lunedì 29 febbraio 2016

SI FA PRESTO A DIRE PRIVATIZZAZIONE

Si discute di Rai: bene. Qualche giorno fa Urbano Cairo, il proprietario de “la 7”, la rete tv, ha lanciato una dura accusa contro la Rai, che avrebbe il torto di fare concorrenza sleale alle tv private perché finanziata, insieme, dal canone e dalla pubblicità. A ruota Pigi Battista, sul Corriere, ha scritto un articolo dicendo che il servizio pubblico televisivo è colpevole di non fare il suo mestiere, di trasmettere programmi  scadenti, di avere troppi dipendenti e quindi di intascare i soldi del canone senza dare in cambio il servizio richiesto. Qualche protesta (timida, in vero) hanno prodotto le più recenti nomine alle direzioni di rete. Ultima arriva la lettera dei 100autori al Direttore Generale (Repubblica, 28/2), che denunciano una stasi produttiva e affermano che “i contenuti Rai hanno perso in larga parte qualunque rilevanza”. Interventi che fanno riflettere. Vediamo.
Due sono i ragionamenti che, a mio avviso, vanno approfonditi, per non lasciare spazio a un’informazione imprecisa. Il primo riguarda l’idea che la Rai lucri sulla pubblicità, oltre che sul canone, e che questo danneggi le emittenti private. Se da un lato è vero che la Rai non potrebbe vivere di solo canone, è vero anche che la legge le impedisce di farcire di pubblicità i suoi programmi, come fanno le reti commerciali. Ecco perché, malgrado abbia un’audience pari a circa un terzo del pubblico nazionale, avendo un limite di affollamento pubblicitario molto più basso di quello delle reti commerciali, raccoglie solo circa un quinto della pubblicità televisiva. Significa che, se fosse una rete commerciale, potrebbe raccogliere molta più pubblicità di quella che raccoglie oggi e che quindi la pubblicità che la legge le impedisce di trasmettere viene raccolta dalle tv commerciali. E’ dunque vero il contrario di quanto dice Cairo: la modesta raccolta pubblicitaria della Rai permette alle tv commerciali di vivere meglio.
Ma è anche vero che la Rai, con le sue risorse, produce altrettanto se non di più di quanto non produce Mediaset, e quindi dà lavoro non solo ai suoi dipendenti, ma anche a un largo indotto, impegnato nella produzione dei prodotti audiovisivi che la Rai trasmette: una ricchezza, per la collettività. E si capisce l’allarme dei 100autori. Se poi si vuol sostenere – a pieno diritto, naturalmente – che i programmi della Rai non sono all’altezza del concetto stesso di servizio pubblico, bisogna anche ricordare che, negli ultimi vent’anni, la dirigenza della tv pubblica è stata nominata da governi alla cui guida c’era il proprietario del maggior gruppo televisivo commerciale in Italia, e che spesso i dirigenti sono venuti direttamente dall’azienda concorrente. Perché stupirsi se c’è stata poca concorrenza? L’allarme era giustificato vent’anni fa, mentre ora vediamo il risultato di una lunga occupazione del servizio pubblico da parte di personaggi che avevano solo interessi privati.
Il secondo ragionamento riguarda il fatto che la Rai fornisca o meno un servizio. Sembra che non vi sia una conoscenza diffusa né delle leggi (la cosiddetta Mammì prima e la cosiddetta Gasparri poi) che regolano l’attività dell’emittente pubblica, né dell’esistenza di un contratto di servizio tra la Rai e il Ministero, che contiene gli obblighi cui la Rai deve adempiere per avere diritto a riscuotere il canone. Sono obblighi molto pesanti, che nessuna rete privata si sognerebbe di affrontare, e che il canone da solo non potrebbe mai finanziare. Cito a memoria. Innanzitutto i canali radiofonici, alcuni dei quali senza pubblicità, e Rai Parlamento, rete che difficilmente potrà mai esser sul mercato. Poi le ventun sedi regionali, che trasmettono radio e telegiornali – senza raccogliere pubblicità locale - anche per platee molto ridotte, come ad esempio il Molise o la Basilicata. Non si deve dimenticare il servizio per le minoranze, per le quali la Rai trasmette nelle lingue delle regioni di confine. Le trasmissioni di Rai International; i canali educativi e per ragazzi. E, ancora, l’attività dell’orchestra sinfonica nazionale, col suo auditorium, a Torino, che è una istituzione fondamentale. E dimentico sicuramente qualcosa.
Il nodo, qui, è legato all’ipotesi di privatizzazione della Rai che pure un referendum, molti anni fa, aveva promosso, e che viene periodicamente ricordata. C’è però un problema: per privatizzare la Rai o bisognerebbe trovare il privato che si faccia  carico di tute queste incombenze senza il contributo del canone, o dell’emittente pubblica si dovrebbe fare uno spezzatino, rinunciare a orchestra, sedi e trasmissioni regionali, Rai parlamento e via dicendo. Ma anche questo produrrebbe dei problemi: se la nuova Rai, privatizzata, raccogliesse tutta la pubblicità che una rete commerciale potrebbe raccogliere con gli ascolti che ha oggi, quanto si lamenterebbero le emittenti commerciali, che oggi lucrano sui mancati introiti della Rai che la legge impone? E ancora: il licenziamento di qualche migliaio di addetti (tecnici, impiegati, dirigenti, giornalisti) impegnati nelle attività di servizio, non sarebbe certo ininfluente sull’economia nazionale. Se è difficile rilanciare i consumi oggi, figuriamoci con migliaia di disoccupati in più. Ma stiamo babbiando, per dirla in camillerese.

Resta il problema della qualità dei programmi. Non entro nel merito, ma certo si può sempre fare meglio, e uno sforzo non guasterebbe. Su questo vedremo alla prova la nuova dirigenza, e forse fanno bene i 100autori a lanciare l’allarme. Ma certo non è il caso di far finta che non ci siano delle regole da rispettare: chi lo dimentica fa della cattiva informazione, gioca sulla sfiducia diffusa nelle istituzioni, stimola soltanto una protesta emotiva e generica. Non parlo di gufi, parlo di chi non informa correttamente e così facendo tradisce, lui sì, il ruolo di servizio che la libera stampa dovrebbe svolgere. La Rai non ne ha bisogno. Ha bisogno di un pubblico attento, di una stampa capace di fare le pulci agli organigrammi, a eventuali dirigenti incompetenti, ai programmi e naturalmente agli sprechi, che pure possono esserci. Ma i manifesti populistici, i ritornelli dell’antipolitica di maniera e le lamentazioni di chi invoca la privatizzazione senza chiedersi cosa significherebbe non fanno bene né alla Rai, né alla qualità dei suoi programmi, né al loro pubblico, e cioè al Paese.      

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