IL RESISTIBILE
AVVENTO DEL LIBROIDE
Derrick
Storm, che la Cia chiama quando si tratta di fare indagini riservate e segretissime,
di ritorno da una vacanza sulle Alpi, salva l’aereo su cui sta volando
inerpicandosi, con le sue doti di rocciatore, sull’ala dell’aereo e riparando
un inspiegabile guasto. Ma altri aerei hanno incontrato gli stessi problemi e
sono precipitati, con importanti personalità a bordo. Storm indaga, viaggiando
tra Monaco, Panama e l’Egitto, incontrando donne bellissime e terroristi fanatici
con progetti diabolici di sottomettere il mondo con un’arma letale…
Questa
la sostanza di Deadly Heat, di
Richard Castle, Fazi editore, 2015. Un giallone pieno di ritmo, con tratti che
ricordano il Fleming di 007 .
Certo,
la scrittura è piuttosto piatta, con parecchie cadute di stile. Il libro, però,
nasconde un piccolo mistero, che mi è stato segnalato dall’amico Giorgio
Casadio. Se diamo un’occhiata alle bandelle, scopriamo che Castle è l’autore di
numerosi bestseller, che il suo primo libro è stato pubblicato quando andava
ancora al college e che ha meritato un premio per la letteratura del mistero.
In quarta di copertina c’è la foto di un bel giovane, sotto la quale però
compare non un nome, ma “American Broadcasting Companies, Inc”. Per essere
sicuri di questa paternità industriale basta andare al copyright, dove troviamo
la conferma, perché non è del signor Richard Castle, ma degli ABC Studios, la
famosa industria televisiva. E in effetti Castle è il protagonista di una serie
di telefilm gialli, della ABC, trasmessi anche in Italia, in cui è uno
scrittore che lavora assieme a una detective (come i protagonisti del libro).
La foto della quarta, infine, è quella dell’attore che impersona Castle nel
telefilm, un certo Nathan Fillion.
Notizie
confermate da Wikipedia, che allega la foto del solito attore belloccio, e ci
racconta che alcuni dei libri di Castle sono degli pseudobiblion (cioè libri immaginari), che venivano citati nella
prima serie del telefilm, e che sono stati scritti solo in seguito al successo
del prodotto televisivo. Significativo infine che la serie televisiva,
apparentemente ambientata a New York, viene girata a Los Angeles. Un gioco di
specchi, una serie di indicazioni che si rimandano l’una all’altra, nomi di
personaggi che coprono altri personaggi, senza darci spiegazioni chiare.
Se
andiamo a vedere come Amazon pubblicizza il libro, poi, scopriamo che “Malgrado
sia il personaggio di una fiction, Richard Castle pubblica e promuove i suoi
libri nella vita reale”.
In
rete, però, c’è anche un sito della serie italiana dove, a un ammiratore che
chiede: “Chi scrive i libri di Richard Castle?”, si risponde: “Ovviamente
un’altra persona, dato che Castle è un personaggio immaginario”. Dunque, il
problema è che, contrariamente a quanto vorrebbe farci credere il risvolto del
libro, Castle-scrittore non esiste, e nessuno ha la paternità di questi libri.
Nel sito, invece, ci sono commenti entusiastici di lettori convinti che
l’autore sia l’attore Fillion, o che Castle esista davvero. Solo un lettore,
confuso, alla fine si chiede: “Ma chi ca… li scrive, questi libri?”.
Possiamo
immaginare che i libri siano, semplicemente, un prodotto industriale, come
quello cinematografico: uno scrive un soggetto, altri scrivono la
sceneggiatura, un revisore dà un po’ di unitarietà al racconto. Una catena di
montaggio che, sia pure con qualche meccanicità, funziona.
Ora,
non mi pare ci sia niente di immorale a produrre libri, pseudolibri o libroidi,
non so come chiamarli, con un metodo industriale. Lo si fa da sempre col cinema
e con la tv; perché non farlo coi romanzi? Certo, bisognerebbe almeno
dichiararlo, ma non è un processo produttivo vietato. Però, come si fa a
produrre un buon romanzo con tanti autori? Che stile avrà mai? Che personalità
trasparirà da quelle pagine? Potrà contenere le ansie, i dubbi, i problemi del
mondo che descrive? E considerato quanto si è lottato per superare la
frammentazione tayloristica del lavoro, possibile che adesso la si applichi
alla produzione intellettuale? Perché dobbiamo abbassare il libro allo stesso
livello di un prodotto metalmeccanico? Che se ne trae?
A
meno che, dopo questo passo verso l’industrializzazione della scrittura, il
destino della produzione del libro, come quello dell’automobile, non sia quello
di passare dalla catena di montaggio alla automazione, alla linea robotizzata.
Ecco, forse la ABC ci sta già pensando. Perché non far produrre, in serie, a un
buon computer, dozzine di romanzi che prendono spunto dalle serie televisive?
Romanzi scritti dal tenente Colombo, dall’ispettore Barnaby , dal commissario
Montalbano? Be’, non vedo l’ora.
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