BATTIATO, LA LETTERATURA
E LA GRANDE SFIGA GIOVANILE
Curioso, però, che Battiato abbia lasciato
segni tanto significativi in diverse generazioni di giovani. Ma se ne trovano
tracce diffuse, e questo dovrebbe pur dire qualcosa, visto che si tratta di un
cantante che è stato anche un poeta e – al seguito di Sgalambro - un po’ un
pensatore, di taglio mistico-esoterico. Lo cita Enrico Brizzi, nel suo Tu che sei di me la miglior parte
(Mondadori), quasi a dare un segno interpretativo a un racconto tutto in presa
diretta, senza riflessioni né valutazioni morali. La storia è quella di un
gruppo di amici, raccontata dall’infanzia a una gioventù senza maturazione, con
i passaggi dai primi turbamenti del protagonista, molto ben inserito in una
famiglia tanto disordinata quanto sincera, fino a una spirale di devianza e di
conflitti, un po’ di sesso e qualche momento di violenza.
I piccoli cannibali crescono, e dai
tempi di Jack Frusciante qualcosa è
cambiato, ma la chiave del narrare di Brizzi rimane fondamentalmente la stessa.
Se le vicende sono rese con una partecipazione affettuosa e ironica, la
sostanza resta quella del diffuso filone della Grande Sfiga Giovanile. Un modello narrativo che va
dall’autocoscienza dei gruppi di compagni di scuola fino al girovagare senza
meta di chi, finita la scuola, si è ritrovato senza né sogni né desideri, in un
mondo che permette di sopravvivere e persino di fare esperienze, ma non di
vivere autenticamente. Succede anche ai protagonisti di quest’ultimo libro, che
seguiamo con simpatia nella loro lenta discesa verso il nulla, pieni di
baldanza giovanile e fragile ingenuità. I primi amori, la scoperta del sesso,
la voglia di avere e di essere, lo sballo, soldi facili, qualche sosta in
carcere, il distacco e la negazione di valori consunti.
Credo che Brizzi abbia descritto,
ancora una volta, con precisione e partecipazione, i riti di passaggio della
sua generazione. A me però sembra che resti ancorato a una visione quasi
estatica di un vuoto di contenuti. Quasi che i suoi protagonisti non avessero
nessuno strumento per interpretare la realtà, come invece ogni
generazione non può evitare di produrre.
La traccia di Battiato che usa
Francesco Piccolo, invece, sta proprio nel titolo del suo L’animale che mi porto dentro (Einaudi), ma il modello narrativo è
tutt’altra cosa. Qualcuno parlerà di autofiction,
ma a me pare più evidentemente un’autobiografia. Piccolo non prende mai
distanza dal suo racconto, parla sempre e solo di sé, senza né falsi né veri
pudori, e senza che la trasfigurazione letteraria trasformi l’esperienza
personale in narrazione romanzesca.
Anche qui abbiamo un racconto di formazione,
dall’infanzia ai primi turbamenti sentimentali e alle prime esperienze erotiche,
fino a un’autoanalisi, che si vuole spietata, del proprio essere incapace di
uscire da un’educazione violenta e dall’abitudine a vivere gli impulsi e i
condizionamenti del “branco”. Tutto il libro è una descrizione dell’impossibilità
di superare lo stereotipo del comportamento virile, del cinismo e della animalità
nella visione del sesso e del senso di appartenenza a un mondo fatto di
bullismo, prevaricazione, menzogna e brutalità.
Non si può non leggere con
partecipazione la descrizione di una crescita segnata dalla vita della
provincia meridionale, da un padre violento, da aggressività incontrollata
nello sport, da acne adolescenziale, da ansia di integrazione alle bande giovanili,
fino all’esibizione delle conquiste femminili e ai rapporti sessuali come prova
di forza.
Piccolo intervalla la descrizione
della propria impulsività con le esperienze estetiche: Malizia di Samperi, il Sandokan di Salgari, il Padrino, il fumetto di Lando, Amore senza fine di Zeffirelli, Houllebecq e la canzone napoletana.
Sono intermezzi che descrivono il Piccolo-protagonista come uomo capace di
proiettare il proprio io nei canoni della narrazione popolare e nel consumo
della cultura di massa. Se si supera l’imbarazzo per il fatto che la parola
c….o ricorre con una frequenza quasi superiore a quella delle congiunzioni, se
ne trae un ritratto forse sincero, ma corrucciato e inquietante di come anche
l’intellettuale più esercitato all’uso di strumenti di analisi psicologica
possa avere difficoltà a controllare impulsi primordiali. Ed è curioso come,
proprio nella descrizione di questo machismo incontrollato, lo
scrittore-protagonista guardi a se stesso con un sentimentalismo quasi
altrettanto ingenuo e compiaciuto.
La sensazione è che neppure Francesco
Piccolo sia sfuggito al canone della Grande
Sfiga Giovanile, ma l’abbia fatto redigendo un’autobiografia di voluta spudoratezza
e – nel suo caso - di esibito autocannibalismo. E lascia il dubbio che le
autobiografie dovrebbero essere consegnate a un tempo futuro, in cui esperienze
e veemenze siano state elaborate e metabolizzate fino in fondo.
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