SONO
DIVENTATO REAZIONARIO
E NON MI
SENTO IN COLPA
Aiuto, mi sono
scoperto reazionario e antidemocratico. Sarà l’età, saranno i tempi cupi, sarà l’incipiente
tramonto dell’Occidente. Ma mi scopro schierato con quelli che illustri
commentatori considerano qualunquisti, deterministi, rinunciatari. E il problema
è che non mi sento affatto in colpa.
Mi è successo
leggendo un accorato intervento di Roberto Esposito, del quale spesso condivido
le opinioni, sulla Repubblica del 4/5/2015.
Esposito ripercorre alcuni dei segnali di crisi della democrazia, dal carattere
oligarchico delle istituzioni alla ridotta percentuale di votanti, dal ruolo
dei mercati e della finanza nelle politiche economiche a quello dei media nella
formazione dell’opinione pubblica; ricorda che ampie fasce della popolazione si
trovano escluse dai processi decisionali e che le spinte antipolitiche
allargano il solco che divide i cittadini dalle stanze del potere.
In
conclusione, Esposito si chiede come si possa rispondere a questa deriva
autodistruttiva delle democrazie, e risponde che il problema riguarda la loro
sostanza, che oggi sembra risolversi in inutili discussioni tecniche (e il nostro
pensiero va al dibattito sulla riforma del senato, che sembra aver bloccato per
mesi la vita del Parlamento senza produrre un gran che), mentre dovrebbe
consistere in grandi progetti e principi fondatori. E che la politica dovrebbe
essere “il luogo in cui si confrontano valori e interessi diversi e
contrapposti”.
Ecco, è
leggendo queste ultime righe che mi sono chiesto: ma non è che, per caso, la
banalità del dibattito politico e il distacco che ne hanno i cittadini nasce
dal fatto che nel nostro paese – e forse in tutto l’Occidente – i valori e gli
interessi che si contrappongono non hanno niente a che fare con i grandi progetti
sociali, con le aspirazioni di rinnovamento universale, con le ideologie, in
definitiva, come accadeva una volta, ed è per questo che il dibattito è sempre
più sterile e finisce per nascondere soltanto interessi di parte e giochi di
potere?
In effetti,
tramontati da un lato il progetto della costruzione di uno stato rigorosamente
egualitario, e dall’altro la difesa di regimi conservatori e passatisti, il principale
obiettivo della democrazia, oggi, può essere soltanto quello di funzionare.
Dentro, con le oscillazioni che ci sono sempre state, ci potrà essere più o
meno egualitarismo, più o meno conservazione di privilegi e antichi pregiudizi;
ma il vero progetto di chi governa non può più essere quello di una palingenesi
universale o di un ritorno ad antichi regimi ormai morti e sepolti; non può che
essere quello di governare il più a lungo possibile, con il consenso di chi gli
ha dato fiducia, rispettando un programma che può avere risvolti anche
significativi, ma non potrà mai essere di cambiamento radicale. Non ci sono
contraddizioni economiche e sociali di
tale portata da giustificare governi rivoluzionari. In nessun senso.
E allora?
Obama ha varato riforme “di sinistra”, senza produrre rivolte, ma sarebbe difficile
attribuirgli un grande progetto sociale; la Merkel governa con l’appoggio di
tre quarti del Parlamento e sembra orientarsi soprattutto a seconda delle
sensibilità del suo elettorato; in Inghilterra si sono alternati, negli ultimi
decenni, governi conservatori e laburisti con programmi molto simili e senza clamorose
lacerazioni. E’ grave? E’ la fine della democrazia? O non è piuttosto che
comincia a funzionare - in questi paesi da tempo, e ora anche in Italia - un
riavvicinamento di “valori e interessi”, appunto, per cui uno schieramento non è
più sempre in lotta con l’altra metà del paese, e non vediamo più le
opposizioni come un nemico da sconfiggere, ma solo come un avversario, con cui
si può persino concorrere alle decisioni più significative? E se è così, perché
meravigliarsi se i votanti sono pochi: mica si chiede di scegliere tra libertà
e schiavitù. Si vota per un po’ più di diritti civili, o un po’ più di
conservatorismo religioso, per un po’ più di autonomia energetica o per un po’
più di rispetto per l’ambiente. Per avere un governo decente, che non anteponga
interessi privati a quelli della collettività. Ma non ci sono grandi
rivoluzioni, all’orizzonte. Ed ecco perché non è drammatico, se tanti cittadini
non votano. Specie considerando la qualità della classe dirigente.
Certo, in
Italia, la strada per diventare un paese civile è lunga. Bisognerà che prima o
poi qualcuno metta in votazione una legge sul conflitto di interessi, che si
sani la vergogna della mancanza di tutele per le coppie di fatto, che si
garantisca decentemente il diritto al lavoro, che si conceda in tempi
ragionevoli la cittadinanza agli immigrati. E soprattutto che si investa sulla
crescita culturale della nazione. Perché qui, a mio avviso, è il nodo, e qui si
gioca davvero la tenuta della democrazia. Mi conforta in proposito Maurizio
Ferrera, sul Corriere del 5/10/2015, che condivide la diagnosi di una democrazia
(anzi, di una socialdemocrazia) in crisi, con pochi progetti. Ma aggiunge che,
per rilanciare la crescita e l’occupazione, “senza mettere in discussione né la
logica di mercato né gli equilibri di bilancio”, la leva del cambiamento sono “le
politiche sociali e l’istruzione”.
In passato
riforme importanti come quella del divorzio, dell’aborto, della riforma
sanitaria, del diritto di famiglia sono state votate da parlamenti in
maggioranza conservatori. Succedeva perché il paese era maturo per avere
leggi moderne, e infatti ne ha respinto l’abolizione chiesta con referendum
popolari. Se il paese non cresce culturalmente, è difficile che chieda alla sua
classe dirigente, indipendentemente dal suo colore, cambiamenti significativi. Se
non cresce la consapevolezza collettiva, però, non è solo colpa di chi ci
governa. E’ colpa dei media, della scuola, della famiglia. Cioè di ciascuno di
noi. Troppo comodo dare la colpa a chi ha il potere: lo abbiamo scelto, lo
sosteniamo e lo sopportiamo noi. A me sembra che sia la coscienza di ognuno,
non le tecniche parlamentari, non le
ideologie epocali, non i sogni utopistici, a mettere all’ordine del giorno i progetti
necessari per modernizzare davvero il paese; e garantire la tenuta della
democrazia.
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