lunedì 24 maggio 2021

 

LA FANTASIA E’ MEGLIO DELLA REALTA’

 

Quando Pierre Javelin, dipendente dell’Istituto nazionale per la bellezza e l’estetica, dopo una giornata passata a vendere cosmetici torna a casa, scopre che la sua chiave non funziona più, e che in casa sua si è installata una coppia che sostiene di abitare lì’ da sempre. Quando telefona alla moglie, lei ha il tempo di dire poche parole e la linea cade. Quando va in ufficio non riesce a fare la sua firma. Il protagonista della Città senza cielo, di Jean Malaquais, edizioni Cliquot, ha perduto la sua identità e non la ritroverà più.

Si tratta di un romanzo distopico, ambientato in un sistema chiuso, la Città, dove le case sono così alte che non si può vedere il cielo, e dove domina una burocrazia misteriosa e occhiuta, che controlla tutto. Le persone che Javelin incontra assomigliano ai personaggi del Castello dI Kafka: allusivi e licenziosi, sanno ma non dicono, conoscono i problemi di Javelin ma o non vogliono o non possono aiutarlo veramente. Lo vediamo confrontarsi con i nuovi inquilini di casa sua, l’enorme signor Bomba e la sensuale moglie Kouka, la sua direttrice, l’imperscrutabile signorina Limbert, il persecutorio controllore Babitch (che non possiede nemmeno una sedia), la cameriera dell’albergo dove si rifugia, con l’insopportabile nipote Horace e l’unico essere affettuoso, il gatto Simon.

In un insensato vagare tra l’Istituto nazionale di idiosincrasia applicata, l’Istituto nazionale della calza indistruttibile, l’Istituto nazionale dei sigilli e delle stimmate, uffici che lo accusano di far finta di essere chi non è, e lo dichiarano inesistente, o morto, Javelin dovrà accettare che la sua identità è stata cancellata per sempre.

Il libro, uscito in Francia nel 1953, ha avuto una importante prefazione di Norman Mailer e l’autore, morto nel 1998, scrive in francese ma è di origini polacche.  Colpisce, leggendolo oggi, il taglio narrativo, vicino a un filone di fantascienza psicologica che ha avuto un momento di vitalità ma forse è stato dimenticato troppo presto. Conta che il libro ha sostanza, perché mette insieme una scrittura affinata e inventiva, lo schema di una società dove vigono regole incomprensibili e i ritratti di personaggi che hanno rilievo pur essendo, per certi versi, bidimensionali.

 

Gli accosto Il mio nome è mostro, di una giovane scrittrice britannica, Katie Hale, uscito da liberilbri. Anche questo è un libro che si inserisce in un filone ben preciso: quello dei racconti del dopobomba, in cui pochi sopravvissuti (qui sono due donne), occasionalmente rifugiati in sotterranei isolati, abitano un mondo distrutto da una guerra e da un’epidemia che ha eliminato il genere umano.

Se lo schema è noto (basti pensare a Dissipatio H.G. di Morselli), lo svolgimento invece è originale. Perché la prima parte del libro è scritta in prima persona da una donna, abituata alla solitudine da sempre, quasi asessuata, che ha un passato di vera misantropia, con buone doti pratiche e quindi capace di organizzare la vita alla Robinson, che costruisce lentamente una parvenza di normalità. Ma la seconda parte è scritta dalla sua Venerdì: una bambina, una enfant sauvage, che è vissuta senza rapporti col mondo, chiusa in una clinica sotterranea, che conserva solo vaghi ricordi del mondo di prima.

Il racconto è quindi insieme quello della vita delle ultime due rappresentanti dell’umanità che cercano di arrangiarsi, e insieme il processo di crescita e di conquista del linguaggio della bambina selvaggia.

