SI FA PRESTO A DIRE PRIVATIZZAZIONE
Si discute di Rai: bene. Qualche
giorno fa Urbano Cairo, il proprietario de “la 7”, la rete tv, ha lanciato una dura
accusa contro la Rai, che avrebbe il torto di fare concorrenza sleale alle tv
private perché finanziata, insieme, dal canone e dalla pubblicità. A ruota Pigi
Battista, sul Corriere, ha scritto un articolo dicendo che il servizio pubblico
televisivo è colpevole di non fare il suo mestiere, di trasmettere
programmi scadenti, di avere troppi
dipendenti e quindi di intascare i soldi del canone senza dare in cambio il
servizio richiesto. Qualche protesta (timida, in vero) hanno prodotto le più
recenti nomine alle direzioni di rete. Ultima arriva la lettera dei 100autori al Direttore Generale
(Repubblica, 28/2), che denunciano una stasi produttiva e affermano che “i
contenuti Rai hanno perso in larga parte qualunque rilevanza”. Interventi che fanno
riflettere. Vediamo.
Due sono i ragionamenti che, a mio
avviso, vanno approfonditi, per non lasciare spazio a un’informazione imprecisa.
Il primo riguarda l’idea che la Rai lucri sulla pubblicità, oltre che sul
canone, e che questo danneggi le emittenti private. Se da un lato è vero che la
Rai non potrebbe vivere di solo canone, è vero anche che la legge le impedisce
di farcire di pubblicità i suoi programmi, come fanno le reti commerciali. Ecco
perché, malgrado abbia un’audience pari a circa un terzo del pubblico nazionale,
avendo un limite di affollamento pubblicitario molto più basso di quello delle
reti commerciali, raccoglie solo circa un quinto della pubblicità televisiva.
Significa che, se fosse una rete commerciale, potrebbe raccogliere molta più
pubblicità di quella che raccoglie oggi e che quindi la pubblicità che la legge
le impedisce di trasmettere viene raccolta dalle tv commerciali. E’ dunque vero
il contrario di quanto dice Cairo: la modesta raccolta pubblicitaria della Rai
permette alle tv commerciali di vivere meglio.
Ma è anche vero che la Rai, con le
sue risorse, produce altrettanto se non di più di quanto non produce Mediaset,
e quindi dà lavoro non solo ai suoi dipendenti, ma anche a un largo indotto,
impegnato nella produzione dei prodotti audiovisivi che la Rai trasmette: una
ricchezza, per la collettività. E si capisce l’allarme dei 100autori. Se poi si
vuol sostenere – a pieno diritto, naturalmente – che i programmi della Rai non
sono all’altezza del concetto stesso di servizio pubblico, bisogna anche ricordare
che, negli ultimi vent’anni, la dirigenza della tv pubblica è stata nominata da
governi alla cui guida c’era il proprietario del maggior gruppo televisivo
commerciale in Italia, e che spesso i dirigenti sono venuti direttamente
dall’azienda concorrente. Perché stupirsi se c’è stata poca concorrenza?
L’allarme era giustificato vent’anni fa, mentre ora vediamo il risultato di una
lunga occupazione del servizio pubblico da parte di personaggi che avevano solo
interessi privati.
Il secondo ragionamento riguarda il
fatto che la Rai fornisca o meno un servizio. Sembra che non vi sia una conoscenza
diffusa né delle leggi (la cosiddetta Mammì prima e la cosiddetta Gasparri poi)
che regolano l’attività dell’emittente pubblica, né dell’esistenza di un
contratto di servizio tra la Rai e il Ministero, che contiene gli obblighi cui
la Rai deve adempiere per avere diritto a riscuotere il canone. Sono obblighi
molto pesanti, che nessuna rete privata si sognerebbe di affrontare, e che il
canone da solo non potrebbe mai finanziare. Cito a memoria. Innanzitutto i
canali radiofonici, alcuni dei quali senza pubblicità, e Rai Parlamento, rete
che difficilmente potrà mai esser sul mercato. Poi le ventun sedi regionali,
che trasmettono radio e telegiornali – senza raccogliere pubblicità locale -
anche per platee molto ridotte, come ad esempio il Molise o la Basilicata. Non
si deve dimenticare il servizio per le minoranze, per le quali la Rai trasmette
nelle lingue delle regioni di confine. Le trasmissioni di Rai International; i
canali educativi e per ragazzi. E, ancora, l’attività dell’orchestra sinfonica
nazionale, col suo auditorium, a Torino, che è una istituzione fondamentale. E
dimentico sicuramente qualcosa.
Il nodo, qui, è legato all’ipotesi
di privatizzazione della Rai che pure un referendum, molti anni fa, aveva
promosso, e che viene periodicamente ricordata. C’è però un problema: per
privatizzare la Rai o bisognerebbe trovare il privato che si faccia carico di tute queste incombenze senza il
contributo del canone, o dell’emittente pubblica si dovrebbe fare uno
spezzatino, rinunciare a orchestra, sedi e trasmissioni regionali, Rai
parlamento e via dicendo. Ma anche questo produrrebbe dei problemi: se la nuova
Rai, privatizzata, raccogliesse tutta la pubblicità che una rete commerciale
potrebbe raccogliere con gli ascolti che ha oggi, quanto si lamenterebbero le
emittenti commerciali, che oggi lucrano sui mancati introiti della Rai che la
legge impone? E ancora: il licenziamento di qualche migliaio di addetti
(tecnici, impiegati, dirigenti, giornalisti) impegnati nelle attività di
servizio, non sarebbe certo ininfluente sull’economia nazionale. Se è difficile
rilanciare i consumi oggi, figuriamoci con migliaia di disoccupati in più. Ma
stiamo babbiando, per dirla in camillerese.
Resta il problema della qualità dei
programmi. Non entro nel merito, ma certo si può sempre fare meglio, e uno
sforzo non guasterebbe. Su questo vedremo alla prova la nuova dirigenza, e
forse fanno bene i 100autori a
lanciare l’allarme. Ma certo non è il caso di far finta che non ci siano delle
regole da rispettare: chi lo dimentica fa della cattiva informazione, gioca
sulla sfiducia diffusa nelle istituzioni, stimola soltanto una protesta emotiva
e generica. Non parlo di gufi, parlo di chi non informa correttamente e così
facendo tradisce, lui sì, il ruolo di servizio che la libera stampa dovrebbe
svolgere. La Rai non ne ha bisogno. Ha bisogno di un pubblico attento, di una
stampa capace di fare le pulci agli organigrammi, a eventuali dirigenti
incompetenti, ai programmi e naturalmente agli sprechi, che pure possono
esserci. Ma i manifesti populistici, i ritornelli dell’antipolitica di maniera
e le lamentazioni di chi invoca la privatizzazione senza chiedersi cosa significherebbe
non fanno bene né alla Rai, né alla qualità dei suoi programmi, né al loro
pubblico, e cioè al Paese.
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