’effettiva origine, in particolare, del fatto che la stasi economica colpisce il nostro paese più della maggioranza degli altri paesi europei,  in realtà, non si occupa nessuno.
Per fortuna ci pensa Giuseppe Laterza, che da tempo studia i dati sulla correlazione tra la cultura e la crescita economica. L’ultima tabella che ha meritoriamente messo in circolazione ci dice che i paesi europei che hanno il maggior tasso di lettura, di istruzione e di ricerca sono gli stessi che hanno maggior crescita, più occupazione e redditi più alti. Bisogna fare attenzione, però, perché molti credono che i dati vadano letti a partire dai fattori economici, immaginando che, se la gente legge, studia e investe in ricerca, è perché è già ricca. Il ragionamento che si deve fare, invece, funziona al contrario: se non siamo ricchi è perché non leggiamo, non studiamo e non facciamo ricerca. E che tutte le ricette per ovviare alla crisi economica sono palliativi. L’unico modo per uscire dalla stagnazione è investire in cultura: produrre conoscenza, promuovere la lettura e convincere anche le aziende a fare ricerca, perché praticamente da noi ricerca la fa solo lo stato.
Vediamo i dati di Laterza. In Svezia, paese al vertice di tutti i parametri, c’è un 90% di lettori, sia pure occasionali. In Danimarca 82%, in Germania 79, in Francia 73 e via calando. In Italia il 56%; e temo sia una cifra ottimistica. Peggio di noi stanno solo Polonia, Bulgaria, Grecia e Portogallo. Non va meglio per la ricerca: in Francia si investe il 5,1% del PIL, in Germania il 2,5. Noi, solo l’1,1%. E per l’istruzione, al vertice c’è la Danimarca, con una spesa dell’ 8,5% del PIL, mentre noi arriviamo solo al 4,1.
Ora ci sarà qualcuno che dirà che Laterza fa il suo lavoro, è un editore, e cerca di convincerci che bisogna leggere di più perché così la sua azienda ci guadagna. Anche se fosse vero, non ci sarebbe niente di male. L’editore è un imprenditore e, se non ci guadagna, danneggia se stesso e gli altri. Il fatto è che la lettura dovrebbe essere un interesse collettivo perché è uno dei parametri che accompagna, e probabilmente produce, la crescita economica. Non è solo interesse degli editori, ma di tutti che in Italia si legga di più. Come si può immaginare che un paese, con la spietata concorrenza prodotta dalla globalizzazione, possa resistere senza cultura, saper fare, originalità di pensiero e intelligenza collettiva?
Immagino che anche qui ci saranno obiezioni: a leggere sono capaci tutti, ma non hanno tempo; escono troppi libri, e costano troppo. Scuse, le ho sentite mille volte. La realtà è che gli italiani, se non leggono, è perché non sanno farlo. Sanno leggere un articolo (non tutti), le istruzioni del telefono (mah, forse quelle neanch’io), ma un libro, un vero libro, di centinaia di pagine, non sono in grado di leggerlo perché non ne hanno mai letto uno. Ora, chi può insegnare agli italiani a leggere? E perché non dovrebbero bastare la scuola, l’abitudine quotidiana a leggere semplici notizie, e la lettura digitale, che negli ultimi anni è cresciuta esponenzialmente?
Nessuno ha la ricetta miracolosa. Certo è che per produrre nuovi lettori dovrebbero impegnarsi tutti: famiglie, scuola, università, mezzi di comunicazione di massa, social media, classe dirigente politica ed economica. Tutti, perché il mancato progresso intellettuale del paese è quello che ne impedisce lo sviluppo economico.
I metodi? Alcuni sono noti, altri si dovrebbero sperimentare. Ma cominciamo da quello che conosciamo: leggere ad alta voce ai bambini, avere in casa più di 100 libri, insegnare a frequentare librerie e biblioteche, far vedere che chi legge non è uno sfigato ma, anzi, ha più successo di chi non legge. Poi ci sono certamente altri strumenti, ma se non usiamo i più rodati, inutile pensare a come svilupparne altri.
Per concludere, se non c’è sviluppo è perché non c’è crescita intellettuale. Non investire nella lettura è suicida. Il prossimo governo inserisca nel suo programma lo stimolo alla lettura, metta all’ordine del giorno qualcosa, anche solo un appello alla nazione perché tutti abbiano qualche libro in casa. E’ scientificamente dimostrato che chi cresce in una casa dove ci sono libri ha il 50% di possibilità in più di avere successo nella vita.

Vale la pena, no? 