Questi due libri hanno il pregio di essere di facile lettura, ma qualcuno storcerà il naso dicendo che fanno parte di filoni più o meno fantascientifici, e per di più già molto coltivati. Leggendoli, però, si ha la piacevole sensazione di essere usciti da una palude di scritture del tutto sprovviste di fantasia, come sono la maggior parte dei libri usciti negli ultimi anni, in particolare in Italia. Qui invece viene affrontata una sfida, quella di lavorare al di fuori del reale, che merita attenzione. Perché la scrittura che ripete esperienze personali, nel mondo che viviamo tutti i giorni, anche intense, ma banalmente inserite nel quotidiano, spesso non riesce a uscire dalla dimensione diaristica. Mentre lo sforzo di immaginare mondi altri, personaggi del tutto immaginari è, in fondo, il vero ruolo della letteratura. Perché le narrazioni intimistiche, magari arricchite con segnali della contemporaneità – messaggi digitali, posta elettronica – ci parlano di cose che conosciamo molto bene; forse troppo. Ma raramente mettono in discussione il mondo in cui si svolgono. I libri di cui parliamo qui, invece, mettono in scena (uno con grande preveggenza) i difetti di equilibrio della nostra era. E di fronte ai quali la nostra propensione a coltivare la narrazione intimistica non solo non giova, ma forse finisce per svolgere la funzione di distrarci dai veri problemi del vivere. 

 

IL TAPPEZZIERE E LA LEGGE INTERIORE.

Ovvero: il delitto non è fatto per i buoni

 

Vi è mai successo di leggere un libro senza un momento di rilassamento, col fiato sospeso, presi dall'angoscia che sente il protagonista come se foste voi, senza avere mai la sensazione che la tensione si allenti, costretti a correre verso il finale senza smettere di girare le pagine? Be', Money, di Andrea Kerbaker - La nave di Teseo, 126 pagine, 13 euro – è questo genere di libro. Un racconto semplice, persino lineare, ma drammatico, ad alta tensione, che costringe a fare i conti con qualcosa che forse tutti proveremmo, se ci trovassimo nelle condizioni di Roberto, il protagonista. A lui, tappezziere con sempre meno soldi di quelli che sarebbero necessari, Vincenzo, un vecchio conoscente, fa una proposta che non sa rifiutare. Gli deve dare la seconda chiave di un furgone che sta per consegnare al commissionario che gliene vende uno nuovo. Cioè usato, ma per lui fin troppo lussuoso. Il furgone, ormai passato di proprietario, sarà rubato e usato per un'operazione illegale. In cambio di quella chiave avrà una percentuale sul furto di un'opera d'arte. 70.000 euro, che per lui sono un'enormità.

Noi lettori siamo già in ambasce durante la trattativa. Roberto è troppo per bene, troppo ingenuo e anche troppo buono per essere il complice di un delinquente. E già nelle fasi preliminari dell'operazione vive un'ansia acuta, e noi con lui, perché sa di non essere alla altezza (cioè alla bassezza) del compito. Ma naturalmente le cose si complicano, perché i delitti perfetti non esistono, e mentre Roberto è terrorizzato da inquietanti visite dei carabinieri, interviste di giornalisti spregiudicati che lo mettono in cattiva luce, l'inchiesta sull'incidente che ha incrinato la perfezione del piano finisce per sfiorarlo.

Non diremo come finisce la storia, perché questo è un giallo e senza la suspence perderebbe fascino; ma quel che conta è anche altro. Come la descrizione dell'ambiente in cui vive Roberto, una piccola borghesia italiana tutta parenti e duro lavoro, segreti e non detti, mogli che devono fare le compere di Natale e  figlie insoddisfatte, voglie represse e illusioni perdute. Ci sono parenti un po' razzisti – i responsabili di tutto sono sempre extracomunitari! – amici un po' qualunquisti, vicini di casa (soprannominati i Finestrini) che scrutano abitualmente nelle finestre di fronte. Come le officine e le botteghe artigiane, oggi sempre in crisi, disordinate e poco pulite. Come le trattorie dove mangiano con poco i lavoratori.

Insieme, il gorgo di angoscia e di rimorso in cui Roberto precipita perché, anche se non ha responsabilità dirette, sa di essere stato lo strumento con cui un delitto, e un dramma che ne è conseguito, sono stati consumati. Roberto, e ancora noi con lui, vive continuamente sull'orlo di un cedimento, di una confessione, di una ritrattazione. Questo il duro, sanguinoso contenuto del libro, che lascia una traccia profonda anche in chi delitti non usa compierne. E meno male, perché per chi non ha il pelo sullo stomaco il mondo dell'illegalità, ci spiega Kerbaker, può essere una trappola mortale. Magari non per la legge dello stato, ma per la nostra legge interiore sì.  

 

 

Rileggere Malraux oggi

 

“Manuel prendeva coscienza che la guerra consiste nel fare l’impossibile perché dei pezzi di ferro entrino nella carne viva”. La nuova, impeccabile traduzione fatta da Giovanni Pacchiano di Speranza, di Malraux, pubblicata da Bompiani, è un utile ripasso di un passaggio storico che ha avuto molte versioni letterarie, quasi sempre però filtrate da una visione eroico-agiografica che ne ha tradito la realtà, non sempre limpida.

