L'INCANTAMENTO DIGITALE
E IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA
Per un curioso paradosso negli Stati
Uniti, il paese che è sempre stato in prima linea nelle innovazioni
tecnologiche e nello sviluppo dei media, si sono diffuse le critiche più
radicali – e spesso superficiali – dei processi in atto. Non ci ricordiamo
nemmeno più dei Persuasori occulti,
di Vance Packard, che alla fine degli anni Cinquanta ci metteva in guardia
dalle forme più subdole di pubblicità e pure ha avuto grande diffusione; si
sono persi nel tempo gli studi apocalittici sullo sviluppo della comunicazione
televisiva, come i Tre topolini ciechi,
di Ken Auletta; per venire a oggi, è dall’America che vengono i più duri atti
d’accusa al Web e ai suoi effetti, a cominciare da quello di Nicholas Carr, col
suo Internet ci rende stupidi? , per
arrivare a Proust e il calamaro e il
più recente Lettore, vieni a casa, di
Maryanne Wolf.
Sono libri che soffrono di un taglio
divulgativo che non si propone tanto di indagare in profondità, quanto di indirizzarsi piuttosto verso una critica superficiale e umorale. Un saggismo
che tiene conto soprattutto delle posizioni tradizionalistiche degli ambienti
accademici, e rappresenta una sensibilità conservatrice, che affonda le sue
radici in una lettura forse un po’ approssimativa della scuola di Francoforte.
Sarà per la solida tradizione
umanistica, che in Italia informa anche gli studi di sociologia della
comunicazione, ma è da noi che, spesso, arrivano i lavori più originali e
aggiornati sui nuovi media. Il più recente è un libro scritto a quattro mani da
Giovanni Solimine e Giorgio Zanchini, La
cultura orizzontale, edito da Laterza. Originalità che inizia dal titolo,
che rappresenta la prospettiva con la quale gli autori guardano al modo in cui
si organizza, oggi, la trasmissione delle cultura e del sapere. Una
trasmissione ad andamento orizzontale, appunto, senza intermediazioni, che ha
obliterato le professioni e le competenze e ha “scardinato il sistema di
accesso alla conoscenza a cui eravamo abituati”. Ma questo è un dato di fatto,
non un giudizio, e il libro è
un’indagine senza pregiudizi, che parte da un’analisi obiettiva di come è
cambiato il paradigma dei processi comunicativi nell’epoca della comunicazione
digitale, focalizzata in particolare sui comportamenti giovanili.
Di fronte allo straordinario flusso
di informazioni veicolato dalla rete, notano gli autori, dobbiamo tener conto
da un lato dell’arretratezza degli intellettuali, chiusi in un sapere
autoreferenziale, e dall’altro di
un’alfabetizzazione incompiuta. Malgrado l’alto livello mondiale di
scolarizzazione, l’ignoranza non ha mai esercitato tanto fascino come oggi.
Colpa della rete? Anche, ma anche di una crisi di autorevolezza delle
istituzioni, che non hanno avuto la capacità di cogliere i segnali di cambiamento.
La rete dunque mette a disposizione una quantità di dati finora inimmaginabile,
illusoriamente gratuiti, ma ai quali si arriva spesso in modo non intenzionale,
e non è facile avere gli strumenti per decifrarli, organizzarli e leggerli con
competenza. C’è ancora, dunque, la necessità di mediazione; perché la rete è un
ambito di grande libertà, ma “non predisposto alla parità delle condizioni di
partenza”. E quindi “qualcosa della verticalità rimarrà”, dicono gli autori,
perché acquisire informazioni, di fronte al surplus cognitivo, necessita di un
mediatore, che permetta “una appropriazione controllata delle forme culturali”.
E’ difficile però immaginare chi saranno i mediatori del futuro. Certo non
quelli del passato, e se i giornalisti e gli intellettuali hanno ancora un
ruolo, oggi si trovano in competizione con i nuovi attori della cultura
orizzontale, dagli influencers agli yuoutubers, dai bloggers agli stessi potentissimi motori di ricerca.