                                                                                              (Da "L'immaginazione, luglio 2017)

martedì 23 maggio 2017

La resistibile ascesa del priapismo letterario

“A forza di stare a contatto con i boschi e i sassi, avevano contratto il vizio del silenzio”. “Continuavano (…) a inabissarsi in quella voragine di abeti e di sterpi senza sapere come fare a trovare un biliardo, un bar aperto, a far accadere qualcosa dentro quel silenzio”. Mi ero annotato qualche frase di Marina Bellezza, il romanzo della Avallone uscito da Rizzoli qualche anno fa, perché mi era sembrato che la costruzione faticosa, lo stile, che voleva essere originale e suggestivo a tutti i costi, meritasse una riflessione. Ne ho incontrati altri, in questi anni, di testi che usavano una lingua pesante, troppo cerebrale per essere piacevole, articolata in espressioni volutamente arbitrarie, che piegavano la lingua in un contorcimento stridente e inutilmente fantasioso. Ma torno ancora alla Avallone: “Il buio si agitava nel vento, tra le ripe, tra i boschi, come una creatura viva”; il buio che si agita? Come una creatura viva? Mah. E quando i giovani protagonisti investono un cervo con la macchina: “Fu lo schianto feroce di un corpo fatto di lamiere contro un altro corpo ancora più duro”. Il cervo più duro della macchina? Difficile crederci. Sarà stata la licenza poetica. Ma più avanti non andava meglio: “Conosceva il linguaggio delle bestie, glielo aveva insegnato suo nonno da bambino. Sapeva che il linguaggio, senza parole, arriva a coincidere con la radice nuda delle cose”. Mamma mia.
Mi è tornato in mente questo filone di ricerca stilistica, oggi, prendendo in mano La compagnia delle anime finte, di Wanda Marasco, Neri Pozza, adesso candidato allo Strega. L’incipit suona così: “Si chiamava Vincenzina Umbriello e aveva portato questo nome come un boato nella casa sul vico Unghiato…”. Poco più avanti leggo: “il crollo generalizzato del panico sopra la carne con cui ha vissuto…”; e ancora: “i capelli impigliati a un perfetto silenzio…”; e più avanti: “una lampada immaginatrice”. Una lampada che immagina? E un nome portato come un boato? E come la mettiamo con il crollo del panico? E soprattutto i capelli che si impigliano al silenzio (al, non nel) sono veramente impressionanti. E mi sono detto: ma è come la Avallone, con il buio che si agita. E’ la stessa sintomatologia.
E ho pensato che la autrici, afflitte dallo stesso morbo, si devono esser congratulate con se stesse: che intensità, che coinvolgimento emotivo, che stile inventivo e potente. Mentre a me sembra soprattutto che usino una scrittura pesante, barocca, artificiosa, gonfia; direi erettile. Uno stile fortemente involuto, che sembra ideato apposta per nascondere un certo vuoto di idee e l’esilità degli intrecci, personaggi di poco spessore in una trama poco plausibile.
Una sorta di priapismo letterario. Sia ben chiaro, qui son due scrittrici per caso, non è un problema di genere: ne sono afflitti scrittori e scrittrici nella stessa misura. Un gonfiore stilistico che vuole dare al lettore la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di ardito e di unico; una prepotente assunzione del diritto di usare il dizionario stocasticamente, per ottenere il massimo stupore nel fruitore.
Certo, si potrebbe sostenere che Gadda faceva lo stesso, che la lingua la inventava anche lui, che piegava alle sue esigenze sintassi e terminologia. Ma innanzitutto era Gadda, e poi lo faceva con maestria inimitabile. Ma soprattutto con uno stile che aveva una sua coerenza interna. Oggi, invece, e non solo per le autrici qui citate, sembra ci sia una rincorsa a épater les bourgeois, ad avvolgerci in un vocabolario che si vorrebbe immaginifico, a sbalordirci con gli effetti speciali. 
Cosa sarà successo? Probabilmente il priapismo letterario nasconde carenza di maturazione personale, mancata metabolizzazione della complessità del carattere degli uomini, assenza della capacità di trasfigurazione narrativa dell’esperienza. Ma tutto questo, da solo, non produce lo stile rococò che si manifesta, ogni tanto, ai nostri giorni.

A ripensarci, forse, la causa di tutto si può intravvedere in uno dei più terribili accidenti che si sono abbattuti sui giovani del nostro tempo: il moltiplicarsi delle scuole di scrittura creativa. Non ne so molto, ma temo siano ambienti nei quali si insegna a costruire uno stile molto personale e peculiare, che distingua l’aspirante scrittore dalla piatta lingua che usano quelli che hanno qualcosa da dire e non si arrovellano nel tentativo di trasformarsi in novelli Joyce. Scuole che dovrebbero distribuire gusto e conoscenze, ma che rischiano di facilitare la diffusione di un morbo preoccupante, come tutti i priapismi. Ci vorranno vaccini, interventi chirurgici, terapie complesse; ma speriamo che, nel tempo, sia possibile debellare la malattia.   
L’ITALIA E’ IN DECLINO, ED E’ COLPA MIA