Raccontare la guerra di Spagna, vista dalla prospettiva delle brigate internazionali, vuol dire, in gran parte, spiegare cosa succede quando chi combatte non è stato addestrato a farlo e non è un soldato. Con i tratti di eroismo e di commovente slancio ideale che caratterizzano chi è convinto di combattere una guerra giusta, anche se spesso non capisce bene cosa accade; e con i momenti di confusione, militare quanto ideologica, che caratterizzano un esercito raccogliticcio, in parte composto da spagnoli, in parte da stranieri di varie provenienze e  varie fedi politiche, e in parte anche da mercenari. “Chi comanda qui?”, chiede a un certo punto il comandante Garcìa, un intellettuale, raffinato e ironico, prestato alla guerra civile; “Chi vuole che comandi?.. Tutti… Nessuno…” gli viene risposto. E al capitano Hernàndez, uno dei pochi militari di carriera, che osserva che una barricata è troppo bassa, viene chiesto chi è; “Non sei della CNT [i comunisti stalinisti]. Allora, cosa c’entri con la mia barricata?”.

Ma la guerra è violenza e morte, e Malraux la descrive con una prosa tumultuosa, a partire dai convulsi dialoghi telefonici iniziali, in cui le voci dei falangisti si incrociano paradossalmente con quelle dei miliziani, per arrivare ad alcuni tra gli scontri più duri, all’assalto con armi inadatte ai carri armati tedeschi, ai duelli aerei con gli apparecchi italiani, superiori per numero e potenza allo scombinato stormo dei “pellicani”, gli aeroplani rappezzati alla meglio comandati da Magnin, l’alter ego di Malraux.

Ma questo “esercizio dell’apocalisse”, che è la spina dorsale del libro, non richiede riflessioni, perché le battaglie, per chi non sia un esperto, sono la cosa più difficile da commentare, mentre è la prosa tambureggiante con cui è descritto che cattura e coinvolge. Mentre insieme ai combattimenti ci sono gli scontri politici, le gelosia tra le componenti delle milizie, l’autorità dei commissari politici comunisti e l’inafferrabile indisciplina degli anarchici. Perché quella di Spagna è insieme guerra e rivoluzione, e contiene durezza militare e slanci ideali. “Barcellona era incinta di tutti i sogni della sua vita”. In un clima decisamente anticlericale, in contrapposizione al clericalismo dei fascisti, ci si propone di permettere di decorare i muri come una volta si decoravano le cattedrali. “C’è più fratellanza qui, per strada, che in qualsivoglia cattedrale dall’altra parte”. E il conflitto tra comunisti e anarchici è sempre aperto: “Un tempo, i nostri erano disciplinati perché comunisti. Adesso molti diventano comunisti perché sono disciplinati”. Sullo sfondo, la consapevolezza che si tratta di una guerra che è quasi impossibile vincere, ma che si tratta innanzitutto di una battaglia di libertà, e che chi la vive si trova in una situazione di sospensione, come se il tempo di fosse fermato, perché non c’è altro che quel conflitto, quell’ideale; e la vita quotidiana, con le sue gioie e il suo tedio, è sospesa fino a nuovo ordine. “La rivoluzione è una vacanza dalla vita”.

Pure, questi uomini, che sanno di rischiare moltissimo, vivono momenti di poesia, di riflessione e di confronto, pur rendendosi conto che la guerra è sempre tragica, e non permette mai di essere a proprio agio, di vivere spensieratamente. Manuel, musicista, trovandosi in una chiesa si mette all’organo e suona il Kyrie di Pierluigi da Palestrina. Ma poi si dice che non può più suonare. “Credo che per me, col combattimento, sia iniziata un’altra vita; quanto quella che è cominciata quando per la prima volta sono andato a letto con una donna. La guerra rende casti”.

