RISENTITI E
RASSEGNATI
Forse, il motivo per cui i figli
del ’68 (e del ’77) sono convinti di aver perso, è che hanno vinto.
E’ la riflessione che mi ha
suggerito la lettura del saggio di Guido Mazzoni, I destini generali, pubblicato da Laterza. Perché l’analisi colta,
profonda e ricca di riferimenti alla saggistica politica e a quella
psicanalitica di Mazzoni parte dall’assunzione del concetto di “mutazione
antropologica”, che ha segnato il pensiero del Pasolini luterano, per tornare
alla dialettica dell’illuminismo francofortese e al pessimismo di Kojève, fino
a una conclusione intelligente ma assai negativa, e cioè che “non esiste alcuna
controforza organizzata che proponga un’idea di mondo alternativa a quella
occidentale”, e che questo è un bel guaio.
Un guaio perché, malgrado la Western way of life abbia “distribuito
alle masse comodità che in passato spettavano solo alle élites”, per Mazzoni l’io
occidentale è incoerente e vive tranquillo, indifferente e soddisfatto, sentendosi
esonerato dalla politica. E spiega come la metamorfosi che si è verificata
abbia a che fare con le forme e le politiche del desiderio, e che le masse
l’abbiano vissuta come una conquista. Un progresso fatto di libertà soggettiva,
di disponibilità di beni materiali e delle esperienze una volta riservate a
pochi eletti. Metamorfosi che ha comportato la nascita di un’estesa classe
media edonista, nichilista, individualista e narcisistica, “a proprio agio nel
vitalismo, nel consumo, nella libertà sessuale”. E che ha introiettato il libertinismo e gli atteggiamenti trasgressivi un tempo
appannaggio delle avanguardie intellettuali.
Per Mazzoni, il risultato è che
si sono persi i punti di riferimento di una generazione che nel cambiamento
credeva: i comportamenti si sono secolarizzati, patria, rivoluzione, impegno e
militanza sono parole che hanno perso significato, e anche il senso del dovere,
l’etica dell’emancipazione, il rispetto per il sistema sociale di appartenenza
si sono allentati. Dunque, l’età delle rivoluzioni è stata sconfitta e la
metamorfosi è risultata funzionale a un capitalismo di nuovo tipo, più
universale e più pervasivo.
La conclusione però è che
Mazzoni, di fronte al nuovo quadro sociale, culturale e psicologico, si sente
smarrito, perché non ha un modello alternativo da proporre, e riconosce che
nessuno vorrebbe tornare indietro, e rinunciare alle comodità del capitalismo
postmoderno: cibo, tecnologia, comfort, mobilità, diritto alla libera
espressione del pensiero.
Ecco, qui mi pare che si debba
inserire una riflessione che né Mazzoni (troppo giovane) né chi ha vissuto il
’68 o il ’77 sembra disposto a fare. Se la mutazione antropologica temuta da
Pasolini è avvenuta, è proprio perché certe conquiste hanno allontanato il
bisogno di immaginare un mondo diverso e una organizzazione sociale più giusta.
Conquiste che, mi pare evidente, sono anche il frutto delle lotte di quella
generazione e della presa di coscienza collettiva che ne è derivata. Se oggi è
difficile proporre nuovi modelli di mobilitazione, questo è dovuto al fatto che
nessuno crede più nella realizzazione del comunismo e in un progetto di
rivolgimento generale della società. E che la progressiva realizzazione di
ideali socialdemocratici impedisce lo sviluppo di conflitti drammatici.
E’ un male? Soltanto perché c’è
chi ha nostalgia di manifestazioni di piazza, di una fede sacrale in un futuro
radioso, di un risentimento sociale che non ha più motivo di essere? Mi pare di
cogliere, nel testo di Mazzoni, una sorta di rimpianto per un periodo in cui
c’erano tanti motivi per augurarsi una rivoluzione, mentre oggi non sapremmo
più trovarne uno. Ma non è forse in questa assenza di drammatiche
diseguaglianze, di ingiuste divisioni di classe, di condizionamenti sessuali,
di mancata emancipazione femminile che si è inverata la scommessa di quella
generazione? E non è proprio in quella visione “politeista”, che Mazzoni
individua come un problema, che è nata la libertà da rigide fedi e da ideali
rigorosamente condivisi? I figli del ’68, invece, sembrano risentiti e
rassegnati, come se gli fosse stata tolta la possibilità di continuare
all’infinito una lotta che, in gran parte,
ha dato i frutti che si proponeva di ottenere.
Che poi la nostra sia una società
profondamente imperfetta, liquida, frammentata, edonista e senza ideali, è
verissimo. E infatti ci sono mille motivi per immaginare nuove mobilitazioni.
Ma senza consapevolezze collettive non può accadere. Bisogna che quel che preme
alle porte prenda corpo, diventi parola d’ordine di nuove avanguardie, per poi
diventare patrimonio comune.
Per ora, mi pare si possa dire
che le ideologie non siano state assassinate, ma siano morte di morte naturale,
per esaurimento del loro ciclo; che nuove scommesse debbano ancora nascere e
nuovi obiettivi concretizzarsi; che le forme di mobilitazione e di solidarietà
del passato siano morte per sempre e che quello che accadrà domani non possa assomigliare
a quello che è stato ieri. Che ci piaccia o no.
E piuttosto che cullarsi nella rassegnazione e nei risentimenti, chi ne ha la forza può mettere le proprie
risorse al servizio del nuovo progetto sociale e politico che si farà avanti,
accettando la prospettiva che non avrà niente a che fare con i gloriosi
movimenti, le poderose manifestazioni, le “belle bandiere” del passato.
(Da “l’Immaginazione”, luglio 2015)
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