UN'AUTOBIOGRAFIA OBLIQUA
Antonio Franchini ha fatto un gioco
obliquo, pubblicando i racconti raccolti in Il
vecchio lottatore, sottotitolo: e altri
racconti postemingueiani, NN editore. Obliquo perché già il sottotitolo è
ingannevole: cosa vuol dire postemingueiano (prendiamo la sua grafia)? Forse
che rifiuta un taglio duro, diretto, come quello di Acqua, sudore e ghiaccio (per me, uno dei suoi libri più belli)?
Certo, qui ci sono racconti che parlano del sentimento paterno e di memoria di
amici scomparsi. In effetti, abbiamo
momenti più lirici, meno “sodi”, rispetto ad altre prove dello scrittore.
O forse che nega la derivazione della sua scrittura dal pragmatismo
nordamericano che ha segnato le sue opere precedenti. Ma una certa dose di
elementi primordiali, di lotta dura, di senso della disciplina sportiva, di
confronto con la natura e di pulsioni primarie restano, e non marginalmente. Il postemingueiano, a mio
avviso, si può cogliere solo nell’insieme, malgrado i nove racconti raccolti
qui siano apparentemente separati da tematiche e ambientazioni diverse. Il
gioco obliquo, insomma, consiste nel fatto che, raccogliendo storie scritte in
momenti diversi, con ambientazioni lontane e persino una scrittura che cambia a
seconda del quadro rappresentato, l’insieme di questo libro risulta esser una
sorta di autobiografia per immagini, dove ogni racconto sembra disegnare una
fotografia delle diverse immagini che l’occhio dello scrittore ha visto,
metabolizzato e elaborato letterariamente fino a farle diventare un percorso di
vita. Un autoritratto con sfondi variabili.
Uno scenario cubano, percorso da
napoletani in trasferta, con l’immancabile poker, l’inutile tentativo di
pescare i marlin, i daiquiri. Personaggi esagerati, con nomi fiabeschi: lo
Squalo, la scimmia, il Patatino, in una prospettiva in tutto è epico: le
sbronze, le sfide a braccio di ferro, le grasse ragazze tedesche. Fino alla
saturazione: “Quanto deve durare ancora, ‘sta
strunzata?”. E La conclusione, con la foto ricordo fatta con un marlin
imbalsamato, che sembra vero. “Gli parve di averlo appeso nell’armadio dei suoi
sogni irrealizzati e di essere uscito per sempre dalla vita che davvero avrebbe
voluto per sé”.
Impressionante lo scenario delle
visite alle trincee di Caporetto, con i musei che raccolgono pietosi resti,
rimasugli di vite perdute un secolo fa in una guerra assurda, i recuperanti,
che vivevano raccogliendo residuati bellici, gli esperti che fanno visite
guidate a quello che è una sorta di immenso cimitero senza tombe. Episodi
raccolti, forse sognati, che rianimano questa terra dolente.
E ancora un aficionado della corrida, Ermanno Doris, uomo dedito a pratiche
estinte, che cerca di creare a casa sua un angolo di Spagna, ma che è stato
anche karateka, pittore (di plazas de toros), esperto di spade giapponesi e
scrittore in proprio. Sostiene di dovere la vita all’autore, ma lui non saprà
mai perché. Vede un’affinità tra la corrida e la letteratura: “La tauromachia
resta il massimo esempio , nonostante i trucchi, di una cosa vera e la
letteratura è il massimo esempio in virtù dei trucchi e nonostante i pregi, di
una cosa finta”. Ma in fondo non è nemmeno così. Resta la aficiòn, un’innocua follia, “gratuita, inattuale, sfolgorante”.
L’ultimo racconto della raccolta, che
dà il titolo al libro, è il più tradizionalmente franchiniano. E’ una
“famiglia” – un gruppo – di lottatori, con i loro problemi, perché anche i
lottatori invecchiano e, anche se esistono combattimenti riservati a chi è più
avanti negli anni, possono essere difficili se non patetici. Ma la storia parte
da lontano, dal senso ultimo della disciplina, della logica del combattimento,
del pensiero del lottatore: “Voi non siete rabbiosi, voi non avete sentimenti,
dovete acquisire una mentalità predatoria”. E quando il vecchio lottatore si
chiede perché abbia lottato per tutta la vita, deve dirsi che sono tante. “Per
gloria e per vanto (…), per amore della bellezza e per sfogo del corpo (…) per
abitudine e impossibilità di smettere (…) Le stesse ragioni per le quali ci si
impegna in qualunque altra cosa, le stesse ragioni che, quando mancano,
inducono a buttarla, la vita”.
Quasi un romanzo a sé “Pesca alla trota
in Carnia”, il ritratto di un ragazzo originale, Zanon, “figlio laconico di una
terra ingrata”. Un’amicizia fatta di avventurosi
campeggi con pesca subacquea di trota fario
(caratteristica: ha la pelle punteggiata di pallini rossi), nelle acque gelide
del Tagliamento, con la compagnia di una ragazza bella, apparentemente
spregiudicata, inarrivabile, che però forse ha avuto una storia con Zanon; e
poi viaggi nella Germania del Nord, alla ricerca di organi bachiani, il suo
matrimonio, lo sci, fino a quell’inevitabile distacco che fa perdere per strada
gli amici della gioventù, che si incontrano sempre più di rado. La rivedrà, la
ragazza, vent’anni dopo; sempre bella, meno originale, imborghesita. Di Zanon
sapremo che era diventato ricco, che si era comprato un’isola, che è morto
immergendosi nel Tagliamento. Forse pescava trote fario.
Ma forse il più significativo, quello
che lascia più chiaro il senso di tutto il libro è il primo racconto, Le
leonardiadi, scritto tutto il seconda persona, in cui il protagonista-autore
accompagna la figlia a ujna gara per bambijni, alla fine delal quale anche gli
adulti potrebbero partecipare a ujna corsa campòestyre, cui però l’autore non
parteciperà. “Perché non ha i corso?”, chiederà alla fine la figlia. Ma lui è
un genitore e, per fortuna, non deve correre per vincere.
C’è, in tutti questi racconti, in
modo diverso ma sempre presente, una malinconia e un senso di morte che fa
pensare ad anni che sembrano spensierati, animati dall’ebbrezza di una
conquistata autonomia, di sfide a grandi cose, ma che hanno in sé qualcosa di
dolente. Il filo conduttore di tutto il libro è l’arrivo della linea d’ombra, quando
quell’esaltazione sfuma nella consapevole responsabilità dell’età adulta. Lì
viene meno la “mentalità predatoria”, e ci si pongono le domande.
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