Ebbene sì, lo ammetto: scrivo con un po’ di astio. Ma ho aspettato apposta che passasse il tempo, che il risentimento si affievolisse, che le mie osservazioni non suonassero solo rivalsa e acredine vendicativa. Ma questa non la digerisco stesso. Vedete voi.
Il 21 febbraio di quest’anno, sulle pagine della cultura di Repubblica, Michele Ainis se n’è uscito con un articolo intitolato Il circolo vizioso delle leggi (e dei libri), in cui denunciava una drammatica decadenza della cultura come delle istituzioni nazionali. E alla base di questa decadenza (“Le prove? Basta volgere lo sguardo sulla pubblicistica…”) ci sarei io, con i miei Centolibri, un volume di tre anni fa che, per i molti che non ne sanno giustamente niente, elencava e riassumeva i classici più popolari in Italia.
Il ragionamento di Ainis, grosso modo, era questo: oggi i libri non parlano più della vita, ma si limitano a rimasticare pagine già scritte, raccontando male storie che, così, non servono più a nulla. Così i libri diventano autoreferenziali, citano dei titoli a caso, e magari dimenticano l’Odissea. E non sono romanzi che parlano di altri romanzi, come quelli di Calvino o di Borges, ma proprio libri che parlano di altri libri. Uno scandalo.
Per fortuna che per Ainis condivido questa grave responsabilità con Nick Hornby, Gian Arturo Ferarri e altri autori ben più importanti di me. Ma il risultato è lo stesso, perché Ainis sostiene che, di questo passo, con l’affermarsi di libri “falsi, artificiosi, che trasudano d’un sapere libresco” (per forza: libri che parlano di libri non possono che essere libreschi), la letteratura perde forza narrativa, e “fuori lo sguardo si allarga su un deserto”. Ora attenzione, il passo successivo è importante: “Ne è prova l’impoverimento della nostra sfera pubblica”. E qui Ainis descrive l’assenza di progettualità, la povertà del dibattito pubblico, il vaniloquio dei programmi tv, l’uso proprietario dello stato da parte di partiti e l’eccessivo numero di leggi in vigore. Qui la dura accusa: “Il cerchio di chiude: se i libri parlano di libri, anche i politici parlano soltanto dei politici”. Conclusione: nessuno scriverebbe più i Finnegan’s Wake, perché oggi la moda è il libro sul libro.
Ora, chi ritenesse che il passaggio dall’esistenza di libri mediocri al declino delle istituzioni in Italia sia un salto logico, sbaglia: si può benissimo dire che il declino della cultura finisce per riverberarsi nel declino dello stato. Personalmente sono tanto d’accordo che lo predico (inutilmente) da anni.
Quello che a me sembra davvero difficile da sostenere è che l’esistenza di libri che parlano di libri sia un fattore di declino. E quando sarebbe cominciato? Con Fozio, che elencava diligentemente i libri della sua biblioteca, o bisogna arrivare a De Santis, Croce, o alla critica contemporanea?
E’ dall’antichità che, per nostra fortuna, ci si interroga sul valore e sulla capacità di trasmettere conoscenza dei libri che ci hanno preceduti. Il fatto che ci siano libri che parlano di libri non soltanto non è un sintomo di declino, non soltanto non impedisce che nascano nuovi Joyce, e che si sperimenti tutto lo sperimentabile, ma  è anche il segno che la cultura è viva, perché i libri che parlano di libri sono semplicemente la garanzia che i libri non muoiano, vengano riletti e analizzati, e rivivano nella loro continua rivisitazione critica.

Non vale, probabilmente, per i miei Centolibri: troppo poca cosa persino per l’attenzione che Ainis dedica loro. Ma poco male. Quello che credo di poter affermare è che, se l’Italia è in declino, non è colpa mia. Ne sono quasi sicuro.

lunedì 22 maggio 2017

IPOCRISIA E SOLITUDINE

C’è chi ha pensato bene di dire che Amélie Nohomb ha usato 120 pagine per dire quello che Perrault aveva detto in poche righe. E’ stata Michela Murgia, non ne nascondiamo il nome, e ha usato l’isola felice in cui, su Raitre, rara avis, Augias parla di libri, per… sconsigliare la lettura di un libro. Mirabile interpretazione del compito del servizio pubblico radiotelevisivo: sconsigliare la lettura di libri di qualità.
Naturalmente ognuno ha diritto di non vedere al di là del suo naso. Ma è difficile immaginare che chi ha aperto Riccardin del ciuffo (Voland, 2017, 119 pp., 15 euro) non abbia capito che, rispetto a una riscrittura della fiaba omonima, questo libro affronta una storia e dei nodi problematici che non solo vanno al di là di quanto voleva segnalare la morale della favola di Perrault, ma che scava in profondità in alcuni dei temi più dolorosi e inquietanti del presente.
E’ vero che la storia, come quella della fiaba, è quella di un ragazzo bruttissimo e intelligentissimo e di una ragazza bellissima e (erroneamente) considerata stupidissima.  Ma c’è molto di più. C’è un’ironia profonda che segna tutto il racconto, e che toglie ogni venatura dolciastra al tessuto fiabesco; e c’è una fantasia libera e surreale. Il padre di Deodato fa il cuoco delle ballerine dell’Opéra e la madre “ha malanni di ottima qualità nel alloro gentile mitezza”. Quando nasce l’intelligentissimo figlio e cercano di insegnargli a dire “mamma”, lui si chiede se non lo prendano per un imbecille. Quando la mamma si augura che sappia dire una frase intera, a pochi mesi, lui si esprime con formalità: “Stai proprio bene con questo vestito”. Diventerà un affermato ornitologo.
Anche Althea, bellissima e silenziosa, ha difficoltà ad affermarsi. Per fortuna i genitori la affidano a una nonna originalissima con una passione per i gioielli, considerati un complemento della vita della donna, che lei eredita e che ne farà una fortunata indossatrice per i migliori gioiellieri.
Ma essere bellissimi può essere un problema come essere bruttissimi. I due protagonisti della storia incontrano pari difficoltà a integrarsi. Lui arriva a pensare che se la natura ha deciso di rifornirlo di ogni orrore si tratta di un progetto che non va contrariato. Lei, che non è stupida come tutti vorrebbero credere, ha semplicemente una vocazione alla contemplazione che le permette di distrarsi da quello che la circonda.
Che i due si debbano incontrare non è solo una funzione del racconto fiabesco, ma una necessità per due personalità fondamentalmente non banali e inadatte ad accettare la ovvietà del buon senso comune. Che questo avvenga mentre aspettano di partecipare a un talk show televisivo è lo strumento col quale Amélie Nothomb allunga il suo sarcasmo sui processi produttivi della falsa rappresentazione del reale in tv. Costretti ad attese assurde, gli ospiti delle trasmissioni aspettano isolati in modo che il loro potenziale isterico si esasperi  e la loro performance si avvicini al crollo nervoso. Ma i nostri protagonisti ne usciranno indenni e innamorati.  
La morale di Perrault è che è bello ciò che piace, e che ha spirito chi parla al nostro cuore. La morale di Amélie, molto più complessa, è che non essere ipocriti spesso comporta la solitudine. Che anche la bruttezza può essere un progetto da portare a compimento, e che la contemplazione silenziosa può essere un talento. Ma che la libertà, la capacità di scegliere autonomamente la propria strada e i propri valori, hanno sempre un costo. 


