ASCOLTARE E' UN MESTIERE DIFFICILE
Nel momento in cui quotidiani e
televisione pagano un pesante tributo allo sviluppo della comunicazione in
rete, qual è lo stato di salute della radio? Se lo chiede Giorgio Zanchini nel
suo nuovo libro, La radio nella rete,
Donzelli, e la risposta è: la radio se la cava meglio degli altri. Anzi: “in
una rete dove gli scambi e i cosiddetti ‘prestiti mediali’ sono continui, può
persino prosperare”. Questo, soprattutto perché si è adattata tanto alla
tecnica che alla tempistica dei nuovi media. Invece di esserne fagocitata, li
ha integrati, ne ha sfruttato le potenzialità a proprio vantaggio, e ha usato
l’allargamento della platea dei prosumers,
i produttori-consumatori, per essere ancora più rapida e “leggera” nel rapporto
con l’attualità.
Per capire come si è verificata la
sopravvivenza del più vecchio dei media
senza fili, bisogna considerare più elementi. Zanchini da un lato ripercorre le
osservazioni dei grandi che hanno riflettuto sulle caratteristiche del mezzo,
da Arnheim a Brecht, da McLuhan a Eco, e dall’altro ricorda il modo in cui, nel
tempo, la radio si è evoluta, e ne trae una serie di conclusioni semplici ma
illuminanti.
Contrariamente ai mezzi “pesanti”,
giornali e tv, la radio è stata la prima ad aprirsi al contributo del pubblico,
anche in diretta, offrendo strumenti di condivisione – forse illusori, dice
Zanchini, ma comunque coinvolgenti – che sono gli stessi dei mezzi digitali. Se
la rete è essenzialmente un mezzo di comunicazione senza mediatori, però, la
radio mantiene forme di intermediazione, e quindi di autorevolezza, anche se è
sempre più aperta al contributo degli ascoltatori, e ha quindi un profilo più
orizzontale degli altri mezzi tradizionali.
Tecnicamente, la radio è il più
duttile dei media, perché può essere ascoltata con strumenti diversi e in tempi
e luoghi diversi. Ogni programma può essere ascoltato in diretta, in streaming,
registrato, recuperato in podcast e
selezionato senza limiti nell’offerta di un numero enorme di stazioni. “La
trasmissione oltre ad avere un durante (…)
ha ormai un prima e un dopo”. Insomma, per certi versi si tratta del mezzo più
aperto a ogni forma di fruizione, nel tempo e nello spazio.
Se la radio ha mantenuto tanta
vitalità, è perché è un mezzo di parola, perché si basa su un elemento
fondamentale dei rapporti umani: la conversazione. Un elemento che richiama
ideali illuministi, anche se non sempre conduttori e ascoltatori sono
all’altezza della sfida di portare profondità e riflessione sui grandi temi del
presente.
Il libro è ricco di informazioni sul
panorama delle emittenti in Italia e all’estero, sui modelli di programmazione,
di flusso o di palinsesto, sulle caratteristiche del pubblico e sui modelli di
conduzione. Particolarmente interessanti alcuni “decaloghi”, da quello di Gadda
a quello di Sinibaldi, e le osservazioni
sulla lingua e sulla sintassi della radio. Oltre ad essere una miniera di informazioni,
però, il libro è strumento di
riflessione, non soltanto sullo specifico radiofonico ma anche, in generale, sui processi comunicativi nell’era digitale.
Una domanda centrale è quella su che
spazio resti per l’ascolto attento, “nell’era della disattenzione, della
connessione perenne”. E se ci siano dei rischi, in questo processo di
ibridazione che ha trasformato la radio nel più multimediale dei mezzi di
comunicazione. “Ho l’impressione che possa esserci una perdita in termini di
profondità e di chiarezza”, dice Zanchini; che la soglia dell’attenzione rischi
di calare, che ci sia un’inevitabile perdita di concentrazione. Contro i
cantori del multitasking, bisogna
ammettere che “il cervello fatica a gestire in modo logico ed efficiente tutte
le attività che gli chiediamo in simultanea”. Qui il rischio maggiore: “Alcune conseguenze
della rivoluzione digitale, in particolare frammentazione, disattenzione,
connessione perenne, possono impoverire uno degli spazi in cui la comunità
riflette assieme”. Ecco, questo mi pare il vero nodo del rapporto tra radio e
rete, e forse della trasmissione di informazione e conoscenza nel tempo della
rivoluzione digitale. Il continuo flusso di informazioni non è pericoloso
perché contiene troppa sostanza. E’ pericoloso che noi si perda la capacità di
discernere non – come vuole la moda – tra notizie vere e fake news, ma tra quello che ci serve e quello che è superfluo. In
questa prospettiva, la radio non sfugge al destino di tutti i mezzi
nell’entropia informativa della contemporaneità. Se non avremo gli strumenti
per selezionare ed analizzare i contenuti del flusso informativo, saremo
connessi, ma non saremo in grado di connettere tra loro gli elementi che
servono ad avere coscienza critica del presente; avremo sempre più
informazioni, ma meno conoscenze, e meno capacità di interpretare la complessa
realtà che ci circonda.
Da "L'immaginazione", febbraio 2018
Da "L'immaginazione", febbraio 2018
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