martedì 28 gennaio 2020


Aiuto, sono in ritardo: non mi ero accorto 

che i festival culturali sono l'oppio dei popoli


Cosa si intende per cultura, a cosa serve, e chi e come la trasmette? Sono domande legittime, visto che le risposte cambiano col cambiare dei mezzi di trasmissione del sapere e dei valori dominanti. Goffredo Fofi ha scritto in proposito L’oppio del popolo, pubblicato da Elèuthera: un pamphlet molto polemico, nel quale nota come oggi ”di cultura come originalità del pensiero e delle opere ben pochi parlano”, del fatto che gli opinion makers hanno un ruolo nefasto per la democrazia e l’intelligenza dei nostri connazionali tornati ad essere – secondo Fofi – “una plebe indistinta”; e ancora dell’impossibilità di difendersi dalla stupidità, del fatto che non esiste più una coscienza collettiva e che siamo diventati tutti una “piccola borghesia generica, succube, condizionata e oppressa”.
Un allarme che in parte sento anch’io, basato su un’analisi parzialmente condivisibile. C’è però, nel libro, una vivace contestazione delle manifestazioni che si sono diffuse negli ultimi anni, e in particolare dei festival culturali e delle “capitali della cultura”. Per Fofi si tratta di occasioni di autopromozione per assessori alla cultura che hanno solo l’interesse di divertire, semplificare e rincuorare. “Banchetti a base di canzonettisti, teatranti e scrittori”, un minestrone il cui l’ultimo ingrediente è la politica, “che non renderà certo migliori le nostre città e più giusti i loro abitanti”. E se la cultura, si chiede Fofi, non fosse altro che “lo strumento privilegiato del dominio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, per farci accettare l’inaccettabile?”.
Qui Fofi non lo seguo. Perché anche se festival e capitali culturali possono certo essere strumentalizzati da amministratori beceri, fatti con fini commerciali e con personaggi mediocri, sono convinto che se anche uno solo di chi vi partecipa ne trae spunto per un pensiero, per un desiderio di approfondire un problema, per un desiderio di leggere un libro che altrimenti non avrebbe letto, sono comunque qualcosa che serve a noi tutti.
Vale, in questo senso, la lettura  di Cielo e soldi, Il giornalismo culturale tra pratica e teoria, di Giorgio Zanchini, Aras editore. E’ un libro in cui l’autore raccoglie l’esperienza di sette edizioni del Festival del giornalismo culturale di Urbino, Pesaro e Fano, che dirige assieme a Lella Mazzoli, che è anche la prefatrice del volume. E salta subito agli occhi, leggendolo, come un festival possa essere anche uno strumento per documentare e monitorare  il mondo della cultura del nostro paese, una sorta di incontro annuale per mettere a punto un’indagine su come cambia il rapporto tra produzione culturale e comunicazione, e su come i mezzi incidano sui messaggi.
Comincio dalla seconda parte del volume, in cui Zanchini fa una ricognizione attenta ed esaustiva dei territori del giornalismo culturale in Italia. Una mappa precisa, utilissima per capire come si stiano modificando le terze pagine (dove esistono ancora), si sviluppino i supplementi dei quotidiani, come cambiano le trasmissioni culturali televisive - oggi concentrate soprattutto in canali dedicati - e di come in rete si sia sviluppata una variopinta tessitura di siti di cultura. Una trasformazione profonda, che vede anche una fertilizzazione incrociata dei mezzi. Se è vero che i quotidiani perdono copie, è vero però il loro pubblico coincide con quello dei consumatori forti di cultura, che le loro versioni on line crescono e che i contenuti dei giornali spesso entrano in vario modo nella rete. E anche le trasmissioni televisive, che pure i giovani non guardano, hanno ancora la capacità di stimolare grossi numeri di consumatori culturali.
Quella che pare evidente è la crisi della forma-recensione, spesso sostituita –tanto sulla carta che in tv e in rete – da interviste, segnalazioni brevi o recensioni “non affidate a critici di professione, più impressionistiche che meditate”. Pezzi, conclude Zanchini, “che non permettono nessuna vera elaborazione del pensiero critico”.
Torno qui alla prima parte del libro, nella quale l’autore dà conto del dibattito che ha animato il festival negli anni. Fondamentale, a questo punto, è la messa in discussione degli intermediari, la marginalizzazione delle competenze. La crisi del giornalismo culturale tradizionale può essere arrestata? Può esistere un nuovo modello di intermediazione? E la crisi in atto non è forse lo specchio della parallela crisi delle strutture politiche e sociali?
Andiamo verso una sorta di “autocomunicazione di massa”, e “I processi lenti di acquisizione dei saperi faticano a resistere” si osserva. Vero. Ma forse dobbiamo chiederci: esistono processi di acquisizione del sapere che non siano lenti? Questa, forse, la vera domanda, e da qui la scommessa se il giornalismo culturale può avere un futuro.


   Da L'Immaginazione, gennaio 2020

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