MA PER
CAMBIARE BISOGNA CONOSCERE LA STORIA
La
prova del potere,
di Giuliano Da Empoli, Mondadori, è un libro insieme paradossale, irritante e
stimolante. Paradossale perché dopo aver sostenuto a più riprese che per la
generazione dei trenta-quarantenni (TQ, s’intende) “gli esempi del passato sono
un grimaldello per rimettere in gioco il presente”, poi racconta la storia
italiana in modo fantasioso, per non dire impreciso e falsato. Irritante perché
trasforma quello che vorrebbe essere un manifesto politico e culturale per i TQ
in uno storytelling divagante e
prolisso, tutto citazioni di film e libri, poco rigorose o strumentali. E
stimolante perché, almeno in alcune parti, individua il taglio giusto per
leggere il nostro presente e alcuni dei suoi problemi.
La cosa più irritante è il modo
in cui Da Empoli parla del ’68, dei suoi
valori e di ciò che ne è conseguito, confondendolo con il movimento hippy, con
gli slogan “desideranti” del ’77 e degli anni del Craxismo. Il ’68 ha coltivato
certo anche la libertà sessuale, ma soprattutto quella civile e politica, con
rigore a volte persino eccessivo, e non soffriva del complesso di Peter Pan;
sue conseguenze non sono un paese del bengodi, ma l’autunno caldo, le grandi
conquiste economiche e sociali e le grandi riforme civili degli anni ’70: lo
statuto dei lavoratori, la liberalizzazione dell’accesso agli studi
universitari, la riforma sanitaria, la legge 180, il nuovo diritto di famiglia
ecc.
Da Empoli parla di un’Italia che
negli anni ’50 e ’60 si divertiva: certo, una esigua percentuale di alto
borghesi ha dato vita a un periodo di grande felicità creativa e anche mondana.
Ma avrebbe dovuto ricordare i milioni di emigranti che in quegli anni hanno
lasciato la fame del Sud per incontrare il razzismo e la scarsa solidarietà dei
settentrionali, e il lavoro alienante e sottopagato delle fabbriche del Nord.
Sai che divertimento.
E sostiene (copyright Magrelli)
che Berlusconi ha trovato pronto un elettorato “formato dalla rivoluzione dei
valori del Sessantotto”. Ma Berlusconi è stato il sintomo di una malattia che
comincia con gli anni ’80, e che coincide con il raggiungimento del benessere e
lo sviluppo di un ampio ceto medio, che non sente più le spinte al cambiamento
e alla solidarietà perché ha la sensazione che non ci sia più niente da
conquistare. Il ’68, con Drive In e
con le olgettine, non c’entra niente.
Non convince infine il parallelo
tra l’Italia e Venezia, che vorrebbe farci credere che una città-museo (e
quindi un paese-museo) si possono salvare dal declino con intelligenti
iniziative culturali, come è stata la Biennale per Venezia. In Italia ci sono
più festival culturali che in tutto il resta d’Europa, ma il Pil non cresce lo
stesso.
Difficile affermare, infine, che
“piccolo è bello”, che l’Italia ha un suo modello di sviluppo e non ha bisogno
di scimmiottare nessuno. Vero per il gusto; drammaticamente falso per il resto.
Abbiamo alle spalle un modello di furbizia, illegalità diffusa, opportunismo,
mancanza di senso dello stato e familismo amorale che è all’origine della
nostra crisi; un sistema inquinato da mafie diffuse, apparati dello stato
corrotti, giustizia inefficiente e evasione fiscale di massa che non solo non
invidia nessuno, ma che è il problema per cui è difficile che qualcuno venga a
investire nel nostro paese e impianti le grandi imprese ad alta tecnologia che
producono ricchezza e lavoro.
Da Empoli invece centra il
problema quando dice che i continui allarmi sul populismo sono astorici: non
esistono sistemi politici efficienti che non abbiano una certa dose di
populismo. E ha ragione quando contesta le giaculatorie dei principali
commentatori che non sopportano il governo in carica, il suo agire e le riforme
che mette in atto con critiche che hanno il fondamento in un mondo che non c’è
più, e che è inutile rimpiangere. E che i vecchi partiti, circondati da
intellettuali organici, fondazioni e organi di stampa embedded non erano meglio dei partiti “liquidi” della
postmodernità. Ha ancora ragione quando dice che non dovrebbero esserci tabù:
non nell’immaginare che “musei, istituti, associazioni che hanno esaurito la
loro funzione” potrebbero essere chiusi. Che la politica culturale si è ridotta
alla gestione delle sovvenzioni alle istituzioni. E che si possono
riorganizzare gli apparati dello stato che servono solo a moltiplicare il clientelismo
e il voto di scambio.
Ha ragione infine a dire che la
generazione TQ deve far saltare i codici, perseguire la trasgressione e uscire
dall’ambiguità e dall’incertezza. Mi permetto di aggiungere che lo potrà fare
soprattutto se saprà utilizzare l’esperienza di chi è più anziano, che magari
sa osare, ha letto con attenzione il nostro passato e non cade in errori di
valutazione. Rischio che nessuno, ancorché giovane, può permettersi di correre.
Da “L’Immaginazione”, ottobre 2015
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