Da "L'Indice", maggio 2017

lunedì 15 maggio 2017

IL ClASSICO E' UTILISSIMO
PERCHE' NON SERVE A NIENTE

Venerdì 13 gennaio, nell’indifferenza generale, 388 istituti italiani hanno celebrato la terza edizione della Notte nazionale del liceo classico. Per quel che ho potuto vedere, ne hanno parlato pochi articoli sui quotidiani e un isolato servizio, senza immagini, del Tg2. Eppure la Notte è un evento importante, perché negli ultimi anni  il classico ha conosciuto una grave crisi di iscrizioni, e da tempo si parla di riformarlo, se non di chiuderlo; ma anche perché è l’occasione in cui i licei mettono in scena rappresentazioni, mostre, concerti, si aprono alla cittadinanza, e studenti e docenti sono disponibili a dialogare con i cittadini per spiegare cosa succede dentro i loro istituti.
I problemi che incontra la sopravvivenza del classico sono legati alla presenza significativa, nei programmi, del latino e del greco, e lo scarso peso delle discipline scientifiche. Ma è forte anche la diffidenza per una scuola che – si dice - rappresenta un relitto del passato perché non prepara al lavoro, ha un connotato di classe, non è orientata alle nuove tecnologie e alla sfida della comunicazione digitale. Insomma, un’istituzione del giurassico, frequentata da dinosauri, un mondo in via di estinzione.
Personalmente, ho avuto occasione di assistere alle iniziative mese in atto per la Notte dal liceo ”Vitruvio Pollione”, di Formia. Si è trattato di tredici laboratori, organizzati e ideati dagli studenti, sia pure con il sostegno dei professori. Una serie di rappresentazioni, scenette, tableaux vivants, discussioni, danze e musica di qualità e originalità coinvolgenti, per non dire commoventi.  Solo per citarne alcuni, ho assistito a una messa in scena, in forma ridotta, del Mercante di Venezia, recitato in un ottimo inglese, con una particolare attenzione al personaggio di Shylock; a una zattera della Medusa con i naufraghi di oggi; ho assistito all’abiura di Galileo davanti a due cardinali inquisitori; ho visto Saffo rivendicare il suo modo di intendere l’amore;  ho assistito a una ricostruzione del mito della caverna, con gli attori incatenati che vedevano passare le ombre sulla parete di fronte e un giovanissimo regista che spiegava il senso e l’attualità del testo platonico, con particolare riferimento alla comunicazione di massa; ho visto una serie di ricostruzioni sceniche delle opere di Leonardo (dama con ermellino di peluche), Caravaggio (il bacchino: perfetto!), Dégas (la ballerina che si allaccia le scarpette, delizioso) e così via, con la logica delle opere che hanno segnato un punto di rottura nella storia dell’arte; ho visto Kant dialogare con Cacciari sul problema dello straniero; ho sentito Dante lamentare la condizione dell’esule; ho visto una serie di esperimenti di fisica che mettevano in luce come quasi sempre le apparenze dei fenomeni siano ingannevoli; e via dicendo, in un entusiasmante alternarsi di laboratori, distribuiti in tante classi della scuola, affollate di genitori e cittadini che facevano la fila per assistere alle rappresentazioni.
La Notte di Formia non è certo sufficiente a tacitare i comprensibili dubbi di tanti sull’utilità della sopravvivenza del liceo classico; né a superare i problemi che tutta la scuola, e non solo il classico, deve affrontare da anni. Ma quello che ho visto io, e che molti avrebbero potuto vedere, se i media si fossero interessati alla Notte, era la dimostrazione della vitalità e della utilità del classico.
Perché l’insieme delle attività dei laboratori  del liceo di Formia rappresentavano uno straordinario esempio di come, attingendo alla letteratura antica e moderna, ai miti della classicità, alla storia dell’arte e alle più attuali teorie della fisica, ripercorrendo la storia del pensiero e quella dei conflitti sociali sia possibile affrontare con capacità analitica la complessità del presente.
Io credo che ogni paese abbia bisogno di una classe dirigente degna di questo nome. Forse il classico è ancora una scuola di élite, forse è vero che presenta difficoltà che non tutti possono affrontare, ed è certamente vero che non prepara a un mestiere, non dà competenze specialistiche, non è concentrato sulle nuove tecnologie. Ma, rispetto a una volta, dedica più attenzione alle discipline scientifiche, alle lingue moderne, alla sperimentazione e a una certa elasticità dei programmi. Non forma a una professione, ma stimola le capacità di apprendimento, di analisi e di visione critica che sono, quelle sì, le basi fondamentali per qualsiasi ruolo sociale che preveda consapevolezza e creatività. Senza il classico, io credo, le prossime generazioni perderebbero la possibilità di formare una classe dirigente capace della spinta alla sfida della conoscenza e alla curiosità necessaria ad essere protagonisti di un futuro difficile e complicato come quello che abbiamo davanti.  


