IPOCRISIA E SOLITUDINE
C’è chi ha pensato bene di dire che
Amélie Nohomb ha usato 120 pagine per dire quello che Perrault aveva detto in
poche righe. E’ stata Michela Murgia, non ne nascondiamo il nome, e ha usato
l’isola felice in cui, su Raitre, rara
avis, Augias parla di libri, per… sconsigliare la lettura di un libro. Mirabile
interpretazione del compito del servizio pubblico radiotelevisivo: sconsigliare
la lettura di libri di qualità.
Naturalmente ognuno ha diritto di non
vedere al di là del suo naso. Ma è difficile immaginare che chi ha aperto Riccardin del ciuffo (Voland, 2017, 119
pp., 15 euro) non abbia capito che, rispetto a una riscrittura della fiaba
omonima, questo libro affronta una storia e dei nodi problematici che non solo
vanno al di là di quanto voleva segnalare la morale della favola di Perrault,
ma che scava in profondità in alcuni dei temi più dolorosi e inquietanti del
presente.
E’ vero che la storia, come quella
della fiaba, è quella di un ragazzo bruttissimo e intelligentissimo e di una
ragazza bellissima e (erroneamente) considerata stupidissima. Ma c’è molto di più. C’è un’ironia profonda
che segna tutto il racconto, e che toglie ogni venatura dolciastra al tessuto
fiabesco; e c’è una fantasia libera e surreale. Il padre di Deodato fa il cuoco
delle ballerine dell’Opéra e la madre “ha malanni di ottima qualità nel alloro
gentile mitezza”. Quando nasce l’intelligentissimo figlio e cercano di
insegnargli a dire “mamma”, lui si chiede se non lo prendano per un imbecille. Quando
la mamma si augura che sappia dire una frase intera, a pochi mesi, lui si
esprime con formalità: “Stai proprio bene con questo vestito”. Diventerà un
affermato ornitologo.
Anche Althea, bellissima e
silenziosa, ha difficoltà ad affermarsi. Per fortuna i genitori la affidano a
una nonna originalissima con una passione per i gioielli, considerati un
complemento della vita della donna, che lei eredita e che ne farà una fortunata
indossatrice per i migliori gioiellieri.
Ma essere bellissimi può essere un
problema come essere bruttissimi. I due protagonisti della storia incontrano
pari difficoltà a integrarsi. Lui arriva a pensare che se la natura ha deciso
di rifornirlo di ogni orrore si tratta di un progetto che non va contrariato.
Lei, che non è stupida come tutti vorrebbero credere, ha semplicemente una
vocazione alla contemplazione che le permette di distrarsi da quello che la
circonda.
Che i due si debbano incontrare non è
solo una funzione del racconto fiabesco, ma una necessità per due personalità
fondamentalmente non banali e inadatte ad accettare la ovvietà del buon senso
comune. Che questo avvenga mentre aspettano di partecipare a un talk show televisivo è lo strumento col
quale Amélie Nothomb allunga il suo sarcasmo sui processi produttivi della
falsa rappresentazione del reale in tv. Costretti ad attese assurde, gli ospiti
delle trasmissioni aspettano isolati in modo che il loro potenziale isterico si
esasperi e la loro performance si
avvicini al crollo nervoso. Ma i nostri protagonisti ne usciranno indenni e
innamorati.
La morale di Perrault è che è bello
ciò che piace, e che ha spirito chi parla al nostro cuore. La morale di Amélie,
molto più complessa, è che non essere ipocriti spesso comporta la solitudine. Che
anche la bruttezza può essere un progetto da portare a compimento, e che la
contemplazione silenziosa può essere un talento. Ma che la libertà, la capacità
di scegliere autonomamente la propria strada e i propri valori, hanno sempre un
costo.
Da "L'Indice", maggio 2017
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