sabato 27 febbraio 2016

MI SONO IMPICCATO. MI SCUSI

“Lei ce l’ha un figlio? Glielo chiedo perché le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo l’avvocato, ed ero pure bravo”. Chi parla è Salvatore, ora ergastolano, già esponente della delinquenza organizzata di Catania, colpevole di una serie di delitti efferati talmente lunga che non vale nemmeno la pena elencarli. E questa sua analisi, di sociologia spicciola ma non per questo meno rigorosa, la fa al presidente del tribunale che ne sancisce la condanna al carcere con “fine pena: mai”. 
La cosa finirebbe lì se il magistrato non fosse persona sensibile, e il ragionamento dei destini incrociati del bandito e di suo figlio non gli fosse rimasto in mente come un rovello. Avendo colto un fondo di umanità nel delinquente che ha severamente giudicato gli manda, in carcere, un libro.  E’ Siddharta, e la scelta ha un suo motivo: nelle ultime pagine del libro, Herman Hesse scrive: “Mai un uomo, o un atto, è tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo o interamente peccatore”.
Il libro ha un suo effetto: tra il magistrato e l’ergastolano inizia una corrispondenza, rarefatta ma non per questo meno sentita e genuina, che durerà ventisei lunghi anni. E che ritroviamo, con tutti gli strumenti per capire cosa accade, nel frattempo, ai due corrispondenti, in un prezioso volume, Fine pena ora, di Elvio Fassone (il magistrato), pubblicato da Sellerio.
Non è un romanzo, ma un racconto talmente coinvolgente che, alla fine, si ha quasi la sensazione di conoscere personalmente i protagonisti. La cauta comprensione dell’uomo di legge da un lato e la vitalità, via via appannata e alla fine assai smorzata, del carcerato dall’altra. Veniamo a conoscere la carriera esemplare di Salvatore: un fratello grande, delinquente già affermato, “morto sparato”, l’idea di sostituirlo, e un’escalation: “qualche trasporto di droga (che altro vuole che facciamo, là?), qualche lavoretto (scippi), qualche lavoro più grosso (rapina), qualche regolamento di conti (ha sgarrato, ora paga)”. Un po’ come una carriera negli uffici, con le prove per passare da un inquadramento a quello superiore.
Ma Salvatore ha un’intelligenza pronta e immediata e impara, dal confronto con la liturgia giudiziaria, il valore delle istituzioni che non ha mai conosciuto. Ne nascerà l’orgoglio e la determinazione di uscire dall’ignoranza e dalla marginalità, studiando e cercando tutti i modi per affinarsi e trovare delle competenze che, in prospettiva, possano permettergli di arrivare all’agognato lavoro esterno e alla semilibertà.
Quando, dopo anni, arriva la prima giornata di permesso, il contatto con il mondo esterno è traumatico, perché il tempo del carcere è fermo, e Salvatore sembra catapultato in un futuro lontano: “Non sapevo nemmeno camminare. Fuori anche l’aria che si respira è diversa da dentro. E’ tutto nuovo per me, le macchine, la roba che c’è nei negozi, la gente com’è vestita, anche il fatto di pagare con l’euro. (…) Al supermercato c’era una confusione che mi sembrava di impazzire. Al ristorante, non sapevo più stare a tavola”.
Salvatore però è sfortunato: un po’ è lui che, forse per non passare per un “infame”, viene punito assieme ad altri compagni di detenzione, un po’ perché fa il matto quando la fidanzata, che lui sperava lo aspettasse fino a un’ipotetica conquista della libertà lo lascia, i suoi tentativi di meritare un alleggerimento della pena sono vanificati.  E allora scrive: “ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato. Mi scusi”. Ma lo hanno salvato. “Adesso ho ancora un po’ male al collo, ma è passata”. Salvatore, invece di “fine pena mai”, ha deciso che era “fine pena ora”. Una rinuncia a lottare, dopo anni di impegno, lui che non aveva nemmeno finito le elementari, per arrivare a un simulacro di redenzione.

Il tono col quale il magistrato ripercorre i ventisei anni di corrispondenza è pacato ma partecipe. Anche perché sa che Salvatore viene da un mondo che ha una sua legge, sia pure contorta, e un concetto dell’onore, anche se nato dalla violenza e dal conflitto. Ma quello che traspare dalle sue parole è una limpida aspirazione a un minimo di benessere, un po’ di serenità borghese; quello che non ha avuto e la cui assenza ha prodotto il fuorilegge che è stato. Ma il valore del libro è che dà voce a chi di solito non ne ha, ci fa entrare in un mondo che abitualmente non è in grado di esprimersi in pubblico. Con il dramma della segregazione, che è terribile, indipendentemente dalla colpa che l’ha prodotta, e le umane aspirazioni a una vita normale. Anche perché persino la prospettiva della libertà, in definitiva, non è semplice: “Forse mi mancherà questa vita, che ci ho passato più della metà degli anni che ho, ma spero di no”.      

                                                                                        Da "L'immaginazione", Febbraio 2016

Nessun commento:

Posta un commento