                                                    (Da "l'Immaginazione, n. 298, 3-4/2017)
COME SBAGLIARE OBIETTIVO 
E FARE POLEMICHE PRETESTUOSE

Buffo che siano proprio quelli che rimpiangono una scuola dove si insegnavano per bene materie come la storia a dimenticare che ogni pensiero, ogni testo e ogni personaggio vadano inquadrati nel periodo in cui sono nati. E’ accaduto a Lorenzo Tomasin, illustre filologo che, sul Domenicale del Sole del 26/2, ha spiegato come il disastro della scuola odierna sia figlio di don Milani e della Lettera a una professoressa.  Don Milani e la Lettera avrebbero avuto l’effetto di abolire la storia antica, i classici, il diritto di bocciare. E, cosa ancor più grave, avrebbero esposto al pubblico ludibrio, con manifesto odio di classe, la professoressa, dipinta come privilegiata, fintamente progressista, strapagata e dedita a lussuose vacanze.
La settimana dopo Carlo Ossola  e Franco Lorenzoni gli hanno risposto dalle pagine dello stesso giornale. Non ci sarebbe altro da aggiungere alle loro intelligenti, pacate e acute note. Quel che è curioso è che Tomasin si è affrettato a replicare, in un riquadro, insistendo a vedere nel tono della Lettera “un’allarmante continuità nella pervicace tendenza italiana a fare del risentimento e del rancore la base d’ogni rivendicazione”. Insomma, secondo Tomasin anche oggi ci si scaglia contro le professoresse con feroce odio di classe. Ma dove? Nelle sonnacchiose assemblee delle rituali occupazioni scolastiche? Forse ha pensato alla faccia di Landini in un talk show; ma non mi risulta che Landini si occupi di scuola, e il rituale delle trasmissioni di dibattito politico mi paiono tutto fuorché grondanti sentimenti di classe.
C’è qualcosa che non va. Se ci riferiamo alla scuola, alla società, agli equilibri economici di oggi, anch’io, come molti altri, sto dalla parte delle professoresse; almeno di quelle che il loro lavoro lo fanno con dedizione ed entusiasmo. Ma alla metà degli anni Sessanta, le cose erano molto diverse. Tomasin lo sa che bocciare un ragazzo che veniva da una famiglia di analfabeti, e doveva lavorare nei campi prima di andare a scuola, voleva dire impedirgli di diventare un cittadino a pieno diritto? E lo sa che nel ’67 solo il 3% dei ragazzi che frequentava il liceo poteva iscriversi all’università? Si direbbe di no, e la sua giovane età lo spiega. Ma non excusat. Non si fanno polemiche giornalistiche, non si aprono facili revisioni del passato senza inquadrarle storicamente.
Sembra che Tomasin non ricordi nemmeno che da qualche anno a questa parte, ministra Moratti juvante, si è voluto dare alla scuola lo statuto dell’impresa. Che questo ha imposto agli istituti scolastici di cercare gli allievi - pardon, gli utenti - promettendo facili promozioni e uno studio poco faticoso. Che sono gli studenti e i loro famigliari che ricorrono al Tar a ogni bocciatura e che i dirigenti scolastici questi incidenti cercano di evitarli come possono. Se questa è la scuola di oggi sarà anche in minima parte colpa del ’68 e di don Milani; ma è soprattutto colpa del lassismo che ha dominato la scena culturale italiana dagli anni ’80 in poi; dalla decadenza del valore della conoscenza e della formazione morale dei cittadini. Questo don Milani non l’avrebbe mai voluto.
Consiglierei invece a Tomasin la lettura di un interessante libro, Scuola di classe, di Roberto Contessi, Laterza, dove si dimostra con cifre inoppugnabili che, non certo per colpa di don Milani, la scuola di oggi è classista quanto quella degli anni ’60. Solo che nessuno, e in primis gli studenti, si sogna di contestarlo. Perché una scuola che promuova facilmente va bene a tutti, anche se in questo modo lascia inalterati i vantaggi di chi viene da ceti privilegiati, o è più dotato per natura. Una scuola seria dovrebbe farsi carico proprio di chi è meno dotato allo studio, indipendentemente dai motivi; anzi, dovrebbe essere lo strumento di crescita e di sviluppo intellettuale soprattutto per chi non proviene da famiglie di buona cultura. Come sosteneva la Lettera, e come non è successo. 
Se oggi possiamo dire che il progetto di Barbiana è superato, arcaico, ribellista, è perché don Milani, e chi l’ha ascoltato, ha rimosso alcuni degli ostacoli che impediscono la crescita civile del Paese.   Paradossalmente, io credo che sia merito della Lettera se oggi possiamo indignarci perché la scuola non funziona. Il problema, casomai, è che non ci indigniamo abbastanza; che le proteste degli insegnanti sembrano corporative, che gli studenti non contestano una scuola che non li aiuta a conquistare un’autentica maturità intellettuale.