E la speranza del titolo si può rintracciare negli interstizi tra le battaglie, che lasciano spazio a ritratti originali, come quello di Hernandez, che sarà catturato e fucilato dai falangisti. “Nella vita tutto può avere la sua compensazione; (…) Ma la tragedia della morte sta in questo: trasforma la vita in destino, e a partire di qui niente può più essere compensato”. E il pilota mercenario Leclerc, che viene sospettato di viltà, e si lancia in un diverbio con Magnin: “Ti piscio addosso”; “Hai sbagliato”, fa Magnin. “Ti piscio addosso. Sei un salame legato, una faccia di vacca”. E l’italiano Scali (che pare sia disegnato sul personaggio di Nicola Chiaromonte), un raffinato storico dell’arte che si trova a maneggiare armi e soldati e una dimensione di sentimento collettivo mai provato. “Lei che è l’interprete di Masaccio, di Piero della Francesca, come può sopportare questo universo?”, gli chiedono. E lui, un intellettuale che è abituato non solo a spiegare, ma anche a persuadere, risponde: “Gli uomini uniti allo stesso tempo dalla speranza e dalla passione raggiungono, come gli uomini uniti dall’amore, territori ai quali da soli non arriverebbero mai”.     

L'INFODEMIA CI HA VIRTUALIZZATI

La pandemia ha prodotto una messe di instant books; alcuni sono alte ricognizioni sulle pestilenze, da Omero a Camus; altri sono racconti personali di come si è trascorso il periodo di clausura, con toni più o meno intimistici; altri ancora sono profezie su cosa ci aspetta, in tutti i sensi. Ci sono anche opere di grande qualità, quasi tutte però accomunate dalla caratteristica della precarietà: sono invecchiate in poche settimane, man mano che la cronaca ci dava i nuovi contorni del diffondersi della malattia e delle conseguenze che ne sono derivate.

Trovo meno caduco un volume a firma di Lella Mazzoli e Enrico Menduni,  Sembrava solo un'influenza, sottotitolo: Scenari e conseguenze di un disastro annunciato, Franco Angeli. Il vantaggio di questo lavoro è che non parla tanto di pandemia,quando di infodemia. Non è una parolaccia, il termine è già codificato dalla Treccani: è la “Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento”. Il volume contiene, in appendice, anche un intervento di Massimiliano Panarari sulla politica e uno di Giandomenico Celata sull'economia, ma nella sostanza è una ricognizione su cos'è successo nel mondo della comunicazione.

Il punto di partenza è che la clausura ha imposto la virtualizzazione di molti dei nostri atti quotidiani: più uso di moneta elettronica, di smartphone e computer, e meno negozi, riunioni in presenza, rapporti personali. Con malizia, si aggiunge, più liti domestiche, meno rapporti extraconiugali e meno comportamenti illegali. Nel chiuso delle nostre case, siamo passati con disinvoltura dalla comunicazione mediale (radio, tv, web) a quella sociale (i social networks). In questo nuovo modello circolare della comunicazione si sono aperti i confini tra i dispositivi e tutti hanno fatto di tutto, senza divisioni tra informazione, intrattenimento e dialogo interpersonale. E la videochiamata, fin qui poco usata e forse anche temuta (chi ha voglia di farsi vedere spettinato – non è il mio problema - e in pigiama?) è diventata di uso comune, per riunioni di lavoro, per  pranzi famigliari come per lezioni scolastiche e universitarie.

Interessante è sentire la voce dei giornalisti, che col nuovo intreccio comunicativo hanno a che fare. La parola chiave del nuovo paradigma informativo è la narrazione: la sete di informazione che è cresciuta negli utenti ha richiesto che tutta la trasmissione e la ritrasmissione di parole e immagini assumesse la struttura di una messa in scena, quasi un unico grande spettacolo che ha attraversato diagonalmente tutti i media. In questo modello il ruolo originale, naturalmente, è quello svolto dalla rete, anche se per certi versi, paradossalmente, è accaduto anche che fosse la vecchia tv a colonizzare internet, che ha finito per essere lo strumento di ritrasmissione di quello che nasceva nei mezzi tradizionali.

Il fatto che molti giornalisti abbiano lavorato da casa (smart vorrebbe dire brillante, piacevole: non tutti sono d'accordo) ha prodotto una centralizzazione del lavoro. Senza riunioni in presenza, le procedure si sono semplificate, ma lo scambio e la dimensione collettiva sono venuti a mancare. Si vive qualcosa che assomiglia a un tempo di guerra, in cui molte delle regole usuali sono sospese e l'attenzione si concentra sulla malattia e sul senso di instabilità che si è creato nel sentire collettivo. In questo, come abbiamo verificato tutti, il ruolo di scienziati e clinici è stato cardinale. Mai avevamo avuto una presenza così costante e pervasiva di tecnici in ogni genere di struttura comunicativa.

