La
resistibile ascesa del priapismo letterario
“A forza di stare a contatto con
i boschi e i sassi, avevano contratto il vizio del silenzio”. “Continuavano (…)
a inabissarsi in quella voragine di abeti e di sterpi senza sapere come fare a
trovare un biliardo, un bar aperto, a far accadere qualcosa dentro quel
silenzio”. Mi ero annotato qualche frase di
Marina Bellezza, il romanzo della Avallone uscito da Rizzoli qualche anno
fa, perché mi era sembrato che la costruzione faticosa, lo stile, che voleva
essere originale e suggestivo a tutti i costi, meritasse una riflessione. Ne ho
incontrati altri, in questi anni, di testi che usavano una lingua pesante, troppo
cerebrale per essere piacevole, articolata in espressioni volutamente
arbitrarie, che piegavano la lingua in un contorcimento stridente e inutilmente
fantasioso. Ma torno ancora alla Avallone: “Il buio si agitava nel vento, tra
le ripe, tra i boschi, come una creatura viva”; il buio che si agita? Come una
creatura viva? Mah. E quando i giovani protagonisti investono un cervo con la
macchina: “Fu lo schianto feroce di un corpo fatto di lamiere contro un altro
corpo ancora più duro”. Il cervo più duro della macchina? Difficile crederci. Sarà stata la licenza poetica. Ma più avanti non andava meglio: “Conosceva
il linguaggio delle bestie, glielo aveva insegnato suo nonno da bambino. Sapeva
che il linguaggio, senza parole, arriva a coincidere con la radice nuda delle
cose”. Mamma mia.
Mi è tornato in mente questo
filone di ricerca stilistica, oggi, prendendo in mano La compagnia delle anime finte, di Wanda Marasco, Neri Pozza,
adesso candidato allo Strega. L’incipit suona così: “Si chiamava Vincenzina
Umbriello e aveva portato questo nome come un boato nella casa sul vico
Unghiato…”. Poco più avanti leggo: “il crollo generalizzato del panico sopra la
carne con cui ha vissuto…”; e ancora: “i capelli impigliati a un perfetto
silenzio…”; e più avanti: “una lampada immaginatrice”. Una lampada che
immagina? E un nome portato come un boato? E come la mettiamo con il crollo del
panico? E soprattutto i capelli che si impigliano al silenzio (al, non nel) sono veramente impressionanti. E mi sono detto: ma è come la
Avallone, con il buio che si agita. E’ la stessa sintomatologia.
E ho pensato che la autrici,
afflitte dallo stesso morbo, si devono esser congratulate con se stesse: che intensità, che
coinvolgimento emotivo, che stile inventivo e potente. Mentre a me sembra
soprattutto che usino una scrittura pesante, barocca, artificiosa, gonfia;
direi erettile. Uno stile fortemente involuto, che sembra ideato apposta per
nascondere un certo vuoto di idee e l’esilità degli intrecci, personaggi di
poco spessore in una trama poco plausibile.
Una sorta di priapismo letterario. Sia ben chiaro, qui son due scrittrici per
caso, non è un problema di genere: ne sono afflitti scrittori e scrittrici
nella stessa misura. Un gonfiore stilistico che vuole dare al lettore la
sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di ardito e di unico; una
prepotente assunzione del diritto di usare il dizionario stocasticamente, per
ottenere il massimo stupore nel fruitore.
Certo, si potrebbe sostenere che
Gadda faceva lo stesso, che la lingua la inventava anche lui, che piegava alle
sue esigenze sintassi e terminologia. Ma innanzitutto era Gadda, e poi lo
faceva con maestria inimitabile. Ma soprattutto con uno stile che aveva una sua
coerenza interna. Oggi, invece, e non solo per le autrici qui citate, sembra ci
sia una rincorsa a épater les bourgeois,
ad avvolgerci in un vocabolario che si vorrebbe immaginifico, a sbalordirci con
gli effetti speciali.
Cosa sarà successo? Probabilmente
il priapismo letterario nasconde carenza di maturazione personale, mancata
metabolizzazione della complessità del carattere degli uomini, assenza della
capacità di trasfigurazione narrativa dell’esperienza. Ma tutto
questo, da solo, non produce lo stile rococò che si manifesta, ogni tanto, ai
nostri giorni.
A ripensarci, forse, la causa di
tutto si può intravvedere in uno dei più terribili accidenti che si sono
abbattuti sui giovani del nostro tempo: il moltiplicarsi delle scuole di
scrittura creativa. Non ne so molto, ma temo siano ambienti nei quali si
insegna a costruire uno stile molto personale e peculiare, che distingua
l’aspirante scrittore dalla piatta lingua che usano quelli che hanno qualcosa
da dire e non si arrovellano nel tentativo di trasformarsi in novelli Joyce.
Scuole che dovrebbero distribuire gusto e conoscenze, ma che rischiano di
facilitare la diffusione di un morbo preoccupante, come tutti i priapismi. Ci
vorranno vaccini, interventi chirurgici, terapie complesse; ma speriamo che,
nel tempo, sia possibile debellare la malattia.
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