Sarebbe stato meglio se le scuole avessero mantenuto la capacità di premiare i migliori, di stimolare i meno dotati, e non fossero diventate aziendine. Ma nessuno può rimpiangere la scuola che bocciava i ragazzi di Barbiana perché non erano all’altezza di programmi difesi da professoresse un po’ distratte.  

                                                                     (Da "l'Immaginazione", n. 299, 5-6/2017)

sabato 1 aprile 2017

LA LINGUA BATTE DOVE LA VIRGOLETTA DUOLE

Dopo l’appello dei professori che hanno denunciato il fatto che gli italiani non sanno più scrivere, tutti i media si sono lanciati in un coro di lamentazioni e di inchieste sul perché di questa decadenza della nostra lingua nazionale. Mi ha colpito, in particolare, quanto ho letto su Robinson, il supplemento culturale della Repubblica, il 26 febbraio scorso. Come annunciato in copertina, il fascicolo centrale del giornale era dedicato all’argomento. Grafica originale, firme in un carattere corsivo che faceva pensare alla buona scuola di una volta, disegnini e riquadri esplicativi. Al centro un lieve ma preoccupato Bartezzaghi, che descrive la scarsa capacità degli studenti universitari addirittura di decifrare le modalità di esame; a lato un Venturi che descrive l’utilità di dare lezioni di punteggiatura. Tutte le pagine dedicate al problema della lingua avevano nella fascia alta delle regole per parlar bene l’italiano, condite da divertenti e contraddittori  esempi, stilate da Umberto Eco. Tra queste, una che raccomandava di usare meno virgolette possibili e una che ricordava: “che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso”. Invitava anche a evitare troppe citazioni, e io ho subito trasgredito, come si vede. Ma sono in buona compagnia.
Quel che ho trovato affascinante, impaginato  proprio sotto le regole di Eco, è un ampio pezzo, su quattro colonne, a firma di Francesco Sabatini, eminente linguista, e presidente ad honorem dell’Accademia della Crusca. In circa novemila battute, a occhio e croce, ho contato 16 frasi tra parentesi e 10 termini virgolettati. Sulle parentesi, non posso aggiungere nulla a quanto detto da Eco;  ma non posso non notare che ho trovato poco utile che ci fossero espressioni come docenti di “italiano”disciplina “facoltativa”, insegnare italiano”, “fare da sé”, “indicazioni” ministeriali e via virgolettando.
Cosa è successo? Io ero convinto che le virgolette, quando non contengono una citazione, avessero la funzione di attirare la nostra attenzione sulla parola virgolettata per dirci che è, sì, nel suo significato originario, ma può voler dire anche qualcos’altro, può essere usata in modo metaforico o analogico. Per esempio, se dico: lei parla un italiano “di lusso”, sto facendo dell’ironia su chi sta parlando. Se dico che uno è capace di “pattinare sui problemi”, non intendo dire che usa degli aggeggi a rotelle, ma che scivola con disinvoltura sulle difficoltà.
Ma di quale ironia, di quale secondo significato può trattarsi se si parla di docenti di italiano e di indicazioni ministeriali? Mistero. Del resto, il pezzo di Sabatini, uno dei nostri migliori studiosi, era pieno di informazioni utili e di osservazioni intelligenti, e noi gliene siamo grati.
Forse, in conclusione, il profluvio di interventi sulla scarsa dimestichezza che abbiamo con l’italiano è servito a questo: ci ha fatto capire che, se è vero che gli italiani non conoscono bene la loro lingua, è vero anche che non è tutta colpa loro. Che anche chi insegna, ai più alti livelli, spesso non usa una lingua semplice, fluida, comprensibile a tutti, e quindi non è un buon esempio per chi deve imparare. Che forse la lingua di chi è più colto spesso non esce dalla dimensione del linguaggio accademico, faticoso e idiolettico. E che anche i linguisti più esperti, come tutti noi, possono cadere nelle trappole da cui ci metteva saggiamente in guardia Umbero Eco.