I nuovi processi comunicativi, e il continuo ricorso alla ibridazione tra mezzi mainstream e new media ha messo in luce un certo ritardo professionale. Sono diventati improvvisamente digitali anche i “dinosauri” della carta stampata: anche se non sempre c'è stata la competenza necessaria per saper capire e riconoscere la qualità del messaggio. Leggere la comunicazione digitale richiede la capacità di filtrare, di verificare i contenuti, e districarsi in un universo in continua ebollizione non è semplice: né per chi ha cultura ma non disinvoltura tecnologica né per chi, nativo digitale, ha i mezzi tecnici ma poco retroterra culturale. C'è di nuovo, in questo quadro, che forse la nuova alleanza tra i media ha reso di nuovo necessario il ruolo dei mediatori, dei quali ci si era illusi di poter fare a meno.

In conclusione: quando, e se, la pandemia sarà veramente finita, torneremo alle vecchie abitudini, alla vecchia organizzazione del lavoro, alla produzione tradizionale di  informazione e intrattenimento? Di solito, non succede. Quando le cose cambiano, piaccia o non piaccia, non si torna indietro. E nella storia, in effetti, non è mai successo.

E SE VIVESSIMO IN UN VIDEOGIOCO? 

C'è una categoria di barzellette che comincia con “C'è un aereo con a bordo...” e qui una serie di personaggi sui quali poi si costruirà la battuta finale. Curioso che in questi giorni siano usciti due libri – molto diversi – che cominciano proprio così: c'è un aereo, con a bordo tante persone, che incontra una forte turbolenza e fa un atterraggio di fortuna. E succede qualcosa di impensabile. Nel Silenzio, di Don De Lillo, Einaudi, tutti gli strumenti elettrici ed elettronici, ovunque,  smettono di funzionare. Dopo l'atterraggio di fortuna noi seguiamo una coppia che, in mezzo a una folla smarrita che guarda inutilmente il proprio telefonino muto, raggiunge a piedi la casa di amici dove doveva vedere una partita. Il resto del libro parla di come i protagonisti affrontano il black out, delle dinamiche di coppia, dello smarrimento di fronte alla perdita di strumenti che ci sono diventati – che lo si voglia o no – indispensabili. Il libretto, 100 pagine di piccolo formato, è tutto qui. Un po' furbo, perché esce al momento giusto visto che ci mette di fronte all'inaspettato, come lo siamo stati di fronte alla pandemia. Ma come spesso accade agli instant book è un racconto freddo, con personaggi appena abbozzati: una storia senz'anima. Se voleva farci riflettere su quanto siamo impreparati a rinunciare improvvisamente alla nostra routine, ci è riuscito meno della reclusione che, a tratti, ha segnato gli ultimi mesi.

L'aereo con cui comincia L'anomalia, di Le Tellier, La Nave di Teseo, esce malconcio dalla terribile turbolenza che squassa la fusoliera, fa un atterraggio di fortuna, in un giorno di marzo, in un aeroporto americano; ma i passeggeri scendono incolumi. Quello che non va è che, tre mesi dopo, in un giorno di giugno, da una turbolenza molto simile esce lo stesso aereo, con a bordo le stesse persone e lo stesso equipaggio; tutti convinti di essersi imbarcati tre mesi prima. Isolati in una base segreta, studiati da scienziati di ogni branca del sapere, risultano la copia esatta delle duecentocinquanta persone che volavano sul primo aereo e che adesso, ignare, si incontreranno con i loro doppioni. Stesse personalità, stessi ricordi, stesso DNA. I passeggeri di giugno hanno soltanto tre mesi di vita in meno di quelli di marzo che nel frattempo hanno vissuto, recitato, amato, partorito; qualcuno si è lasciato con la moglie e qualcuno è anche morto.

L'idea è forte e la materia aperta a mille suggestioni. Il racconto da un lato ci mette davanti ai grandi esperti ai quali Cia, FBI, e Pentagono chiedono una spiegazione dell'accaduto, e dall'altro alle vicende di chi si deve confrontare con l'esistenza di un doppio. Poiché si tratta di scrittori, attrici, delinquenti, gente comune, e ogni storia è una storia a sé. Possiamo solo anticipare che il più fortunato sembra essere lo scrittore di giugno, il cui alterego di marzo, nei mesi precedenti, ha scritto un libro che ha venduto un milione di copie e si è suicidato. Senza nemmeno aver dovuto fare la fatica di scriverlo, lo scrittore di giugno incassa ricchi diritti d'autore e una popolarità enorme. Gli altri se la caveranno meno bene, anche perché mentre ci sono casi di giovani sorelle che sono felici di avere una gemella, non tutti hanno voglia di vivere con una copia di sé che pretende di avere la stessa moglie, la stessa casa, lo stesso lavoro, e gli stessi soldi e di usare gli stessi vestiti.  

