DONCHISCIOTTISMO E DINTORNI
Sono rari i
personaggi letterari diventati emblematici, proverbiali; in sintesi,degli eroi eponimi, il cui nome rappresenta un
modo di essere, una caratteristica psicologica, un archetipo umano. Lo sono
Ulisse, come Madame Bovary o Oblomov: personaggi nominando i quali ci riferiamo
inequivocabilmente a un paradigma originale. Diciamo odissea per parlare di
qualunque sperdimento, bovarismo per ogni aspirazione velleitaria, oblomovismo
per l’accidia e la pigrizia più perniciosa. E’ certamente un eroe eponimo anche
Don Chisciotte, e non è un caso se ancora oggi, a quattro secoli dalla morte di
Cervantes, parlare di “donchisciottismo”, di “battaglie contro i mulini a
vento” comunica immediatamente, a tutti, un significante univoco, ampio e
profondo.
Eppure Don
Chisciotte non è solo un folle, impegnato in uno sventato tentativo di
rinnovare le gesta dei cavalieri erranti, e quindi destinato a sicuro
fallimento. Certo, la sostanza del romanzo è spesso pesantemente ironica, il
“cavaliere dalla triste figura” le prende da tutti, si umilia davanti a
personaggi squallidi, è oggetto di scherzi e beffe atroci. Come può succedere,
però, probabilmente il personaggio ha finito per andare oltre gli stessi
obiettivi dell’autore e Don Chisciotte, nato come macchietta sprovveduta e
ridicola, finisce per essere un personaggio drammatico, e per agire in uno
schema di conflitti e di contraddizioni che vanno molto al di là della
superficie comica che era forse il limite che Cervantes si era posto.
Accade
innanzitutto per la dinamica che si crea tra il cavaliere e l’improbabile
scudiero: Chisciotte e Sancio sono eredi e progenitori delle coppie oppositive,
dei “doppi” che popolano la letteratura. Da Don Giovanni e Leporello fino ad
Agilulfo e Gurdulù, la dialettica servo/padrone ha prodotto una sorta di
cartina di tornasole per i personaggi letterari nei confronti della realtà.
Tanto sono assurdi e romanzeschi i padroni, tanto sono coi piedi per terra i
servitori. Tanto sono utopistici e idealistici i valori dei ceti superiori, tanto
riportano alla dura realtà quotidiana le materialistiche sensibilità degli
scudieri. Insieme, costituiscono gli elementi inscindibili della sostanza
dell’uomo. Ed è quello che tratteggiano anche
Chisciotte e Sancio.
Ma accade anche
nella rappresentazione dell’eclisse di un ceto: l’aristocrazia, alla fine del Siglo de oro, è in crisi, non ha più né
il ruolo né l’autorevolezza avuta fino allora. Le spade e le lance non possono
nulla all’apparire della polvere da sparo; l’eroismo cavalleresco si cancella,
nel fumo e nel frastuono delle battaglie combattute a colpi di cannone. E la
fuga nella lettura dei romanzi cavallereschi di Chisciotte è il sintomo di
questo declino. Come lo sono i paesaggi sociali nei quali il viaggio picaresco
dei due antieroi si compie. Nelle sue avventure, Chisciotte si confronta con
osti, galeotti, contadini, porcare, prostitute, pastori e barbieri. Tutta
un’umanità brulicante, che il sognatore Chisciotte scambia per la proiezione di
un mondo nobiliare in via di estinzione; mentre sopravviene un ceto popolare,
duro e cinico, spesso violento, che prende a calci l’emblema del conflitto di
classe: il perdigiorno Chisciotte, smarrito nella difesa di un ruolo obsoleto.
In questa
prospettiva tragicomica, Chisciotte finisce per esser, molto modernamente,
alienato: non solo per la fuga dalla realtà, ma anche perché sente il vuoto che ha intorno, soffre la
mancanza di senso, si confronta con il nulla che rimane, una volta smarrito il
proprio ruolo.
Ecco, l’emblema
del combattente contro i mulini a vento che è arrivato fino a noi non è solo
quello della macchietta che affronta sfide insensate, che non può comunque
vincere. E’ anche quello dell’uomo solo, insoddisfatto, di fronte all’enigma
della vita, che deve inventare ideali utopistici per sostituire il nulla che
sente dentro, una volta persi i punti di riferimenti della tradizione e del
passato.
da "IL LIBRAIO", aprile 2016
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