domenica 5 febbraio 2017

UNA VITA, UN'EPOCA


A lungo, la vita dei malati di mente è stata difficile se non tragica. Sepolti in ospedali psichiatrici dove spesso le terapie sfioravano la tortura, e vigevano contenzione fisica e reclusione assoluta anche per le patologie più lievi. Nel migliore dei casi, quando le famiglie se lo potevano permettere, il malato veniva custodito in cliniche private, anche accoglienti, che erano comunque dei reclusori, dove le terapie spesso prevedevano trattamenti violenti come l’elettrochoc e il coma insulinico. Le vicende di Aldo, l’unico figlio di Palmiro Togliatti, rientrano nella seconda categoria: non per questo, però, la vita di quest’uomo è stata meno tragica e meno infelice.
Massimo Cirri racconta questa vicenda in un libro di grande interesse, Un’altra parte del mondo, pubblicato da Feltrinelli, inquadrando la vicenda di Aldo Togliatti nel periodo storico che va dagli anni Venti fino alla sua morte, avvenuta nel 2011 restituendoci, insieme alla storia del protagonista e della sua malattia, la personalità e la vita del padre, il grande capo comunista, come della madre, anche lei militante e parlamentare, e il clima culturale e politico che accompagna tutto il periodo, in Unione Sovietica prima e in Italia poi. 
In una sorta di anamnesi letteraria, Cirri ripercorre le tappe del progressivo isolarsi dal mondo di Aldo, la sua timidezza, le sue difficoltà a integrarsi e a trovare un ruolo adulto, la convivenza con la madre, l’aggravarsi della malattia e il lungo, desolante ricovero in una clinica privata. Ma la sua non è comunque una vita qualsiasi: perché Aldo è figlio di due rivoluzionari professionali, due militanti a tempo pieno, che hanno pochissime occasioni per dedicarsi a un figlio. Passa i primi diciott’anni in Russia, sballottato tra gli spostamenti dei genitori e poi parcheggiato a Ivanovo, un collegio destinato ai figli dei dirigenti comunisti. Un villaggio a un paio di ore da Mosca, dove Aldo sperimenta il rigore dell’ideologia e i metodi sovietici per creare l’uomo nuovo, il cittadino del mondo futuro, figlio dell’utopia comunista. Un collegio forse meno peggio di altri, un luogo persino privilegiato dove, almeno, malgrado si sia in tempo di guerra, non manca il cibo e gli insegnanti sono competenti.  Dobbiamo pensare però a un ragazzo fragile, che cresce senza vedere né il padre né la madre, che scrive loro lettere di solitudine e disperata richiesta di aiuto. Il lento accentuarsi di una tendenza all’isolamento che finisce per diventare patologica.
Al rientro in Italia, nel ’45, Aldo non riesce a superare lo scoglio dello studio universitario, trova un lavoro, lo lascia, dà i primi segni di squilibrio, viene curato nei migliori ospedali psichiatrici dei paesi oltre cortina, con metodi che possiamo solo immaginare; finisce per vivere a Torino, in una sorta di dipendenza forzata, con la madre; la cui morte è un altro trauma, dal quale non si riprende più. Passerà gli ultimi trent’anni (pare incredibile: trent’anni!) in una clinica di Modena, vicina al PCI, dove un incaricato del partito gli porterà ogni settimana le sigarette e la Settimana enigmistica, dove dei parenti della madre lo verranno a trovare solo sporadicamente e dove morirà, solo e dimenticato, a 86 anni.
Questa, in sintesi, la vicenda narrata da Massimo Cirri. Ma il libro ricorda anche il clima che si respirava nell’Unione Sovietica della guerra, la costruzione dei miti e degli eroi del regime, spesso inventati solo per creare esempi di fede assoluta negli ideali del comunismo. La continua revisione della storia e dei protagonisti della vita politica che, durante le purghe staliniane, gli studenti devono progressivamente cancellare dai libri di storia; la improvvisa sparizione di compagni di scuola, figli di dirigenti caduti in disgrazia, allontanati dai privilegi di Ivanovo.
E ancora la vita dei dirigenti comunisti in Italia, nel dopoguerra, quando Togliatti si innamora della giovane Nilde Jotti e lascia la moglie, Rita Montagnana. Uno scandalo non solo per l’Italia dell’epoca, ma soprattutto per il PCI, contrario al divorzio e alla convivenza degli adulteri. Una separazione che pesa certamente sull’equilibrio già instabile del giovane Aldo, ma che segna anche la fine della carriera politica della Montagnana, che pure era stata un’importante leader delle battaglie per l’emancipazione della donna e promotrice dalla giornata dell’8 marzo e del simbolo della mimosa: non sarà più rieletta, e il ritiro in un appartamentino a Torino, dove leggerà la Pravda fino alla morte, sono anche il segno di un modo assai brusco dei rivedere i ruoli in un partito ancora molto vicino ai metodi sovietici.
Ecco come la biografia di un uomo diventa così un po’ la storia di un partito, di un paese, di un’epoca. Fatti e persone che hanno segnato profondamente la nostra storia.