Il libro dà conto, con un’indagine
approfondita, di come la comunicazione digitale sta cambiando i diversi
comparti del consumo culturale: dal libro alla tv, dalla musica al videogioco,
dalla radio al cinema. Le novità più significative mi pare emergano
dall’analisi del modo in cui ci si informa nell’epoca della disintermediazione.
Qui il giornalismo tradizionale si trova a confrontarsi con un sistema
ibrido, nel quale le notizie possono
arrivare – come anticipato dagli studi di Lella Mazzoli - attraverso la crossmedialità: dai mezzi più
diversi e da fonti spesso non autorevoli, come lo user-generated content. E’ un universo in cui il flusso informativo
si mescola con le relazioni dei social
networks , in un “circolo narcisistico”, una sorta di conversazione
ininterrotta. Interessante la riflessione sul fenomeno del FoMo, Fear of Missing Out, il timore di
perdere la connessione, che produce una sorta di malattia conformistica che
costringe all’iterazione di contatti tra fruitori che condividono gli stessi
interessi e valori.
Solimine e Zanchini, pur essendosi
proposti come ambito di ricerca solo le pratiche culturali in rete, con
particolare attenzione ai comportamenti giovanili, ammettono che l’essersi
formati in periodo pre-internettiano fa correre loro il rischio di cadere in
trappole nostalgiche. Malgrado lo sguardo obiettivo, però, la conclusione non
può essere ottimistica. Se è vero, come indicato dagli autori, che “il consumo
critico di informazione rischia di essere un privilegio di minoranze”, l’orizzontalità
può essere un fenomeno che “stride con
il pluralismo che la rete propaganda come sua bandiera”, perché non supera il forte
iato tra chi ha e chi non ha gli strumenti per orientarsi nella ridondanza
informativa. Qui il libro ci pone di fronte a un elemento di allarme che è
ricorso a più riprese, in vari contesti, negli ultimi anni: le correlazione tra
l’uso dei nuovi media e la crescente sfiducia nel sistema democratico, nella
politica e nelle istituzioni. Né è
facile immaginare chi possa presiedere alla riorganizzazione dei saperi e alla
certificazione della veridicità delle informazioni in un universo che rifiuta
la mediazione e non riconosce le
competenze. Una preoccupazione che gli autori attribuiscono agli studiosi del pensiero classico: che
l’incantamento del mondo digitale abbia “l’effetto di inibire il processo di
maturazione che avviene nel continente profondo”. Difficile non essere
d’accordo. Il prevalere dello sguardo veloce e superficiale è già in atto. La
rete non cambia solo il flusso della comunicazione; ci cambia dentro, tutti.
Mi permetto di aggiungere una mia riflessione.
Mi pare certo è che l’orizzontalizzazione
non stia aprendo la strada di una nuova democrazia della cultura, ma che
ci sia il rischio invece che apra due percorsi, uno politico e uno sociale,
ambedue recessivi. Da un lato, con la morte delle ideologie e la crisi dei
partiti tradizionali, sembra farsi avanti – non solo in Italia - una classe
politica fatta di soggetti che non hanno un progetto proprio, ma elaborano opportunisticamente
le proprie strategie elettorali sul modo in cui l’opinione pubblica si aggrega
intorno a sensibilità occasionali, legate a campagne stampa spesso basate su
notizie imprecise se non false. Dall’altro sembra delinearsi un nuovo
tribalismo, costituito da circoli ristretti, concentrati su interessi particolari
e su valori acquisiti acriticamente. Una frammentazione, un processo di
parcellizzazione sociale che non va nella direzione della modernità, ma a spinte
anarcoidi e a un ritorno a fenomeni di rifiuto del principio di responsabilità
collettiva e di delega agli organismi costituzionali.
Nel momento in cui dobbiamo proporci
di uscire dalla gravissima crisi prodotta dalla pandemia del coronavirus, abbiamo
bisogno di ripensare in modo profondo i nostri rapporti con le istituzioni e di
elaborare un progetto di società sul quale investire per il futuro. Per farlo,
sarà necessario superare i tribalismi e gli opportunismi, perché l’idea che
tutto possa tornare come prima è illusoria, ma soprattutto pericolosa.