MANZONI E LA LETTURA: UNA BIRBANTERIA
Poiché non mi risulta che qualcuno ci
abbia pensato prima, non stupirà, dato il peso che il libro ha nella
costruzione dell’identità nazionale e dell’immaginario collettivo degli
italiani, che ci si chieda che ruolo abbiano, nei Promessi sposi, la lettura e la cultura in generale.
Abbiamo tutti in mente quel
“Carneade! Chi era costui?”, del pavido don Abbondio che legge, ignaro della
burrasca che sta per addensarglisi sul capo, “seduto sul suo seggiolone”, in
“un libricciolo”. Povero prete; il Manzoni non si fa scrupoli nel descriverne
il carattere codardo, ma a ben guardare dovremmo avere un po’ di rispetto per
questo curato di campagna che non sa bene chi sia Carneade, del quale pure il nome “mi par
bene d’averlo letto o sentito”, e almanacca su che tipo di “letteratone del
tempo antico sia”. Perché – ci informa subito dopo l’autore, il curato “si
dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva
un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva
alle mani”. Ora, a parte questo curioso
metodo di leggere a casaccio il primo libro a disposizione, è bene ricordare
che stiamo parlando di epoca in cui la lettura non era certo abitudine diffusa,
e il fatto che don Abbondio (certo, non aveva altri svaghi) leggesse abitualmente,
ne fa un piccolo eroe dell’aggiornamento professionale. Almeno rispetto a
quanto – a giudicare dalle statistiche – si legge oggi.
Del resto veniamo informati che né
Renzo né Lucia né Agnese sono alfabetizzati; sanno a stento leggere lo
stampatello, ma le lettere che si scambiano sono scritte da scrivani e poi
lette da terzi di fiducia, con il risultato un po’ grottesco – tipo telefono
senza fili – che le notizie per strada si aggrovigliano e confondono, finendo
per produrre più confusione che informazione. Né vi è nessuno che, nei lunghi
mesi passati da Lucia nel convento di Monza, si sogni di insegnarle a leggere
nemmeno un messale. Segno evidente che l’idea di alfabetizzare i poveracci non
solo non era obiettivo dei religiosi, ma forse addirittura cosa da evitarsi in
quanto pericolosa e inadatta a un popolo che è bene non si avvicini troppo alla
conoscenza.
A ben vedere, dopo il cenno a
Carneade, non sentiremo più parlare di libri finché non si arriverà ai capitoli
del rapimento di Lucia. Qui troviamo un cenno al fatto che le opere di carità
di Federigo Borromeo non si limitano al sostegno alla povertà, che “potrebbero
forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa”, ma arrivano alla
costituzione della biblioteca Ambrosiana, costata cinquecentomila scudi, costituita
mandando in giro per l’Europa e perfino nel Medio Oriente studiosi a
raccogliere il meglio disponibile sul mercato. Una raccolta di trentamila
volumi, quindicimila manoscritti, e studiosi stipendiati per studiare e pubblicare
i testi che poteva suggerire il
materiale a disposizione. Manzoni si dilunga nel raccontarne le meraviglie e
conclude con acume: ”Non domandate quali siano stati gli effetti di questa
fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile mostrare (…) che
furono miracolosi, o che non furono niente”. Infatti è tentativo inane dare
conto, specie allora, con cifre o dati certi, di cosa produca la presenza di
una biblioteca in una comunità. Ma conclude riflettendo su quanto fosse stata
giudiziosa l’iniziativa “in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a
quell’antipatia generale per ogni applicazione studiosa”. Vien fatto di dire
che si tratta di difetti ancora fortemente radicati nel paese.
Si torna a parlare di libri poco
dopo, quando Lucia viene accolta nella famiglia di un sarto che “è uomo che
sapeva leggere”. Per un sarto, un’originalità, tanto che “passava, in quelle
parti, per un uomo di talento e di scienza”. Le letture del sarto in verità non
sono un gran che: il Leggendario dei santi,
il Guerrin meschino, i Reali di Francia. Ma questa spolverata
di sapienza ne fa un intellettuale, tanto che, commentando l’apparizione tra i
paesini del lecchese del cardinal Federigo, è il sarto a far sapere che “ha
letto tutti i libri che ci sono, cosa a cui non è mai arrivato nessun altro, né
anche in Milano”. Quando si parla di miracoli.