Difficile descrivere le risposte che gli esperti danno all'Anomalia. Naturalmente ci sono autorità religiose che pensano a esperienze trascendenti e a punizioni divine. C'è chi ci crede a va a uccidere i doppioni convinto che si tratti dell'incarnazione del male. Non mancano gli ufologi che immaginano l'intervento di intelligenze extraterrestri. Un'altra interpretazione è che si sia verificato un paradosso temporale, dovuto a un piegamento dello spazio, per cui il secondo aereo sarebbe passato inopinatamente da un continuum spaziotemporale a un altro. L'idea che prende piede, però, è che il fenomeno sveli il fatto che la nostra vita non è che un'illusione e che le nostre esperienze, come noi stessi, non sono che uno scenario ologrammatico prodotto da qualcuno che ci usa come degli avatar in un videogioco.

Il libro ha qualche lungaggine, soprattutto nella parte centrale, la molteplicità dei protagonisti rende la trama un po' confusa e la conclusione – che naturalmente non anticipo – è criptica. Se però anche questo è un racconto allegorico, e ci deve far pensare a come, nella pandemia, noi tutti siamo in fondo eterodiretti, perché la nostra libertà individuale è fortemente limitata, qualche elemento di ansia ce la trasmette. E se in Francia ha venduto un milione di copie sarà perché ci consola pensare che forse, in realtà, i nostri disagi sono proprio solo un gioco.

 

 

mercoledì 21 ottobre 2020

UN'AUTOBIOGRAFIA OBLIQUA 

Antonio Franchini ha fatto un gioco obliquo, pubblicando i racconti raccolti in Il vecchio lottatore, sottotitolo: e altri racconti postemingueiani, NN editore. Obliquo perché già il sottotitolo è ingannevole: cosa vuol dire postemingueiano (prendiamo la sua grafia)? Forse che rifiuta un taglio duro, diretto, come quello di Acqua, sudore e ghiaccio (per me, uno dei suoi libri più belli)? Certo, qui ci sono racconti che parlano del sentimento paterno e di memoria di amici scomparsi. In effetti, abbiamo  momenti più lirici, meno “sodi”, rispetto ad altre prove dello scrittore. O forse che nega la derivazione della sua scrittura dal pragmatismo nordamericano che ha segnato le sue opere precedenti. Ma una certa dose di elementi primordiali, di lotta dura, di senso della disciplina sportiva, di confronto con la natura e di pulsioni primarie restano,  e non marginalmente. Il postemingueiano, a mio avviso, si può cogliere solo nell’insieme, malgrado i nove racconti raccolti qui siano apparentemente separati da tematiche e ambientazioni diverse. Il gioco obliquo, insomma, consiste nel fatto che, raccogliendo storie scritte in momenti diversi, con ambientazioni lontane e persino una scrittura che cambia a seconda del quadro rappresentato, l’insieme di questo libro risulta esser una sorta di autobiografia per immagini, dove ogni racconto sembra disegnare una fotografia delle diverse immagini che l’occhio dello scrittore ha visto, metabolizzato e elaborato letterariamente fino a farle diventare un percorso di vita. Un autoritratto con sfondi variabili.

Uno scenario cubano, percorso da napoletani in trasferta, con l’immancabile poker, l’inutile tentativo di pescare i marlin, i daiquiri. Personaggi esagerati, con nomi fiabeschi: lo Squalo, la scimmia, il Patatino, in una prospettiva in tutto è epico: le sbronze, le sfide a braccio di ferro, le grasse ragazze tedesche. Fino alla saturazione: “Quanto deve durare ancora, ‘sta strunzata?”. E La conclusione, con la foto ricordo fatta con un marlin imbalsamato, che sembra vero. “Gli parve di averlo appeso nell’armadio dei suoi sogni irrealizzati e di essere uscito per sempre dalla vita che davvero avrebbe voluto per sé”.

