lunedì 24 maggio 2021

L'INFODEMIA CI HA VIRTUALIZZATI

La pandemia ha prodotto una messe di instant books; alcuni sono alte ricognizioni sulle pestilenze, da Omero a Camus; altri sono racconti personali di come si è trascorso il periodo di clausura, con toni più o meno intimistici; altri ancora sono profezie su cosa ci aspetta, in tutti i sensi. Ci sono anche opere di grande qualità, quasi tutte però accomunate dalla caratteristica della precarietà: sono invecchiate in poche settimane, man mano che la cronaca ci dava i nuovi contorni del diffondersi della malattia e delle conseguenze che ne sono derivate.

Trovo meno caduco un volume a firma di Lella Mazzoli e Enrico Menduni,  Sembrava solo un'influenza, sottotitolo: Scenari e conseguenze di un disastro annunciato, Franco Angeli. Il vantaggio di questo lavoro è che non parla tanto di pandemia,quando di infodemia. Non è una parolaccia, il termine è già codificato dalla Treccani: è la “Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento”. Il volume contiene, in appendice, anche un intervento di Massimiliano Panarari sulla politica e uno di Giandomenico Celata sull'economia, ma nella sostanza è una ricognizione su cos'è successo nel mondo della comunicazione.

Il punto di partenza è che la clausura ha imposto la virtualizzazione di molti dei nostri atti quotidiani: più uso di moneta elettronica, di smartphone e computer, e meno negozi, riunioni in presenza, rapporti personali. Con malizia, si aggiunge, più liti domestiche, meno rapporti extraconiugali e meno comportamenti illegali. Nel chiuso delle nostre case, siamo passati con disinvoltura dalla comunicazione mediale (radio, tv, web) a quella sociale (i social networks). In questo nuovo modello circolare della comunicazione si sono aperti i confini tra i dispositivi e tutti hanno fatto di tutto, senza divisioni tra informazione, intrattenimento e dialogo interpersonale. E la videochiamata, fin qui poco usata e forse anche temuta (chi ha voglia di farsi vedere spettinato – non è il mio problema - e in pigiama?) è diventata di uso comune, per riunioni di lavoro, per  pranzi famigliari come per lezioni scolastiche e universitarie.

Interessante è sentire la voce dei giornalisti, che col nuovo intreccio comunicativo hanno a che fare. La parola chiave del nuovo paradigma informativo è la narrazione: la sete di informazione che è cresciuta negli utenti ha richiesto che tutta la trasmissione e la ritrasmissione di parole e immagini assumesse la struttura di una messa in scena, quasi un unico grande spettacolo che ha attraversato diagonalmente tutti i media. In questo modello il ruolo originale, naturalmente, è quello svolto dalla rete, anche se per certi versi, paradossalmente, è accaduto anche che fosse la vecchia tv a colonizzare internet, che ha finito per essere lo strumento di ritrasmissione di quello che nasceva nei mezzi tradizionali.

Il fatto che molti giornalisti abbiano lavorato da casa (smart vorrebbe dire brillante, piacevole: non tutti sono d'accordo) ha prodotto una centralizzazione del lavoro. Senza riunioni in presenza, le procedure si sono semplificate, ma lo scambio e la dimensione collettiva sono venuti a mancare. Si vive qualcosa che assomiglia a un tempo di guerra, in cui molte delle regole usuali sono sospese e l'attenzione si concentra sulla malattia e sul senso di instabilità che si è creato nel sentire collettivo. In questo, come abbiamo verificato tutti, il ruolo di scienziati e clinici è stato cardinale. Mai avevamo avuto una presenza così costante e pervasiva di tecnici in ogni genere di struttura comunicativa.

I nuovi processi comunicativi, e il continuo ricorso alla ibridazione tra mezzi mainstream e new media ha messo in luce un certo ritardo professionale. Sono diventati improvvisamente digitali anche i “dinosauri” della carta stampata: anche se non sempre c'è stata la competenza necessaria per saper capire e riconoscere la qualità del messaggio. Leggere la comunicazione digitale richiede la capacità di filtrare, di verificare i contenuti, e districarsi in un universo in continua ebollizione non è semplice: né per chi ha cultura ma non disinvoltura tecnologica né per chi, nativo digitale, ha i mezzi tecnici ma poco retroterra culturale. C'è di nuovo, in questo quadro, che forse la nuova alleanza tra i media ha reso di nuovo necessario il ruolo dei mediatori, dei quali ci si era illusi di poter fare a meno.

In conclusione: quando, e se, la pandemia sarà veramente finita, torneremo alle vecchie abitudini, alla vecchia organizzazione del lavoro, alla produzione tradizionale di  informazione e intrattenimento? Di solito, non succede. Quando le cose cambiano, piaccia o non piaccia, non si torna indietro. E nella storia, in effetti, non è mai successo.

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