ABBIAMO SOGNATO
CHE ERANO FINITE LE GUERRE
E CI SIAMO
RISVEGLIATI CON I CONFLITTI ASIMMETRICI
“Il sistema
internazionale sta entrando in una condizione di anarchia che non può
promettere niente di buono”. Questa l’osservazione che Luigi Bonanate pone a provvisoria
conclusione del suo ultimo saggio, Anarchia
o democrazia, Carocci editore. Non è difficile seguire il ragionamento di
Bonanate: per secoli si è ritenuto che solo all’interno degli stati si potesse
evitare la risoluzione violenta dei conflitti, mentre tra gli stati regnava
un’anarchia internazionale, che non poteva non suscitare guerre. Nell’89 il
crollo del regime sovietico ha dimostrato che si possono produrre clamorosi mutamenti
politici anche senza guerre, e questo ha cambiato il paradigma interpretativo
dei rapporti tra gli stati. Ma quella mutazione, lungi dal produrre un nuovo
ordine, ha prodotto una nuova, e incontrollata, anarchia. Le guerre non sono
sparite, ma sono più subdole: spesso sono guerre civili, non vengono
dichiarate, possono durare anni, a bassa densità, non si sa nemmeno se e quando
finiscano, sono asimmetriche, vedono in conflitto non più gli stati tra loro ma schieramenti internazionali contro nazionalismi esasperati e fondamentalismi
religiosi, o almeno contro la volontà di potere e di controllo del territorio
che nascondono.
Bonanate ci
conduce nell’analisi dell’origine dei conflitti, ed è convincente quando
afferma che la bellicosità degli stati è inversamente proporzionale alla loro
democraticità. Quando si chiede perché gli USA abbiano condotto guerre
insensate e dannose, come quelle in Afghanistan e in Irak, risponde che non basta
tenere libere elezioni per avere una democrazia sostanziale, che evidentemente
è la democrazia degli USA che ha avuto un periodo di declino, e non il pacifismo democratico. E
che la manipolazione dell’opinione pubblica può orientare fortemente in senso
bellicista una nazione.
Le conclusioni
non sono confortanti. Anche se una ragione per non disperare, dice Bonanate,
c’è: è la democratizzazione dei rapporti tra gli stati, che è l’unica strada
che può garantire la pace.
Completata la
ricognizione scientifica, e quella di Bonanate è impeccabile, credo si debba
riflettere su quello che ci riguarda direttamente. Che dobbiamo fare, noi? La
persistenza dei conflitti, una volta archiviata la guerra fredda, è alla base delle nostre insicurezze, del
risveglio dei nazionalismi e anche di alcuni rilevanti problemi economici. La
drammatica situazione del Medio Oriente è certo in parte dovuta agli errori
degli USA e dell’Occidente tutto, ma anche e forse soprattutto alla lotta per
il potere in atto tra fazioni e nazioni islamiche. La maggior parte delle
vittime sono civili arabi, e l’esodo della popolazione, che si riversa negli
stati europei, è un dramma che noi non siamo preparati ad assorbire, ma
rappresenta soprattutto un germe di violenza e di instabilità internazionale
che può durare decenni, se non di più. Nel Nordafrica le primavere arabe, se si
eccettua il caso della Tunisia, si sono dissolte in una guerra civile diffusa o
nel rafforzamento di assolutismi e dittature militari. E i conflitti
all’interno degli ex stati satelliti dell’URSS, infine, sono lontani
dall’essersi risolti.
Per chi ha
sognato che la morte delle ideologie e la fine del confronto tra i due blocchi
avrebbe aperto un periodo di pace e di benessere, non è un bel risveglio. Credo
che anche gli americani si siano convinti ormai che esportare la democrazia
formale con le armi non sia una soluzione, specie in paesi che hanno ancora un
forte ancoramento a ideologie teocratiche, e che vedono i processi democratici come una negazione
dell’intangibilità delle leggi divine. Bombardare assassini e tagliagole può
essere un tentativo di aiutare le fazioni meno violente; ma non è detto, e non
ci procura simpatie.
Qualcosa, però,
qui e ora, a me pare si possa e si debba dire. A me pare che la difesa a
oltranza dei confini nasconda una strisciante tendenza a riaffermare la purezza
delle etnie nazionali. Che i muri servano solo a difendere i privilegi del
benessere raggiunto per paura di doverlo condividere con rifugiati che non hanno
nulla da perdere. E che, mentre la crisi demografica dei paesi occidentali
mette a rischio le nostre economie, sbagli chi soffia sulle braci della paura
del diverso e del razzismo sotterraneo che riprende vigore.
Non possiamo
imporre ad altri la nostra cultura, ma almeno non dovremmo rinunciare alle
conquiste morali e culturali che hanno caratterizzato gli ultimi settant’anni
di vita dell’Europa. Quella che possiamo opporre, alla preoccupante anarchia di
cui parla Bonanate, è una battaglia politica e culturale. Non vorrei che
domani, come possiamo fare noi oggi pensando alla miopia della generazione che ha
dato credito e consenso al fascismo, fossimo accusati dai nostri nipoti di
essere stati ciechi di fronte al rischio di collasso della democrazia europea
che avevamo sotto gli occhi.
Da "L'Immaginazione", marzo 2016
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