Impressionante lo scenario delle visite alle trincee di Caporetto, con i musei che raccolgono pietosi resti, rimasugli di vite perdute un secolo fa in una guerra assurda, i recuperanti, che vivevano raccogliendo residuati bellici, gli esperti che fanno visite guidate a quello che è una sorta di immenso cimitero senza tombe. Episodi raccolti, forse sognati, che rianimano questa terra dolente.

E ancora un aficionado della corrida, Ermanno Doris, uomo dedito a pratiche estinte, che cerca di creare a casa sua un angolo di Spagna, ma che è stato anche karateka, pittore (di plazas de toros), esperto di spade giapponesi e scrittore in proprio. Sostiene di dovere la vita all’autore, ma lui non saprà mai perché. Vede un’affinità tra la corrida e la letteratura: “La tauromachia resta il massimo esempio , nonostante i trucchi, di una cosa vera e la letteratura è il massimo esempio in virtù dei trucchi e nonostante i pregi, di una cosa finta”. Ma in fondo non è nemmeno così. Resta la aficiòn, un’innocua follia, “gratuita, inattuale, sfolgorante”.

L’ultimo racconto della raccolta, che dà il titolo al libro, è il più tradizionalmente franchiniano. E’ una “famiglia” – un gruppo – di lottatori, con i loro problemi, perché anche i lottatori invecchiano e, anche se esistono combattimenti riservati a chi è più avanti negli anni, possono essere difficili se non patetici. Ma la storia parte da lontano, dal senso ultimo della disciplina, della logica del combattimento, del pensiero del lottatore: “Voi non siete rabbiosi, voi non avete sentimenti, dovete acquisire una mentalità predatoria”. E quando il vecchio lottatore si chiede perché abbia lottato per tutta la vita, deve dirsi che sono tante. “Per gloria e per vanto (…), per amore della bellezza e per sfogo del corpo (…) per abitudine e impossibilità di smettere (…) Le stesse ragioni per le quali ci si impegna in qualunque altra cosa, le stesse ragioni che, quando mancano, inducono a buttarla, la vita”.

Quasi un romanzo a sé “Pesca alla trota in Carnia”, il ritratto di un ragazzo originale, Zanon, “figlio laconico di una terra ingrata”. Un’amicizia fatta  di avventurosi campeggi con pesca subacquea di trota fario (caratteristica: ha la pelle punteggiata di pallini rossi), nelle acque gelide del Tagliamento, con la compagnia di una ragazza bella, apparentemente spregiudicata, inarrivabile, che però forse ha avuto una storia con Zanon; e poi viaggi nella Germania del Nord, alla ricerca di organi bachiani, il suo matrimonio, lo sci, fino a quell’inevitabile distacco che fa perdere per strada gli amici della gioventù, che si incontrano sempre più di rado. La rivedrà, la ragazza, vent’anni dopo; sempre bella, meno originale, imborghesita. Di Zanon sapremo che era diventato ricco, che si era comprato un’isola, che è morto immergendosi nel Tagliamento. Forse pescava trote fario.

Ma forse il più significativo, quello che lascia più chiaro il senso di tutto il libro è il primo racconto, Le leonardiadi, scritto tutto il seconda persona, in cui il protagonista-autore accompagna la figlia a ujna gara per bambijni, alla fine delal quale anche gli adulti potrebbero partecipare a ujna corsa campòestyre, cui però l’autore non parteciperà. “Perché non ha i corso?”, chiederà alla fine la figlia. Ma lui è un genitore e, per fortuna, non deve correre per vincere.

C’è, in tutti questi racconti, in modo diverso ma sempre presente, una malinconia e un senso di morte che fa pensare ad anni che sembrano spensierati, animati dall’ebbrezza di una conquistata autonomia, di sfide a grandi cose, ma che hanno in sé qualcosa di dolente. Il filo conduttore di tutto il libro è l’arrivo della linea d’ombra, quando quell’esaltazione sfuma nella consapevole responsabilità dell’età adulta. Lì viene meno la “mentalità predatoria”, e ci si pongono le domande.

