venerdì 11 luglio 2014

LIBRO,CULTURA E DEMOCRAZIA


Credo che i buoni libri non debbano fornirci definizioni e interpretazioni forti, ma casomai dubbi e interrogativi. Non mi hanno mai persuaso gli analisti che, con più o meno fortunate sintesi, descrivono la modernità in modo univoco; liquida, solida o gassosa, globalizzata o mucillaginosa, aurorale o escatologica, poco importa. Trovo stimolanti i libri che ci mettono di fronte ai paradossi del presente, ne descrivono le sfaccettature, e non pretendono di indicarci la retta via per capire a che punto siamo del complesso processo storico che ci riguarda. Un millimetro più in là, intervista sulla cultura, di Marino Sinibaldi, a cura di Giorgio Zanchini, Laterza 2014, fa parte dei libri del dubbio, e per questo ci è utile.
“La cultura è un’arma possibile contro la disperazione del nostro tempo”; “La cultura ci può insegnare a mettere tutto in discussione”; “Fare cultura per me vuol dire fare attenzione alle cose belle e intelligenti”; “Per me la cultura, come forma di conoscenza della propria realtà, è la condizione necessaria per autodeterminare la propria vita”; “Quella parte di vita che puoi cambiare […] dipende dalla tua forza, autorità, libertà. Per me la cultura è la condizione per esercitare queste possibilità”.
Ecco, basta questa serie di tentativi di definizione, che segnano il ritmo delle riflessioni del libro-intervista, per capire come Sinibaldi proceda per approssimazioni successive, suggerendo nuovi rami di estensione della ricerca di un concetto univoco. Perché la sostanza del nostro essere cultura è insieme sfuggente e pervasiva: il concetto antropologico di cultura sembra abbracciare tutte le attività umane, mentre una preoccupante propensione alla negazione dei valori della conoscenza sembra invece ridurne l’estensione a circoli elitari, sempre più isolati. E qui l’analisi di Sinibaldi, stimolato da Zanchini, non poteva non addentrarsi nel risvolto culturale che la mutazione tecnologica in atto può produrre.  
La rete, per Sinibaldi, è un’occasione epocale, non solo per le dimensioni smisurate dell’offerta informativa, ma anche per la spinta egualitaria che comporta. E’ vero che malgrado conosciamo più cose, lo facciamo con meno profondità; ma questo non può non comportare maggiore apertura e maggior tolleranza. E internet è una “macchina per la soddisfazione di tutti i desideri di conoscenza e di informazione possibili”. Produce relazioni, senso di  appartenenza. “Tende a configurarsi come il posto dove tutte le esperienze hanno luogo”. E “la molteplicità degli scambi non può che favorire la qualità culturale”. Permette e di scavalcare i parassiti della mediazione, e può persino liberare dalle egemonie culturali, da una società letteraria oligarchica e chiusa. E, anche se per il momento è solo un’ipotesi, la rete rende possibile l’abbattimento della distinzione tra consumatori e creatori di cultura e di informazione.
I problemi però sono altrettanto significativi dei vantaggi. Il rischio è che prevalga in rete il modello per cui si ottengono “risposte veloci, gratuite e mediocri”. Che la mancanza di materialità e di autorevolezza “imponga un sapere senza sostanza, e senza responsabilità”, che “rischia di diffondere una specie di virale irrilevanza delle cose, delle scelte e degli atti di ognuno di noi”. E la maggiore libertà di scelta può significare che ogni gruppo “si concentrerà su quello che preferisce, e sperimenti meno”; che resti confinato nelle sue passioni, nelle sue convinzioni,  e non si metta mai in discussione. “Nella rete sei connesso con tutti, ma prossimo a nessuno”. Gli algoritmi della rete premiano la maggioranza, la quantità prima della qualità. Se può valere per un ristorante, non può essere accettabile per i prodotti culturali: “Non si possono giudicare i libri come le stanze d’albergo”. In definitiva la rete, finora, vive un paradosso perché, malgrado viva di connessioni, “genera un sapere sconnesso”, favorendo forme polverizzate di conoscenza “come se l’attenzione al dettaglio facesse perdere di vista quella dimensione più generale che chiamiamo cultura”.

Zanchini coglie il punto quando chiede a Sinibaldi se crede che sia possibile vivere senza mediatori, e che il progresso della cultura sia quello di emanciparci dalle élites. Sinibaldi dice di sì, anche se poco prima ha ricordato che, senza mediazione, avremmo alle spalle “una distesa irriconoscibile di rovine”; e che c’è bisogno di ricerca, di esercizio, di maturazione. E questa è forse l’osservazione più preziosa. Ogni nuovo medium, ricorda, nasce come una nuova tecnologia, che trasmette saperi e formati già esistenti. Solo a completa maturazione produce un suo modello specifico. Così è accaduto per la stampa a caratteri mobili, così per il cinema, così per la tv. Accadrà anche per la rete. Ma non sappiamo ancora cosa sarà.  

(da "L'Immaginazione", luglio 2014)

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