ANVEDI! LA ROMA BUGIARDA DI FILIPPO LA PORTA
Forse è vero
che la sostanza di Roma, come città, sta tutta nel tragitto concettuale che
separa due modi di interloquire che i suoi abitanti usano per commentare ogni
fenomeno che entri a far parte della loro esperienza: “Anvedi!” e
“Chettefrega?”. Il primo, una manifestazione di pacato stupore per la varietà
degli aspetti del mondo, e l’altro, un po’ pateticamente menefreghista, tipico
del distacco un po’ cinico di una popolazione che “non crede in alcuna
dialettica storica poiché in vita sua ne ha viste troppe”.
Sono tra le
prime note che incontriamo nella perlustrazione dei luoghi della capitale che
fa Filippo La Porta nel suo Roma è una
bugia, uscito nella fortunata collana “Contromano” di Laterza. Indagine
particolarmente complessa, non solo perché la nostra capitale è un palinsesto
di evi storici, di stili architettonici e di tracce di cultura che si sono
sovrapposte e conglomerate negli ultimi 2.500 anni, creando un groviglio
sublime quanto inestricabile; ma anche perché se Roma c’è ancora, i romani, invece,
da tempo, non esistono più.
Assottigliatisi
a una piccola fetta della città imperiale, i veri romani ormai sono
probabilmente quasi tutti concentrati in rioni periferici. Dunque l’identità
romana è artificiosa, non ha radici. I due milioni e passa di romani di oggi
sono di recente immigrazione: arrivati, nei secoli, con le ondate di
urbanizzazione, e soprattutto con quelle successive al trasferimento della
capitale dopo l’Unità. Giustamente La Porta ricorda che probabilmente l’unico
nucleo autenticamente romano, la memoria storica della città, stabile nella
capitale non solo d’Italia, ma del cattolicesimo, dal secondo secolo prima di
Cristo, è – paradossalmente - quello della comunità ebraica. Al ghetto, non a
caso, “si trova la cucina verace di Roma”. Cibi “torbidi e insolenti” – La
Porta cita Manganelli – fritti e frattaglie, pesanti e poveri, ma di vera
tradizione. E si trova anche “il fondo insondabile del temperamento romano,
composto di giocosa tolleranza e dolce sbracatezza”.
Ma La Porta,
invece, è un romano vero. Per questo il suo libro, e non poteva essere
altrimenti, è insieme un addentrarsi nei singoli rioni e nei loro monumenti, e
una autobiografia a sprazzi, fatta dell’incrociarsi dei tragitti della vita
dell’autore con i luoghi significativi della città. A cominciare dall’Aventino,
una sorta di enclave borghese, tranquilla al limite del surreale, a due passi
dal rumoroso Testaccio e dalla monumentale Caracalla. Tutti posti che sono
stati, volta a volta, scenari di famosi film, abitazioni di scrittori e poeti,
oggetto di descrizione di intellettuali in transito. Un rione di ambasciate,
chiese, di gente che viaggia, quasi l’emblema di una città che contiene un
enigma: perché è il teatro “di un’apocalisse sempre rinviata”, di qualcosa che
sembra sempre sul punto di finire, di dissolversi.
E ancora lo
spazio di piazza del Popolo, metafisico, quasi deserto, tanto da far quasi
rimpiangere il tempo in cui era un immenso parcheggio; o di Trastevere, zona un
tempo popolaresca e rissosa, oggi concentrato di turisti in cerca si esotismo
capitolino. Il Pantheon e gli obelischi, via Merulana, i Parioli, nella loro
“scintillante automitologia”; il liceo frequentato da La Porta, e i cimiteri, a
partire da quello acattolico (“degli inglesi”, per i romani), con le ceneri di
Gramsci. Fino alle periferie, fino a quella specie di cinta muraria di
automobili che è il GRA.
Raccogliendo i
fili delle testimonianze di scrittori italiani e stranieri, La Porta viene
costruendo la trama della sostanza di una città inafferrabile. Perché è vero
che Roma “assolve ogni peccato”, per tornare a Manganelli, e “possiede
un’infinita, saggia tolleranza”. Ma è anche vero che la sua pigrizia
fisiologica sembra coprire un vuoto, un bisogno di prendere tempo di fronte a
una fondamentale mancanza di vere prospettive. Perché Roma è anche una sorta di
grande laboratorio nazionale dove, quasi nell’indifferenza, ciò che cambia
viene sperimentato per diventare fenomeno diffuso. A partire dal momento in cui
a Roma (e in particolare alla Rai, aggiungo io) si è consumata una frattura tra
la cultura dell’industria e quella dell’accademia, che ha prodotto il declino
di cui oggi portiamo le conseguenze. O si sono lanciati i progetti di grandi
opere architettoniche, in definitiva di poca sostanza, che hanno drenato i
finanziamenti che sarebbero bastati per un’infinità di opere piccole, che
avrebbero potuto essere necessarie e salvifiche.
C’è, nella vita
romana, come una sensazione di
struggimento, di dissoluzione, confortata dall’imprecisione degli appuntamenti,
dalla approssimazione degli impegni presi. Lì, dice de Quevedo, “il fuggitivo
permane e dura”. Ecco perché, per La Porta, Roma è una bugia. Perché finge,
inganna – se e gli altri. Dietro le sue scenografie barocche, dietro i suoi tramonti
“che promettono una felicità illusoria”, rinviando, procrastinando, cerca di
evitare che la sua eternità diventi caduca.
(Da "L'immaginazione", n. 283)
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