Si riparla del sarto, dal quale Agnese
e don Abbondio si fermano per “una fermatina”, di ritorno dal castello
dell’innominato, dopo il passaggio dei lanzichenecchi. Nel dialogo tra i due
intellettuali, Manzoni fa dire al sarto, a proposito delle disgrazie occorse,
che “s’ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte”. Per
farci capire che il sarto, consapevole di essere stato testimone di qualcosa
che ha valore di testimonianza storica, vorrebbe che questa fosse resa
immortale con la pubblicazione di apposite memorie. Excusatio non petita del Manzoni, che ci ha pensato lui, nelle
lunghe pagine precedenti, che descrivono l’invasione barbarica, e ora sta solo giustificando
lo spazio che vi ha dedicato.
So bene che non bisogna mai giudicare
i grandi del passato senza considerare il contesto in cui agivano. Ma le
rarefatte apparizioni di libri e di lettori ci hanno, fin qui, dato la
sensazione che il Manzoni abbia una sorta di visione un po’ elitaria, se non
sarcastica, della possibilità di far arrivare barlumi di conoscenza a chi non
abbia solide basi intellettuali. La citatissima descrizione della biblioteca di
don Ferrante, e della sua misera fine, ne dà un’ulteriore prova. Manzoni
ironizza sul fatto che si fosse rassegnato al fatto che “gli universali,
l’anima del mondo, la natura delle cose non eran cose tanto chiare quanto si potrebbe
credere”. E forse non aveva torto. Ma non si ferma qui, e lo ridicolizza
dicendo che della filosofia naturale s’era fatto più un passatempo che uno
studio, che Aristotele e Plinio li aveva più letti che studiati e via maltrattando,
con bruschi passaggi dalla stregoneria al Machiavelli (“mariolo ma profondo”),
concludendo che aveva titolo di professore soltanto per la scienza cavalleresca
e i codici d’onore. Che poi di fronte al contagio don Ferrante, ritenendo non
trattarsi né di sostanza né di accidente, non prendesse precauzione alcuna e
morisse di peste “come un eroe di Metastasio”, ancora una volta il Manzoni lo
racconta come un fatto umoristico, con un malcelato sogghigno.
Un giudizio, a me pare, assai severo,
considerando che il povero don Ferrante è un autodidatta, vive in un’epoca di
rarefatti scambi culturali, e già il fatto che si fosse imposto di dominare
discipline così distanti ne fa un ardimentoso combattente per la conoscenza.
Che i risultati non fossero straordinari, in fondo, era più che logico. Ma il nostro,
ridicolizzandolo, continua a far filtrare, forse suo malgrado, un’acredine,
tradisce un’alterigia aristocratica cha fa pensare che per lui il borghese, se
proprio non doveva limitarsi ad essere un “vil meccanico”, al massimo poteva
dedicarsi a magnificare la preghiera e la carità cristiana.
Non è da meno la descrizione di come
i sapienti del tempo parlassero di malattie e veleni, utilizzando i libri come
strumento di mistificazione. A partire dai “dotti (… che ) vedevano l’annunzio
e la ragione insieme de’ guai in una cometa”, come dimostrato da un libro, Specchio degli almanacchi perfetti, che
“correva per le bocche di tutti“; per seguire con le Disquisizioni Magiche del Delrio che – e qui forse Manzoni non ha
torto – furono “impulso potente di legali, orribili, non interrotte
carneficine”. “Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità,
esempi di peste manufatta”, indotta artificialmente, insomma. Della voce del
volgo, conclude Manzoni, “la gente istruita prendeva ciò che si poteva
accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva
ciò che ne poteva intendere”. Un giudizio amaro, ancorché, purtroppo, in parte ancora
valido (par di sentire certi insensati allarmi sociali di oggi), sulla difficoltà
di essere intellettualmente onesti, e di essere onestamente informati.
Potremmo dire che un briciolo di
speranza, nella possibilità di accesso alla conoscenza dei poveracci, il
Manzoni ce lo dimostra quando, verso la fine del libro, parlando dei molti
figli avuti dagli sposi, dice che Renzo “volle che imparassero tutti a leggere e a scrivere”; ma mi pare che si
tradisca un po’ anche qui, quando lo fa concludere dicendo che “giacché c’era
questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro”. Birberia,
l’alfabetizzazione! Ma santo cielo.
Un dettaglio, per concludere. Quando
don Abbondio viene incaricato di andare a recuperare Lucia al palazzo
dell’innominato, deve montare una mula. Pavido come sempre, il nostro si
informa se la bestia sia quieta. “Si figuri”, risponde l’aiutante di camera che
lo fa montare, “è la mula del segretario, che è un letterato”. Spiegazione non
sorprendente, rivelatrice dell’atteggiamento diffuso per la cultura, e non solo
nel ‘600: saper di latino non coincide col saper cavalcare. Insomma: natura e
cultura, ci ammonisce Manzoni, raramente vanno d’accordo.
da "l'IMMAGINAZIONE", MARZO 2020
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