IL GIORNALISMO CULTURALE E LA CULTURA
DIVERGENTE
C'era una
volta la Cultura con la C maiuscola. Erano tempi in cui solo una ristretta élite rappresentava la parte di un paese
che si esprimeva in pubblico, che aveva gli strumenti necessari per parlare,
scrivere, fare arte e musica e, in definitiva, per determinare le scelte di una
nazione. Anche nelle democrazie moderne, a lungo, c'è stata un'oligarchia della
conoscenza, una piccola percentuale della popolazione destinata a detenere gli
strumenti di trasmissione del sapere come del potere.
Nella
seconda metà del '900 si è fatta strada una nuova definizione di cultura, per
così dire con la c minuscola. E' quella che, invece di riferirsi soltanto alle
zone di produzione creativa intellettuale ed artistica, si riferisce più
ampiamente all'insieme di valori, di usi, di comportamenti, di tradizioni e di
espressione estetica che sono patrimonio comune di un intero popolo, e non
delle sole élites. Ha avuto inizio
così un cambiamento che, allargando a tutta la popolazione di un paese la base
produttiva di fenomeni culturali, produce la nuova identità di una nazione.
Qualche
anno fa Henry Jenkins, in Cultura
convergente (Apogeo, 2007), descriveva il rapporto interattivo tra vecchi e
nuovi media come un processo che porta i diversi mezzi di comunicazione a
fondersi tra loro e mette in comunicazione i due livelli di cultura di cui
abbiamo parlato. Un processo che avrebbe, secondo l’autore, liberato nuove
energie culturali e intellettuali, in particolare per la democratizzazione
della produzione di informazione e sapere che si è aperta con il diffondersi
dell’uso della rete.
Questo
nuovo modo di intendere la cultura ha naturalmente inciso sul giornalismo
culturale. E avrebbe dovuto incidere anche sul giornalismo in generale e sulla
comunicazione di massa nel suo insieme. Il passaggio da una comunicazione di
massa, fatta però con criteri di élite, a una comunicazione veramente aperta a tutto
il corpo sociale, avrebbe dovuto provvedere ciascuno di un bagaglio conoscitivo
tale da rendere tutti preparati al compito di essere cittadini partecipi e
consapevoli.
Cos’è
accaduto, invece? C’è stato, per usare un termine medico, una sorta di effetto paradosso. La democratizzazione
si è dimostrata illusoria perché, invece di aprire il rimescolamento e la
compenetrazione di due universi poco permeabili, i cambiamenti e i nuovi media
hanno fatto sì che la cultura alta si
sia, per certi versi, ulteriormente isolata e la cultura bassa abbia avuto un’involuzione deteriore. La alta continua ad avere un suo spazio, è poco incline ad aprirsi a
un pubblico non specializzato e agisce in un universo chiuso. Mentre la bassa si è ulteriormente adeguata al
livello più corrivo della comunicazione commerciale, rinunciando a puntare
all’apertura ai più del pensiero della comunità intellettuale, ma occupando in
compenso buona parte dell’area una volta occupata dalla alta.
Le culture sono
divergenti, come
lo sono i mezzi di comunicazione. Da un lato la cultura di élite, sui
supplementi di quotidiani, e alcuni dei blog più interni alla società
culturale; dall’altra i media popolari e la rete, con una massa di interventi
senza filtro, dove tutto si confonde, dove non esiste la mediazione
dell’esperto autorevole, dove non c’è separazione tra il professionista e il
mitomane, dove il flusso di commenti generici del lettore occasionale si fonde
con la recensione del critico militante. Un frullato dove tutto è altrettanto,
democraticamente, significativo e quindi, necessariamente, irrilevante. Perché
la mancanza della mediazione non produce una convergenza tra le culture e i
mezzi, ma anzi ne accentua la divergenza.
Qui,
secondo me, è il nodo; e da qui, a mio avviso, parte una modificazione che,
paradossalmente, cercando di democratizzare l’informazione culturale, la sta
uccidendo.
Per
concludere, tornando alla situazione attuale, penso che il giornalismo
culturale sia una specializzazione in via di estinzione. Naturalmente rimangono
isole felici, specie nei grandi quotidiani e nei loro supplementi (La lettura,
Il domenicale del Sole, Tuttilibri, Alias ecc.), dove è ancora vitale e
combattivo, con firme autorevoli e giornalisti impegnati, che apprezziamo e
invidiamo; ma nei giornali minori, e soprattutto nel giornalismo
radiotelevisivo, sempre più spesso le redazioni culturali vengono accorpate con
le redazioni della società o dello spettacolo, riducendo e spesso eliminando lo
spazio dedicato ad argomenti specificamente culturali, producendo redazioni
meno specializzate e competenze più ampie ma più superficiali. La notizia
curiosa, la spigolatura, il particolare divertente, il pettegolezzo culturale,
la vita privata dei protagonisti della società letteraria sono quello che tende
a determinare le scelte di chi confeziona i notiziari.
