venerdì 8 aprile 2016

DONCHISCIOTTISMO E DINTORNI

Sono rari i personaggi letterari diventati emblematici, proverbiali; in sintesi,degli eroi eponimi, il cui nome rappresenta un modo di essere, una caratteristica psicologica, un archetipo umano. Lo sono Ulisse, come Madame Bovary o Oblomov: personaggi nominando i quali ci riferiamo inequivocabilmente a un paradigma originale. Diciamo odissea per parlare di qualunque sperdimento, bovarismo per ogni aspirazione velleitaria, oblomovismo per l’accidia e la pigrizia più perniciosa. E’ certamente un eroe eponimo anche Don Chisciotte, e non è un caso se ancora oggi, a quattro secoli dalla morte di Cervantes, parlare di “donchisciottismo”, di “battaglie contro i mulini a vento” comunica immediatamente, a tutti, un significante univoco, ampio e profondo.
Eppure Don Chisciotte non è solo un folle, impegnato in uno sventato tentativo di rinnovare le gesta dei cavalieri erranti, e quindi destinato a sicuro fallimento. Certo, la sostanza del romanzo è spesso pesantemente ironica, il “cavaliere dalla triste figura” le prende da tutti, si umilia davanti a personaggi squallidi, è oggetto di scherzi e beffe atroci. Come può succedere, però, probabilmente il personaggio ha finito per andare oltre gli stessi obiettivi dell’autore e Don Chisciotte, nato come macchietta sprovveduta e ridicola, finisce per essere un personaggio drammatico, e per agire in uno schema di conflitti e di contraddizioni che vanno molto al di là della superficie comica che era forse il limite che Cervantes si era posto.
Accade innanzitutto per la dinamica che si crea tra il cavaliere e l’improbabile scudiero: Chisciotte e Sancio sono eredi e progenitori delle coppie oppositive, dei “doppi” che popolano la letteratura. Da Don Giovanni e Leporello fino ad Agilulfo e Gurdulù, la dialettica servo/padrone ha prodotto una sorta di cartina di tornasole per i personaggi letterari nei confronti della realtà. Tanto sono assurdi e romanzeschi i padroni, tanto sono coi piedi per terra i servitori. Tanto sono utopistici e idealistici i valori dei ceti superiori, tanto riportano alla dura realtà quotidiana le materialistiche sensibilità degli scudieri. Insieme, costituiscono gli elementi inscindibili della sostanza dell’uomo. Ed è quello che tratteggiano anche  Chisciotte e Sancio.
Ma accade anche nella rappresentazione dell’eclisse di un ceto: l’aristocrazia, alla fine del Siglo de oro, è in crisi, non ha più né il ruolo né l’autorevolezza avuta fino allora. Le spade e le lance non possono nulla all’apparire della polvere da sparo; l’eroismo cavalleresco si cancella, nel fumo e nel frastuono delle battaglie combattute a colpi di cannone. E la fuga nella lettura dei romanzi cavallereschi di Chisciotte è il sintomo di questo declino. Come lo sono i paesaggi sociali nei quali il viaggio picaresco dei due antieroi si compie. Nelle sue avventure, Chisciotte si confronta con osti, galeotti, contadini, porcare, prostitute, pastori e barbieri. Tutta un’umanità brulicante, che il sognatore Chisciotte scambia per la proiezione di un mondo nobiliare in via di estinzione; mentre sopravviene un ceto popolare, duro e cinico, spesso violento, che prende a calci l’emblema del conflitto di classe: il perdigiorno Chisciotte, smarrito nella difesa di un ruolo obsoleto.
In questa prospettiva tragicomica, Chisciotte finisce per esser, molto modernamente, alienato: non solo per la fuga dalla realtà, ma anche perché sente il vuoto che ha intorno, soffre la mancanza di senso, si confronta con il nulla che rimane, una volta smarrito il proprio ruolo.

Ecco, l’emblema del combattente contro i mulini a vento che è arrivato fino a noi non è solo quello della macchietta che affronta sfide insensate, che non può comunque vincere. E’ anche quello dell’uomo solo, insoddisfatto, di fronte all’enigma della vita, che deve inventare ideali utopistici per sostituire il nulla che sente dentro, una volta persi i punti di riferimenti della tradizione e del passato.   

                                                                                                da "IL LIBRAIO", aprile 2016