Aiuto, sono in ritardo: non mi ero accorto
che i festival culturali sono l'oppio dei popoli
Cosa si intende per cultura, a cosa
serve, e chi e come la trasmette? Sono domande legittime, visto che le risposte
cambiano col cambiare dei mezzi di trasmissione del sapere e dei valori
dominanti. Goffredo Fofi ha scritto in proposito L’oppio del popolo, pubblicato da Elèuthera: un pamphlet molto
polemico, nel quale nota come oggi ”di cultura come originalità del pensiero e
delle opere ben pochi parlano”, del fatto che gli opinion makers hanno un ruolo nefasto per la democrazia e l’intelligenza
dei nostri connazionali tornati ad essere – secondo Fofi – “una plebe
indistinta”; e ancora dell’impossibilità di difendersi dalla stupidità, del
fatto che non esiste più una coscienza collettiva e che siamo diventati tutti
una “piccola borghesia generica, succube, condizionata e oppressa”.
Un allarme che in parte sento anch’io,
basato su un’analisi parzialmente condivisibile. C’è però, nel libro, una
vivace contestazione delle manifestazioni che si sono diffuse negli ultimi
anni, e in particolare dei festival culturali
e delle “capitali della cultura”. Per Fofi si tratta di occasioni di
autopromozione per assessori alla cultura che hanno solo l’interesse di
divertire, semplificare e rincuorare. “Banchetti a base di canzonettisti,
teatranti e scrittori”, un minestrone il cui l’ultimo ingrediente è la politica,
“che non renderà certo migliori le nostre città e più giusti i loro abitanti”. E
se la cultura, si chiede Fofi, non fosse altro che “lo strumento privilegiato
del dominio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, per farci
accettare l’inaccettabile?”.
Qui Fofi non lo seguo. Perché anche
se festival e capitali culturali possono certo essere strumentalizzati da
amministratori beceri, fatti con fini commerciali e con personaggi mediocri, sono
convinto che se anche uno solo di chi vi partecipa ne trae spunto per un
pensiero, per un desiderio di approfondire un problema, per un desiderio di
leggere un libro che altrimenti non avrebbe letto, sono comunque qualcosa che
serve a noi tutti.
Vale, in questo senso, la
lettura di Cielo e soldi, Il giornalismo
culturale tra pratica e teoria, di Giorgio Zanchini, Aras editore. E’ un libro in cui l’autore raccoglie
l’esperienza di sette edizioni del Festival del giornalismo culturale di
Urbino, Pesaro e Fano, che dirige assieme a Lella Mazzoli, che è anche la
prefatrice del volume. E salta subito agli occhi, leggendolo, come un festival
possa essere anche uno strumento per documentare e monitorare il mondo della cultura del nostro paese, una
sorta di incontro annuale per mettere a punto un’indagine su come cambia il
rapporto tra produzione culturale e comunicazione, e su come i mezzi incidano
sui messaggi.
Comincio dalla seconda parte del
volume, in cui Zanchini fa una ricognizione attenta ed esaustiva dei territori
del giornalismo culturale in Italia. Una mappa precisa, utilissima per capire
come si stiano modificando le terze pagine (dove esistono ancora), si sviluppino
i supplementi dei quotidiani, come cambiano le trasmissioni culturali
televisive - oggi concentrate soprattutto in canali dedicati - e di come in
rete si sia sviluppata una variopinta tessitura di siti di cultura. Una
trasformazione profonda, che vede anche una fertilizzazione incrociata dei
mezzi. Se è vero che i quotidiani perdono copie, è vero però il loro pubblico
coincide con quello dei consumatori forti di cultura, che le loro versioni on line crescono e che i contenuti dei
giornali spesso entrano in vario modo nella rete. E anche le trasmissioni
televisive, che pure i giovani non guardano, hanno ancora la capacità di
stimolare grossi numeri di consumatori culturali.
Quella che pare evidente è la crisi
della forma-recensione, spesso sostituita –tanto sulla carta che in tv e in
rete – da interviste, segnalazioni brevi o recensioni “non affidate a critici
di professione, più impressionistiche che meditate”. Pezzi, conclude Zanchini,
“che non permettono nessuna vera elaborazione del pensiero critico”.
Torno qui alla prima parte del libro,
nella quale l’autore dà conto del dibattito che ha animato il festival negli
anni. Fondamentale, a questo punto, è la messa in discussione degli
intermediari, la marginalizzazione delle competenze. La crisi del giornalismo
culturale tradizionale può essere arrestata? Può esistere un nuovo modello di
intermediazione? E la crisi in atto non è forse lo specchio della parallela
crisi delle strutture politiche e sociali?
Andiamo verso una sorta di
“autocomunicazione di massa”, e “I processi lenti di acquisizione dei saperi
faticano a resistere” si osserva. Vero. Ma forse dobbiamo chiederci: esistono
processi di acquisizione del sapere che non siano lenti? Questa, forse, la vera
domanda, e da qui la scommessa se il giornalismo culturale può avere un futuro.
Da L'Immaginazione, gennaio 2020