E’ un
modello che privilegia la costruzione del personaggio, una sorta di star system della cultura, dove attorno
ai divi dell’intellighenzia, quelli che appaiono in tv, si devono costruire delle
storie, una narrazione. Al posto dell’analisi, della critica, dell’esposizione
di contenuti, lo storytelling.
Né, a me
pare, può essere la rete a sostituire quello che il giornalismo culturale ha
significato fino a qualche anno fa. Da un lato perché in rete troviamo le
pagine web dei giornali, fatte con lo stesso criterio della carta stampata, sia
pure con più ritmo e con l’inserimento di filmati; e dall’altro perché in rete
si trovano siti culturali – cito, per tutti, Minima & moralia – che hanno
contenuti e struttura assimilabili a quelli delle riviste su carta, e blog,
anche curiosi, dove prevale l’intervento spontaneo di chi non troverebbe spazio
altrove. Salvo rare eccezioni, la rete è effettivamente il luogo della massima
libertà, dove fluisce quasi senza controlli e senza censure l’opinione di
chiunque abbia voglia di esprimersi. Proprio per questo, però, non può essere
il luogo dove si esercita il giornalismo culturale, dove chi ha autorevolezza e
può diffondere aggiornamento e cultura svolge il suo ruolo, formativo e
informativo.
Vi prevale
quella che Lella Mazzoli ha definito una “comunicazione discorsiva”, un fluire
di onesto chiacchiericcio, in un frullato di prodotti dell’ingegno in cui è
difficile distinguere il grano dal loglio. Dove You tube non apre tanto la possibilità di avere notizie di prima
mano quanto piuttosto il diffondersi di deliziosi filmati di gattini; dove Anobii non conforta il lettore con
rigorosi ragionamenti sulla qualità dei libri in circolazione, ma ci informa
sulle letture di singoli esibizionisti che vogliono farci conoscere le loro
abitudini letterarie. Dove invece di avere ragionate recensioni abbiamo
risentimenti di studenti frustrati che si sentono finalmente autorizzati a
stroncare le letture dei classici raccomandate dai professori.
Eppure, io
credo che il giornalismo culturale avrebbe ancora una funzione: quella di mettere più cultura in tutto il processo
informativo, di fornire un servizio. Servizio
è dare informazioni le più oneste possibile sugli avvenimenti, sui prodotti,
sui dibattiti culturali; spiegare bene cosa c’è in una mostra, limiti e
qualità, elementi di pregio e dettagli scadenti. Servizio è una recensione
scritta da un critico che dica ai lettori cosa veramente pensa dei libri che
legge; che metta in guardia il lettore che non ha la sua competenza dai
successi ingiustificati e dagli scrittori sopravvalutati. Servizio è dare
notizia del dibattito che si sviluppa nel paese sui temi più importanti, seri o
lievi che siano, con onestà, senza cedere al sensazionalismo e alle
interpretazioni forzate per produrre curiosità pruriginose. Servizio è mettere
a disposizione del maggior numero di persone il maggior numero di informazioni
che possano sviluppare l’interesse critico e la riflessione analitica della
collettività.
Qualcuno
dirà che, in un paese in cui gli scandali si susseguono incessantemente,
l’amministrazione dello stato è in mano a conventicole di corrotti e il
parlamento è popolato di indagati, non ha senso porsi il problema di come
funziona l’informazione culturale. Personalmente, però, penso che i due campi
non siano disgiunti, ma strettamente legati. E che se la nostra classe
dirigente è impresentabile, è anche
perché il giornalismo culturale è in crisi, e quindi la cultura media degli
elettori resta modesta. Un paese dove non ci si preoccupa che le informazioni
culturali circolino, raggiungano il maggior numero possibile di persone, escano
dal circuito elitario della società delle lettere e dell’accademia, è un paese
dove la democrazia stenta ad affermarsi. E’ quello che accade in Italia, e si
vede.
Sintesi della
relazione introduttiva al
Festival del giornalismo
culturale di Urbino,
23 aprile 2015
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