  
  (Da "L'immaginazione, novembre 2016)

Perché il latino?   Perché è inutile!


Chiamare morta una lingua scritta non più parlata è negare i poteri della letteratura, (…) è come dar fuoco agli Uffizi”. Chi arriva alle conclusioni di Viva il latino, di Nicola Gardini, sottotitolo Storie e bellezza di una lingua inutile, Garzanti editore, trova questa che, più che una conclusione, è un’ invettiva. Giustificatissima, a mio avviso, soprattutto dopo aver letto il testo che, a partire dall’analisi dell’incidenza del latino sull’italiano, passando per una ricognizione dei maggiori autori del nostro passato ci porta fino al latino medievale e alla (facilissima!) Vulgata di Gerolamo. Gardini spiega, assieme all’analisi della lingua di Cicerone, Cesare, Tacito e Tito Livio e alla poesia di Virgilio, Orazio, Ovidio e Lucrezio, per non citare che i maggiori, come il latino si sia evoluto, come sia arrivato alla perfezione ciceroniana pur mantenendo in autori come Sallustio una sua vitale duttilità, trasformandosi da una penna all’altra e seguendo la personalità degli scrittori.
Ripercorrere con Gardini le metafore virgiliane è un piacere che la scuola non ci aveva dato; rileggere con una guida così acuta l’Eneide ci rivela dettagli sintattici che non avevamo nemmeno notato; ricordare come Tacito sia allusivo, ometta verbi e congiunzioni costringendoci al tumulto della sua narrazione ce lo rende vivissimo (e ci ricorda alcuni incubi da versione in classe); tornare a “Tityre, tu patulae…” dà un senso di struggente nostalgia per qualcosa che è impossibile dimenticare. Ma è affascinante anche rileggere Lucrezio alla luce di un’analisi filosofica che al liceo non ci avevano illustrato, e Seneca, la sua distillazione di saggezza che vede al centro del mondo l’uomo e la sua natura spirituale. Una visione di sintesi che ci riporta a un mondo che ha saputo produrre più consapevolezza di quella che oggi abbiamo, di fronte alla caducità della vita e al modesto ruolo dell’uomo di fronte all’immensità della natura.
Ripercorrendo i grandi del passato Gardini scrive anche, a tratti, un’autobiografia letteraria che ce lo presenta, fin dalle medie, incoercibilmente votato al culto del latino. “Senza latino non sarei chi sono”, dice; e vien fatto di pensare che, anche se non abbiamo dedicato la nostra vita alla latinità, forse l’affermazione ci riguarda tutti. Perché da lì viene tutto quello che diciamo tutti i giorni; perché anche il francese, lo spagnolo, il rumeno sono lingue romanze; perché quando ci vortica in capo l’etimologia delle parole di uso quotidiano, “una parola italiana vale almeno il doppio”.
Gardini ci ricorda che il latino che impariamo a scuola è il latino letterario,una lingua artificiale, non quella che veniva parlata, e che nessuna lingua letteraria è mai stata parlata; esattamente come l’italiano di Manzoni non era certo quello che si parlava a Milano nell’Ottocento. Ma non per questo può essere considerata né morta né inutile. Ci ricorda anche che l’imponente mole di testi che ci arrivano dalla latinità non sono che una minima parte di quello che quella cultura ha prodotto. Ragionamento che ci ricorda che una lingua ha vita se ha una cultura ascendente, se ha una letteratura dietro di sé; e che la letteratura latina non solo esiste, ma ha lasciato una segno indelebile sulla letteratura italiana. Non ci sarebbero Dante, Machiavelli, ma anche Leopardi e Montale, senza le letteratura latina che avevano alle spalle.
Resta, in conclusione, il tema del sottotitolo. Lo studio del latino è utile o no? Le ragione usate abitualmente per affermare l’utilità del latino, dice Gardini, sono banali e forse anche controproducenti. Dire, come fanno gli “utilisti”, che il latino è formativo, che insegna a ragionare, che impone disciplina intellettuale, che forma la mente, è favorire gli “inutilisti”: sono qualità che si potrebbero attribuire ad altre materie e ad altre lingue. Bisogna invece pensare che la progressiva riduzione dello studio del latino è anche una riduzione dell’attenzione alla nozione stessa di letteratura, che invece è la parte più significativa del lascito della storia, quello che ci permette di sentire, con la freschezza delle emozioni e dei ragionamenti di chi ha vissuto una volta, la nascita del mondo in cui viviamo.

“Chi studia il latino, dice Gardini, deve studiarlo perché è la lingua di una civiltà, perché nel latino si è realizzata l’Europa”. E lì ci sono le basi della nostra identità. Ma il latino è anche bello: versatile, duttile, alle volte oscuro e retorico, ma pieno di stile, di storia, bello da capire, da abitare. E’ casa nostra. E se siamo quello che siamo è perché c’è la latinità alle nostre spalle, perché il Rinascimento è la riscoperta dell’antichità, e senza lo studio e la consapevolezza di quello che è stato non possiamo nemmeno vivere consapevolmente la modernità.