LA FANTASIA E’ MEGLIO DELLA REALTA’
Quando Pierre Javelin, dipendente dell’Istituto nazionale per la bellezza e
l’estetica, dopo una giornata passata a vendere cosmetici torna a casa,
scopre che la sua chiave non funziona più, e che in casa sua si è installata una
coppia che sostiene di abitare lì’ da sempre. Quando telefona alla moglie, lei
ha il tempo di dire poche parole e la linea cade. Quando va in ufficio non
riesce a fare la sua firma. Il protagonista della Città senza cielo, di Jean Malaquais, edizioni Cliquot, ha perduto
la sua identità e non la ritroverà più.
Si tratta di un romanzo distopico, ambientato in un sistema
chiuso, la Città, dove le case sono
così alte che non si può vedere il cielo, e dove domina una burocrazia
misteriosa e occhiuta, che controlla tutto. Le persone che Javelin incontra
assomigliano ai personaggi del Castello
dI Kafka: allusivi e licenziosi, sanno ma non dicono, conoscono i problemi di
Javelin ma o non vogliono o non possono aiutarlo veramente. Lo vediamo
confrontarsi con i nuovi inquilini di casa sua, l’enorme signor Bomba e la
sensuale moglie Kouka, la sua direttrice, l’imperscrutabile signorina Limbert,
il persecutorio controllore Babitch (che non possiede nemmeno una sedia), la
cameriera dell’albergo dove si rifugia, con l’insopportabile nipote Horace e
l’unico essere affettuoso, il gatto Simon.
In un insensato vagare tra l’Istituto nazionale di idiosincrasia
applicata, l’Istituto nazionale della
calza indistruttibile, l’Istituto
nazionale dei sigilli e delle stimmate, uffici che lo accusano di far finta
di essere chi non è, e lo dichiarano inesistente, o morto, Javelin dovrà
accettare che la sua identità è stata cancellata per sempre.
Il libro, uscito in Francia nel 1953,
ha avuto una importante prefazione di Norman Mailer e l’autore, morto nel 1998,
scrive in francese ma è di origini polacche.
Colpisce, leggendolo oggi, il taglio narrativo, vicino a un filone di
fantascienza psicologica che ha avuto un momento di vitalità ma forse è stato
dimenticato troppo presto. Conta che il libro ha sostanza, perché mette insieme
una scrittura affinata e inventiva, lo schema di una società dove vigono regole
incomprensibili e i ritratti di personaggi che hanno rilievo pur essendo, per
certi versi, bidimensionali.
Gli accosto Il mio nome è mostro, di una giovane scrittrice britannica, Katie
Hale, uscito da liberilbri. Anche
questo è un libro che si inserisce in un filone ben preciso: quello dei
racconti del dopobomba, in cui pochi
sopravvissuti (qui sono due donne), occasionalmente rifugiati in sotterranei
isolati, abitano un mondo distrutto da una guerra e da un’epidemia che ha
eliminato il genere umano.
Se lo schema è noto (basti pensare a Dissipatio H.G. di Morselli), lo
svolgimento invece è originale. Perché la prima parte del libro è scritta in
prima persona da una donna, abituata alla solitudine da sempre, quasi
asessuata, che ha un passato di vera misantropia, con buone doti pratiche e
quindi capace di organizzare la vita alla Robinson, che costruisce lentamente
una parvenza di normalità. Ma la seconda parte è scritta dalla sua Venerdì: una
bambina, una enfant sauvage, che è vissuta
senza rapporti col mondo, chiusa in una clinica sotterranea, che conserva solo
vaghi ricordi del mondo di prima.
Il racconto è quindi insieme quello della
vita delle ultime due rappresentanti dell’umanità che cercano di arrangiarsi, e
insieme il processo di crescita e di conquista del linguaggio della bambina
selvaggia.
Questi due libri hanno
il pregio di essere di facile lettura, ma qualcuno storcerà il naso dicendo che
fanno parte di filoni più o meno fantascientifici, e per di più già molto
coltivati. Leggendoli, però, si ha la piacevole sensazione di essere usciti da
una palude di scritture del tutto sprovviste di fantasia, come sono la maggior
parte dei libri usciti negli ultimi anni, in particolare in Italia. Qui invece
viene affrontata una sfida, quella di lavorare al di fuori del reale, che
merita attenzione. Perché la scrittura che ripete esperienze personali, nel
mondo che viviamo tutti i giorni, anche intense, ma banalmente inserite nel
quotidiano, spesso non riesce a uscire dalla dimensione diaristica. Mentre lo
sforzo di immaginare mondi altri, personaggi del tutto immaginari è, in fondo,
il vero ruolo della letteratura. Perché le narrazioni intimistiche, magari
arricchite con segnali della contemporaneità – messaggi digitali, posta
elettronica – ci parlano di cose che conosciamo molto bene; forse troppo. Ma
raramente mettono in discussione il mondo in cui si svolgono. I libri di cui
parliamo qui, invece, mettono in scena (uno con grande preveggenza) i difetti
di equilibrio della nostra era. E di fronte ai quali la nostra propensione a
coltivare la narrazione intimistica non solo non giova, ma forse finisce per
svolgere la funzione di distrarci dai veri problemi del vivere.
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