sabato 1 aprile 2017

LA LINGUA BATTE DOVE LA VIRGOLETTA DUOLE

Dopo l’appello dei professori che hanno denunciato il fatto che gli italiani non sanno più scrivere, tutti i media si sono lanciati in un coro di lamentazioni e di inchieste sul perché di questa decadenza della nostra lingua nazionale. Mi ha colpito, in particolare, quanto ho letto su Robinson, il supplemento culturale della Repubblica, il 26 febbraio scorso. Come annunciato in copertina, il fascicolo centrale del giornale era dedicato all’argomento. Grafica originale, firme in un carattere corsivo che faceva pensare alla buona scuola di una volta, disegnini e riquadri esplicativi. Al centro un lieve ma preoccupato Bartezzaghi, che descrive la scarsa capacità degli studenti universitari addirittura di decifrare le modalità di esame; a lato un Venturi che descrive l’utilità di dare lezioni di punteggiatura. Tutte le pagine dedicate al problema della lingua avevano nella fascia alta delle regole per parlar bene l’italiano, condite da divertenti e contraddittori  esempi, stilate da Umberto Eco. Tra queste, una che raccomandava di usare meno virgolette possibili e una che ricordava: “che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso”. Invitava anche a evitare troppe citazioni, e io ho subito trasgredito, come si vede. Ma sono in buona compagnia.
Quel che ho trovato affascinante, impaginato  proprio sotto le regole di Eco, è un ampio pezzo, su quattro colonne, a firma di Francesco Sabatini, eminente linguista, e presidente ad honorem dell’Accademia della Crusca. In circa novemila battute, a occhio e croce, ho contato 16 frasi tra parentesi e 10 termini virgolettati. Sulle parentesi, non posso aggiungere nulla a quanto detto da Eco;  ma non posso non notare che ho trovato poco utile che ci fossero espressioni come docenti di “italiano”disciplina “facoltativa”, insegnare italiano”, “fare da sé”, “indicazioni” ministeriali e via virgolettando.
Cosa è successo? Io ero convinto che le virgolette, quando non contengono una citazione, avessero la funzione di attirare la nostra attenzione sulla parola virgolettata per dirci che è, sì, nel suo significato originario, ma può voler dire anche qualcos’altro, può essere usata in modo metaforico o analogico. Per esempio, se dico: lei parla un italiano “di lusso”, sto facendo dell’ironia su chi sta parlando. Se dico che uno è capace di “pattinare sui problemi”, non intendo dire che usa degli aggeggi a rotelle, ma che scivola con disinvoltura sulle difficoltà.
Ma di quale ironia, di quale secondo significato può trattarsi se si parla di docenti di italiano e di indicazioni ministeriali? Mistero. Del resto, il pezzo di Sabatini, uno dei nostri migliori studiosi, era pieno di informazioni utili e di osservazioni intelligenti, e noi gliene siamo grati.
Forse, in conclusione, il profluvio di interventi sulla scarsa dimestichezza che abbiamo con l’italiano è servito a questo: ci ha fatto capire che, se è vero che gli italiani non conoscono bene la loro lingua, è vero anche che non è tutta colpa loro. Che anche chi insegna, ai più alti livelli, spesso non usa una lingua semplice, fluida, comprensibile a tutti, e quindi non è un buon esempio per chi deve imparare. Che forse la lingua di chi è più colto spesso non esce dalla dimensione del linguaggio accademico, faticoso e idiolettico. E che anche i linguisti più esperti, come tutti noi, possono cadere nelle trappole da cui ci metteva saggiamente in guardia Umbero Eco.