martedì 14 luglio 2020


Le ziette: l’altra parte della famiglia
“Vado a casa delle mie zie, perché io una casa non ce l’ho”. Chi parla è Tino Faussone, il protagonista della Chiave a stella, di Primo Levi. Grande e grosso, capace di montare con le sue manone ponti, tralicci e piattaforme petrolifere, non ha casa e quando, tra un viaggio di lavoro e l’altro, torna a Torino, va dalle zie. “Sono due zie di chiesa, mi ricevono nel salotto buono e mi danno i cioccolatini”, spiega a Levi Faussone; e qui c’è un particolare che fa riflettere. Faussone non dice “due donne di chiesa”, dice “due zie di chiesa”, e con questo ha aggiunto all’indicazione di genere una caratteristica che rende uniche queste parenti. Prima che donne, zie.
“Cosa faremo di questo ragazzo?”, si chiede Betsey, l’energica la zia di David Copperfield, tipico personaggio dickensiano, interrogandosi sul suo futuro. “Io gli farei un bagno”, risponde imperturbabile il signor Dick. La zia Betsey è un tipo che paga regolarmente l’ex marito perché non si faccia vedere e ha un affittuario, il signor Dick (nome allusivo? Chissà) che, anche se non viene esplicitato, sembra vivere more uxorio con la zia. Siamo nella puritana Inghilterra vittoriana, dove già il fatto che la zia abbia cacciato il marito è del tutto al di fuori dai canoni sociali borghesi, e che in sovrappiù  conviva con un uomo addirittura scandaloso. Ma le zie sono così, e per questo rappresentano un originale soggetto letterario.
Compaiono carsicamente, nell’universo letterario, ma sono stelle di prima grandezza. Il loro compito è obliquo, ma spesso centrale. La Sanseverina, zia vedova di Fabrizio del Dongo, presa da tumultuosi rapporti sentimentali, sotterraneamente innamorata del nipote, è un personaggio chiave della Certosa. Una zia di carattere, anticonformista al limite dell’incoscienza, volitiva e incurante di norme e convenienze. Tutt’altra cosa le Sorelle Materassi, emblematiche di un mondo di zie tutte casa e parrocchia, che però perdono la testa per il nipote sciagurato e per amor suo si fanno derubare di tutto.
Ci sono, è vero, importanti zii letterari maschi, dal principe di Salina ai paperi di Disney. Ma non arrivano mai ad avere la peculiarità delle zie. Perché la loro ironia corrosiva, la volontà di dare ai nipoti strumenti per maturare fuori dalle convenzioni e per conquistare una visione del mondo capace di rinnovamento, in conflitto con le tradizioni, rappresenta un formidabile strumento di progresso etico e sociale. Così per Zia Mame, così con In viaggio con la zia di Graham Green, così con la formidabile Zia Julia di Vargas Llosa. Per non parlare delle terribili zie di Jane Austen: quella di Darcy, in Orgoglio e pregiudizio e quella di Fanny Price, in Mansfield Park, tutte e due usate dall’autrice per dimostrare che anche le più tenaci e ostinate opposizioni al cambiamento sociale della modernità non possono che essere sconfitte.
C’è un modello di zia che lascia una traccia indelebile nella letteratura moderna e che giustifica l’idea che il ruolo delle zie, nel romanzo, vada al di  là della semplice parentela. Perché le zie sono spesso un surrogato dei genitori, ma con caratteristiche completamente diverse. Tenere e ingenue, alle volte autoritarie e crudeli, ma anche coraggiose al limite della temerarietà. Hanno un’autonomia, sociale e affettiva, che una madre non può avere. E insieme un ruolo di protettrici se non educatrici che possono esercitare con la libertà che nessun genitore ha. Non hanno gli stessi patemi delle madri, ma possono esprimere un affetto anche più caldo e disinvolto. Non devono essere severe, perché non è da loro che ci si aspetta un’educazione rigorosa, ma possono esercitare una sorta di dominio sotterraneo che le porta a insinuare nei nipoti il tarlo dell’anticonformismo e della ribellione.
Le zie della letteratura sono uno strumento per la comprensione dei modelli di formazione dell’uomo moderno. Un archetipo letterario che lascia il segno: quando in un racconto compare una zia, tutti solleviamo le sopracciglia, allunghiamo le orecchie. Sta per succedere qualcosa. Le zie sono grimaldelli per entrare nelle dinamiche famigliari da una porta laterale, per aprire prospettive inusuali nei problemi della consanguineità, per guardare con un prisma che cambia l’ottica dell’osservazione quello che nascondono le parentele. Le muse di un’umanità in via di sviluppo.
Personaggi formidabili per costruirci intorno un racconto. Tant’è vero che se n’è accorto anche il cinema, in più di un’occasione, com’è accaduto con le terrificanti ziette di Arsenico e vecchi merletti, che seppelliscono i loro pigionanti in cantina. Grazie, zia!