MI SONO IMPICCATO. MI SCUSI
“Lei ce l’ha un figlio? Glielo chiedo
perché le volevo dire che se suo figlio nasceva dove sono nato io, adesso era
lui nella gabbia; e se io nascevo dove è nato suo figlio, magari ora facevo
l’avvocato, ed ero pure bravo”. Chi parla è Salvatore, ora ergastolano, già
esponente della delinquenza organizzata di Catania, colpevole di una serie di
delitti efferati talmente lunga che non vale nemmeno la pena elencarli. E
questa sua analisi, di sociologia spicciola ma non per questo meno rigorosa, la
fa al presidente del tribunale che ne sancisce la condanna al carcere con “fine
pena: mai”.
La cosa finirebbe lì se il magistrato
non fosse persona sensibile, e il ragionamento dei destini incrociati del
bandito e di suo figlio non gli fosse rimasto in mente come un rovello. Avendo
colto un fondo di umanità nel delinquente che ha severamente giudicato gli
manda, in carcere, un libro. E’ Siddharta, e la scelta ha un suo motivo:
nelle ultime pagine del libro, Herman Hesse scrive: “Mai un uomo, o un atto, è
tutto samsara o tutto nirvana, mai un uomo è interamente santo
o interamente peccatore”.
Il libro ha un suo effetto: tra il
magistrato e l’ergastolano inizia una corrispondenza, rarefatta ma non per
questo meno sentita e genuina, che durerà ventisei lunghi anni. E che
ritroviamo, con tutti gli strumenti per capire cosa accade, nel frattempo, ai
due corrispondenti, in un prezioso volume, Fine
pena ora, di Elvio Fassone (il magistrato), pubblicato da Sellerio.
Non è un romanzo, ma un racconto
talmente coinvolgente che, alla fine, si ha quasi la sensazione di conoscere
personalmente i protagonisti. La cauta comprensione dell’uomo di legge da un
lato e la vitalità, via via appannata e alla fine assai smorzata, del carcerato
dall’altra. Veniamo a conoscere la carriera esemplare di Salvatore: un fratello
grande, delinquente già affermato, “morto sparato”, l’idea di sostituirlo, e
un’escalation: “qualche trasporto di droga (che altro vuole che facciamo, là?),
qualche lavoretto (scippi), qualche lavoro più grosso (rapina), qualche
regolamento di conti (ha sgarrato, ora paga)”. Un po’ come una carriera negli
uffici, con le prove per passare da un inquadramento a quello superiore.
Ma Salvatore ha un’intelligenza
pronta e immediata e impara, dal confronto con la liturgia giudiziaria, il
valore delle istituzioni che non ha mai conosciuto. Ne nascerà l’orgoglio e la
determinazione di uscire dall’ignoranza e dalla marginalità, studiando e
cercando tutti i modi per affinarsi e trovare delle competenze che, in
prospettiva, possano permettergli di arrivare all’agognato lavoro esterno e
alla semilibertà.
Quando, dopo anni, arriva la prima
giornata di permesso, il contatto con il mondo esterno è traumatico, perché il
tempo del carcere è fermo, e Salvatore sembra catapultato in un futuro lontano:
“Non sapevo nemmeno camminare. Fuori anche l’aria che si respira è diversa da
dentro. E’ tutto nuovo per me, le macchine, la roba che c’è nei negozi, la
gente com’è vestita, anche il fatto di pagare con l’euro. (…) Al supermercato
c’era una confusione che mi sembrava di impazzire. Al ristorante, non sapevo
più stare a tavola”.
Salvatore però è sfortunato: un po’ è
lui che, forse per non passare per un “infame”, viene punito assieme ad altri
compagni di detenzione, un po’ perché fa il matto quando la fidanzata, che lui
sperava lo aspettasse fino a un’ipotetica conquista della libertà lo lascia, i
suoi tentativi di meritare un alleggerimento della pena sono vanificati. E allora scrive: “ne ho combinata una delle
mie: mi sono impiccato. Mi scusi”. Ma lo hanno salvato. “Adesso ho ancora un
po’ male al collo, ma è passata”. Salvatore, invece di “fine pena mai”, ha
deciso che era “fine pena ora”. Una rinuncia a lottare, dopo anni di impegno,
lui che non aveva nemmeno finito le elementari, per arrivare a un simulacro di
redenzione.
Il tono col quale il magistrato
ripercorre i ventisei anni di corrispondenza è pacato ma partecipe. Anche
perché sa che Salvatore viene da un mondo che ha una sua legge, sia pure
contorta, e un concetto dell’onore, anche se nato dalla violenza e dal
conflitto. Ma quello che traspare dalle sue parole è una limpida aspirazione a
un minimo di benessere, un po’ di serenità borghese; quello che non ha avuto e
la cui assenza ha prodotto il fuorilegge che è stato. Ma il valore del libro è che
dà voce a chi di solito non ne ha, ci fa entrare in un mondo che abitualmente
non è in grado di esprimersi in pubblico. Con il dramma della segregazione, che
è terribile, indipendentemente dalla colpa che l’ha prodotta, e le umane
aspirazioni a una vita normale. Anche perché persino la prospettiva della
libertà, in definitiva, non è semplice: “Forse mi mancherà questa vita, che ci
ho passato più della metà degli anni che ho, ma spero di no”.
Da "L'immaginazione", Febbraio 2016
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