IL PORNOLIBRO
Lo
so, sono in ritardo, come al solito, terribilmente in ritardo.
Non mi ero accorto che il libro, fino a ieri consumo di
un’élite intellettuale,
è
improvvisamente diventato merce di consumo popolare. Almeno come simbolo…
Le ultime statistiche dicono che
in Italia il numero di “lettori di almeno un libro all’anno” - curiosa
categoria che, almeno su base demoscopica, dovrebbe farci risultare un popolo
vagamente alfabetizzato – è in diminuzione. Personalmente la cosa non mi
stupisce: non si tratta di lettori, ma di acquirenti casuali di un soprammobile
da esibire sul tavolino del salotto. Che in tempi di crisi si risparmi su un
cosa inutile come i soprammobili, non dovrebbe stupire nessuno. Quello che mi
stupisce, invece, è che di alcuni di questi libri si possa continuare a fare
pubblica esibizione come si trattasse di letteratura e non di qualcosa che ha a
che fare con inconfessabili vizi privati, e cioè di bibliopornografia.
Una precisazione. A cosa ci
riferiamo quando parliamo di pornografia? Per il Treccani, “Trattazione o
rappresentazione di oggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di
stimolare eroticamente il lettore”. Insomma, il porno è un modo di rappresentare le cose in modo tale da dare la
sensazione di partecipare a qualcosa di invidiabile ma difficilmente
realizzabile (partecipare ad atti di sesso sfrenato, nel caso della pornografia
sessuale), senza che invece se ne abbia avuto in nessun modo la capacità, il
coraggio, o forse nemmeno la volontà.
Ora, perché dovremmo limitare il concetto di
pornografia soltanto all’erotismo? Come il mondo è pieno di seduttori a parole,
i salotti sono pieni di madames Verdurin, di lettori velleitari, che poco sanno
di lettura e di libri, ma vorrebbero tanto averne familiarità. Pensiamo un
momento a cosa significherebbe lo stesso tipo di illusoria partecipazione ad
atti altrettanto poco diffusi dell’erotismo sfrenato, come per esempio un
rapporto di assidua frequentazione con la lettura. Ne verrebbe fuori una
pornografia del libro, una bibliopornografia,
una visione edulcorata e del tutto artificiosa, come nel caso della pornografia
sessuale, della lettura. Né stupisce che di questa forma di godimento illusorio
si siano sviluppati interi filoni, perché in fondo vantarsi della dimestichezza
col libro, per qualcuno, è un po’ come per il macho latino vantarsi delle sue conquiste.
Veniamo al sodo. Solidamente in
testa alle classifiche dei libri più venduti. Dimmi che credi al destino, di Luca Bianchini, Mondadori, è un
accogliente polpettone sentimentale, attraversato dallo spleen di una gioventù in preda a una sfiga insuperabile, io direi
metafisica, e a una tendenza alla transumanza internazionale, che ha avuto
numerosi precedenti in storie di giovani che vagano per l’Europa; e in questo
caso di giovani italiani trapiantati senza particolare motivi a Londra si
tratta. Tra le avventure di Ornella, una ragazza un po’ sventata, della sua
commessa Clara, preoccupata soprattutto di
curare il suo gatto, di un paio di sfigatoni di contorno e di un
napoletano allegro e spiantato di sostegno, la vicenda scorre felicemente e il
libro si lascia leggere senza troppi problemi. Un clima un po’ a metà tra i
Celestini di Benni e la Belleville di Pennac. Cosa ci porta dunque alla bibliopornografia? Il fatto che Ornella
è una libraia, e che tutto si svolge attorno alla sua libreria (italiana) a
Londra. Bello, confortevole, illuminante: i libri fanno pensare, aiutano a
vivere ecc.
Ma è proprio così? Neanche per
sogno. Perché di libri, in questo romanzo, non si parla mai. Sì, si dice che “Diego
[il napoletano, n.d.r.] non avrebbe mai immaginato che i romanzi potessero
davvero cambiare un po’ la vita”. Ma esempi, niente. E succede che Clara si
lanci nell’affermare “C’è sempre l’istante in cui un libro ti chiama”; ma a
parte che vorrei sapere qual è, questo istante, ancora una volta sono
affermazioni senza riferimenti bibliografici. C’è, è vero, un momento di grande
felicità critica in cui Diego consiglia un libro “Perché parlava di Napoli e
non era scritto da Erri De Luca”, ma è un esempio isolato. Siamo in una
libreria, ma non si parla di libri: non del loro contenuto, non dei loro
protagonisti, non delle illuminanti avventure e dei drammi descritti dai classici
che dovrebbero avvicinarci al perché della vita. Niente. Solo amorucci e sfiga
giovanile.
La libreria come luogo geometrico
delle emozioni, delle passioni, degli svelamenti. Del resto altri casi non
mancano: Niall Williams, in Storia della
pioggia, Neri Pozza, racconta di una ragazza che è confinata a letto, ma
sopravvive perché ha tanti libri intorno. E avanti con l’Assassinio in libreria, La
libreria degli amori inattesi, Il
segreto della libreria sempre aperta e dalla affascinante Libraia dai capelli rossi.
Un ultimo, illuminante esempio. L’apprezzato
regista David Cronenberg ha dato alle stampe un romanzo, Divorati, pubblicato in Italia da Bompiani, dove troviamo,
all’undicesima riga della prima pagina del testo, questa frase: “Sentiva
l’odore dei libri stipati negli scaffali alle loro spalle, avvertiva il feroce
calore intellettuale che emanavano”. Sic,
si sarebbe scritto un tempo, in nota. Ma oggi val la pena riflettere. Il più
andante romanzo pornografico non avrebbe potuto fare di meglio. In fondo se si
scrivesse: “Sentiva l’odore dei sessi che si erano uniti nell’alcova alle loro
spalle, avvertiva il feroce calore erotico che emanavano”, non si sarebbe
discostato che di pochi gradi concettuali da quello che scrive Cronenberg. Il
lettore che ne avesse la propensione, è autorizzato alla masturbazione
intellettuale quanto il lettore di un sano libro porno è invitato a praticare
l’autoerotismo dalla dettagliata descrizione di un atto sessuale.
E’ un problema? E’ una visione
snobistica, francofortese, della lettura e della cultura popolare? Spero di no.
Perché non c’è niente di male, in definitiva: l’importante è che si legga
davvero. E la bibliopornografia ha
ancora molto da dirci.
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